LibertàEguale

Da Segre a La Russa, la staffetta della pacificazione

di Vittorio Ferla

 

Il mazzo di rose bianche che Ignazio La Russa, neoeletto presidente del Senato, dona a Liliana Segre, senatrice a vita e presidente anziana dell’assemblea, è il primo passaggio simbolico di questa legislatura. Le rose bianche sono icona di innocenza e di purezza, scelte non a caso dalle spose nella maggior parte dei bouquet. Chissà che, magari inconsapevolmente, il gesto di La Russa non nasconda anche un desiderio di purificazione definitiva della destra storica italiana dal suo controverso passato fascista. Illazione difficile da confermare, visto l’orgoglioso senso di appartenenza del fondatore di Fratelli d’Italia a quella tradizione. Ma il bianco è anche il colore della pace. E qui è più facile fare deduzioni, visto che sul tema della pacificazione La Russa imposta buona parte del suo intervento di esordio come presidente della camera alta, citando perfino il celebre discorso del 9 maggio 1996 di Luciano Violante, appena eletto presidente della Camera. Ma la Rosa Bianca è anche il nome di un gruppo di giovani cattolici tedeschi impegnati nella resistenza contro la dittatura nazista. Fu di esempio, ma ebbe vita breve: i suoi principali componenti vennero arrestati nel 1943, processati e condannati a morte mediante decapitazione. Difficile che sia stata questa, tuttavia, l’ispirazione che ha mosso il dono di La Russa.

Con l’elezione di ieri per la prima volta un politico di origine missina occupa la seconda carica dello Stato. E tra una decina di giorni Palazzo Chigi ospiterà per la prima volta una esponente della tradizione postfascista. Tutto ciò accade proprio in occasione del centenario della Marcia su Roma che si svolse il 28 ottobre 1922, primo passo dell’affermazione del regime fascista in Italia. A ricordarlo è proprio Liliana Segre nel discorso di apertura dei lavori del Senato. “In questo mese di ottobre nel quale cade il centenario della Marcia su Roma, che dette inizio alla dittatura fascista, tocca proprio ad una come me assumere momentaneamente la presidenza di questo tempio della democrazia che è il Senato della Repubblica”, dichiara la senatrice. “E il valore simbolico di questa circostanza casuale si amplifica nella mia mente perché – continua – ai miei tempi la scuola iniziava in ottobre; ed è impossibile per me non provare una sorta di vertigine ricordando che quella stessa bambina che in un giorno come questo del 1938, sconsolata e smarrita, fu costretta dalle leggi razziste a lasciare vuoto il suo banco delle scuole elementari, oggi si trova per uno strano destino addirittura sul banco più prestigioso del Senato”. Segre svolge un discorso in apparenza semplice e diretto, ma ricco di senso. È consapevole che il manico della coalizione di centrodestra è impugnato esattamente dai nipoti del regime che le hanno tolto la libertà. Ma ammette: è il bello della democrazia. Così, la maggioranza “ha il diritto-dovere di governare” e le minoranze “hanno il compito altrettanto fondamentale di fare opposizione”. L’imperativo è “preservare le Istituzioni della Repubblica, che sono di tutti, che non sono proprietà di nessuno, che devono operare nell’interesse del Paese, che devono garantire tutte le parti”, avverte Segre. Conscia dell’attesa che grava sull’azione del centrodestra ricorda che “le grandi democrazie mature dimostrano di essere tali se, al di sopra delle divisioni partitiche e dell’esercizio dei diversi ruoli, sanno ritrovarsi unite in un nucleo essenziale di valori condivisi, di istituzioni rispettate, di emblemi riconosciuti”. Qui gioca un ruolo cruciale la Costituzione, ovvero, “il testamento di 100 mila morti caduti nella lunga lotta per la libertà; una lotta che non inizia nel settembre del 1943 ma che vede idealmente come capofila Giacomo Matteotti”. Un richiamo limpido, che riceve una reazione un po’ freddina dai banchi del centrodestra. Ma la lezione di antifascismo di Segre non finisce qui. “Le grandi nazioni dimostrano di essere tali riconoscendosi coralmente nelle festività civili, ritrovandosi affratellate attorno alle ricorrenze scolpite nel grande libro della storia patria”, aggiunge la senatrice alzando l’asticella. Si chiede: “Perché non dovrebbe essere così anche per il popolo italiano? Perché mai dovrebbero essere vissute come date ‘divisive’, anziché con autentico spirito repubblicano, il 25 Aprile festa della Liberazione, il 1° Maggio festa del lavoro, il 2 Giugno festa della Repubblica?”. Sul punto, Segre chiede “gesti nuovi e magari inattesi”.

La risposta del neopresidente del Senato arriva immediatamente. Un po’ inaspettata. “Non c’è una sola parola di quello che ha detto che non abbia meritato un applauso”, dice La Russa rivolto a Segre. E poi ammette che le tre date citate dalla senatrice – 25 aprile, 1 maggio, 2 giugno – alle quali aggiunge la nascita del Regno d’Italia, “hanno bisogno di essere celebrate da tutti” e che, su questa base, “un’Italia pacificata, coesa e unita” è la precondizione per affrontare le sfide di questo tempo. In proposito cita la frase che Luciano Violante pronunciò nel discorso di investitura da presidente della Camera: “un clima coeso aiuterebbe a cogliere la complessità del nostro paese, a costruire la liberazione come valore di tutti gli italiani, a determinare i confini di un sistema politico, per il semplice fatto di vivere in questo paese, di battersi per il suo futuro di volerlo più prospero e più sereno”. La Russa ricorda insieme gli omicidi del commissario Calabresi, del giovane militante di destra Sergio Ramelli, e di Fausto e Iaio, militanti della sinistra del Leoncavallo di Milano, con l’idea di chiudere una volta per tutte le ferite della sua stessa gioventù combattente.

Sia chiaro: al di là di queste dichiarazioni, nessuno può attendersi da La Russa un’abiura. Il presidente del Senato ha sempre rivendicato con orgoglio la fedeltà alla sua storia ideologica e la sua identità di fascista. E tuttavia, dopo più di settant’anni di allenamento nella palestra della democrazia italiana la destra italiana non deve più fornire prove di democrazia. Proprio La Russa, nell‘intervento di ieri, nel suggerire la necessità di riaprire la stagione delle riforme istituzionali, avverte che la prima parte della Costituzione resta intangibile, di fatto riconoscendo il primato dei valori repubblicani fondati sulla Resistenza. Resta una domanda di pacificazione ideologica e di riconoscimento reciproco che oggi, in verità, è già nelle cose. Dopo lo sdoganamento di Fini ad opera di Berlusconi nel 1993, la destra postfascista governa infatti l’Italia già dal 1994, benché non sia ancora arrivata a ricoprire i vertici delle istituzioni repubblicane. E nessuno può dire che da parte di questi lontani epigoni del fascismo sia mai derivato un pericolo per la tenuta della democrazia italiana. Tutto ciò grazie anche al potere pedagogico della prassi istituzionale.

Oggi, semmai, c’è un dato politico nuovo. La destra va al potere senza aver più bisogno dell’intermediazione di Silvio Berlusconi. Ignazio La Russa è stato eletto senza i voti di Forza Italia. Il vecchio patriarca ne esce umiliato. La rottura in seno al centrodestra apre una crepa profonda nella coalizione che ha vinto le elezioni e che dovrebbe rappresentare il pilastro del governo Meloni. Intanto, però, la destra postfascista, che dal 1994 al 2011 aveva governato per interposto Cavaliere, comincia l’assalto al cielo. Da sola.

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