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L’Italia dopo Draghi

di Amedeo Lepore

 

Per uno dei maggiori economisti mondiali, Paul Krugman, il salvataggio dell’euro dieci anni or sono ha fatto di Mario Draghi “il più grande banchiere centrale della storia”, più di due presidenti della Fed quali Paul Volcker e Ben Bernanke. Questa condizione di assoluto prestigio e autorevolezza, peraltro, è stata la motivazione principale per la sua scelta come capo di un governo di unità nazionale, in uno dei momenti più difficili della storia della Repubblica.

Guardando ai fatti e non alle opinioni, si può affermare che Draghi sia riuscito a riportare l’Italia al centro delle relazioni internazionali, perseguire una linea faticosa di riforme, avviare celermente l’attuazione del piano di ripresa e reggere, al netto di qualche errore, un quadro politico estremamente complesso.

Perché, allora, far prevalere il cupio dissolvi della mancata conclusione di questo lavoro, aprendo una fase di notevole incertezza? La risposta secondo cui comunque si sarebbero tenute le elezioni dopo pochi mesi non è convincente. Anche perché le modalità di rottura dell’assetto di governo rischiano di precludere la possibilità di una guida adeguata alle necessità del Paese e al suo ruolo euroatlantico, indebolendo le capacità di reazione a un’ardua congiuntura.

Uno dei più importanti analisti di Continuum Economics, Andrew Wroblewski, avvalora la preoccupazione per un’uscita di scena di Draghi che lasci un’agenda incompiuta degli interventi volti a rafforzare la crescita a lungo termine. In questo modo, le prossime scadenze del PNRR potrebbero subire ritardi e dilazioni, con un posticipo o un’interruzione dei trasferimenti finanziari da parte dell’Unione Europea, in aggiunta a rinnovate incognite fiscali per il Paese.

A questo mutevole contesto nazionale, si affiancano i problemi della Banca Centrale Europea, che, pur avendo adottato una condotta più prudente della Federal Reserve, deve valutare il pericolo di un’incongruenza tra l’impiego del nuovo strumento anti-frammentazione a favore dell’Italia e il rispetto dei criteri di bilancio indicati dalla UE. Eppure, come hanno evidenziato Romano Prodi e Giorgio La Malfa sulle colonne de Il Mattino, i risultati economici relativi allo scorso anno appaiono particolarmente propizi, permettendo un recupero inaspettato.

Il Fondo Monetario Internazionale, anche se con minore ottimismo di altri, ha calcolato un aumento del Pil nel 2022 pari al 3%, collocando l’Italia in una posizione migliore di Germania (1,2%) e Francia (2,3%), ma anche di Stati Uniti (2,3%) e Giappone (1,7%). La Cina stessa farebbe registrare un incremento del prodotto (3,3%) di soli tre decimali superiore al nostro. Se questo andamento si confermasse anche per il prossimo futuro, il Paese dimostrerebbe di saper ripercorrere stabilmente il cammino dello sviluppo e rientrare a pieno titolo nel novero delle potenze più avanzate, abbandonando un ruolo residuale. Tuttavia, l’FMI ha rivisto al ribasso le cifre del 2023 per eurozona (1,2%) e Stati Uniti (1%), prevedendo uno scenario di stagnazione nel caso di blocco del gas russo e ulteriore rialzo dell’inflazione.

L’Italia, procedendo con il passo del gambero, l’anno venturo crescerebbe solo dello 0,7%. Questa insolita correlazione tra un periodo precedente superiore alle aspettative (il 2022) e uno successivo che si delinea peggiore (il 2023) richiede una riflessione sullo stato e sulle prospettive dell’economia, specialmente alla vigilia di una scadenza elettorale gravida di apprensione per l’avvenire. In ogni caso, questa discordanza consegna agli italiani la responsabilità di una scelta e le chiavi per la soluzione di un intricato busillis tra un certo dinamismo dell’economia interna e il deterioramento del contesto globale.

Fermo restando l’incomprensibile affossamento di un governo che ha promosso una strategia espansiva e una tenuta ordinata dei conti pubblici, continuando a operare con efficacia pur dimissionario, è chiaro che bisogna guardare alle condizioni per scongiurare l’interruzione di un percorso di riforme e diradare le nubi che si addensano sulla ripresa. L’elemento irrinunciabile è il mantenimento di una piena sintonia con gli impegni europei.

Questa è l’unica direzione di marcia in grado di assicurare il progresso del Paese, attraverso un esecutivo in grado di spendere con oculatezza e tempestività le enormi risorse disponibili, continuando ad alimentare trasformazioni di fondo, investimenti e sviluppo produttivo.

Il ritorno di una politica politicante, lontana dai contenuti e dagli snodi reali del cambiamento, sarebbe estremamente dannoso e spingerebbe la situazione verso esiti infausti. Per questa ragione, partiti e alleanze dovrebbero aprirsi alle migliori competenze e connessioni con la società, rivoluzionando un sistema politico ormai esanime.

Solo così si potrebbe fare buon uso dell’esperienza tracciata da Draghi, evitando di considerarla una parentesi e sperando non si debba rimpiangere un metodo e una capacità di governo, finora invidiati da molti altri Paesi, il cui termine è oggetto di seria inquietudine.

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