LibertàEguale

Il Pd, asse del sistema politico italiano. Proprio perché liberale

di Enrico Morando

 

Purtroppo, in Italia, i riformisti di ispirazione liberaldemocratica e liberalsocialista sono oggi assai più deboli di ieri. Come ho cercato di dimostrare nella relazione all’Assemblea di Orvieto, questa debolezza impedisce loro di approfittare pienamente di un radicale mutamento di contesto -la crisi verticale del fondamentalismo di mercato, il ritorno dellAmerica di Biden e la conseguente prospettiva dellAlleanza delle democrazie, il Next Generation EU come embrione della nuova capacità fiscale dellUnione, laccordo per la tassazione delle grandi corporation come concreta apertura del processo di costruzione di nuove forme di governo globale-, che sembra rendere possibile la rimozione dei principali fattori di crisi della sinistra liberale in tutto lOccidente.

Questa debolezza “nazionale” dei riformisti si manifesta come divisione delle loro forze. E questa divisione è, a sua volta, frutto di una durissima sconfitta: prima nella madre di tutte le battaglie -il referendum costituzionale del 2016-, e poi alle Politiche del 2018, quando gli italiani hanno formulato verso il tentativo riformista la più severa delle sentenze, consegnando la maggioranza dei seggi parlamentari a due forze -la Lega e il M5S-diversamente nazionalpopuliste.

Poiché il PD -allora casa comune dei riformisti- non faceva e non fa eccezione rispetto ad altre forze di sinistra di governo in Europa e nel mondo, ed è quindi caratterizzato dalla presenza al suo interno di due componenti (per farla breve: quella à la Salvati-Dilmore e quella à la Piketty), era prevedibile che una sconfitta strategica di quelle dimensioni -subita sotto la direzione dei liberaldemocratici/liberalsocialisti-, determinasse una brusca oscillazione del pendolo verso le posizioni di sinistra massimalista (è accaduto nel Labour, stava per accadere nel Partito Democratico americano, dopo la batosta di Hillary).

In questo senso -persino aldilà delle due diverse e parimenti improbabili candidature “riformiste”– lesito del successivo congresso del PD era scritto. Qui interviene un primo elemento di discussione con Alberto De Bernardi, che – interloquendo con la mia recente intervista al Riformista – afferma che non di una fisiologica oscillazione del pendolo interno, si sarebbe trattato, ma di un irreversibile mutamento di natura: il PD “trasformato in un partito massimalista-una brutta riedizione dei Ds-che aveva iscritto tutto il suo futuro nella strategia dellalleanza con i populisti del M5S”. Ritenendo leadership e linea politica del PD non più contendibili (tra le due, già richiamate, posizioni); edespunta la cultura liberaldemocratica e liberalsocialista dal profilo identitario del partito”, Alberto e altri riformisti decidono di uscire dal PD per continuare la loro battaglia riformista in altri partiti, o rinunciando ad avere un partito.

Se penso che abbiano sbagliato (sia chiaro: continuando a collaborare pressoché quotidianamente con loro, in Libertà Eguale, nella fondazione PER che Alberto così efficacemente presiede, utilizzando ogni occasione di confronto e di iniziativa comune con Italia Viva e Azione, oltreché con Base Italia), non è perché pensi che “non c’è salvezza” fuori dal PD, ma perché considero non ben fondato il giudizio sulla espunzione” dal PD della cultura politica liberale di sinistra (e, di conseguenza, quello sulla non contendibilità” di linea politica e leadership).

Non voglio utilizzare argomenti che si concentrino sulle regole di vita interna (Statuto) del PD: mi limiterò a dire che, malgrado intenzioni diverse della maggioranza del PD stesso, esse sono rimaste (che sia stato merito un poanche di qualche riformista affezionato al tema?) esattamente quelle che erano, quando ci hanno consentito prima di perdere bene (Renzi versus Bersani e Vendola, per la candidatura alla premiership), e poi di stravincere.

Voglio invece tentare di sciogliere il nodo della presenza (o assenza) della cultura liberaldemocratica nel PD e della sua effettiva influenza… Per farlo, ricorrerò ad un fatto di cronaca politica e ai risultati di una indagine demoscopica che proprio Libertà Eguale e PER presenteranno martedì 14 dicembre in una conferenza stampa.

Per primo, il fatto: quando il Presidente Mattarella conferisce lincarico di formare il governo a Mario Draghi, la maggioranza del PD è fresca reduce dallaver sostenuto lipotesi del Conte ter, non rifiutando neppure laberrazione dei “responsabili”. Difficile immaginare una posizione più lontana da quelle di Mister euro. Eppure tutti -a partire dallo stesso Mattarella- danno per scontato che il PD garantirà pieno sostegno al tentativo di Draghi. Perché tanta sicurezza? Semplicemente perché tutti sanno che -dato il suo atto di nascita, la cultura politica prevalente, la funzione politica esercitata- il PD non potrà fare nulla di diverso.

Certo, alcuni dei suoi massimi dirigenti si affaticheranno a dimostrare lesistenza di una sorta di congiura di non meglio precisati  poteri forti volta a far cadere il Conte bis; altri, molto più numerosi, si rifiuteranno di riconoscere il ruolo di Renzi nel creare le condizioni per liniziativa del Presidente Mattarella, ma si tratterà di chiacchiericcio buono per una edizione di quotidiano e unoretta di talk show.

Resterà un fatto rilevante: mentre Il sostegno a Draghi di tutti gli altri grandi (meno piccoli) partiti dovrà essere verificato e “costruito”, quello del PD appare tanto naturale da poter essere addirittura presupposto. È una questione di funzione politica: il PD è lasse stabilizzatore del sistema politico italiano praticamente dalla sua formazione. Una funzione che non ha perso, malgrado il drastico ridimensionamento del consenso popolare che la sorreggeva.

Ed è una questione di cultura politica, ben chiarita dal sondaggio di opinione cui ho fatto riferimento sopra: la maggioranza assoluta degli elettori del PD sente Draghi come “vicino” alle posizioni del proprio partito. Un dato che costituisce un unicum tra i più grandi partiti italiani. E poiché Draghi è più facilmente assimilabile al “nostro” liberalismo inclusivo (Salvati e Dilmore), che al massimalismo di sinistra à la  Piketty …

Tutto questo -vorrei essere chiaro- non è detto per negare la persistente debolezza dei riformisti del PD. Né per esaltare risultati (a partire dalla formazione stessa del Governo Draghi), che non si sono determinati in forza di una loro esplicita e trasparente battaglia politica ed ideale, interna al PD stesso. Al contrario, è detto per dimostrare la persistenza di una presenza e di una potenzialità: la cultura liberale di sinistra tra gli elettori del PD è viva, non è stata “espunta”. Non è dunque impossibile fondarvi una battaglia politica interna al PD che credibilmente aspiri a ribaltare -col metodo democratico descritto dallo Statuto- i rapporti di forza usciti dallultimo Congresso.

Infine, il “bipopulismo” e il rapporto col Movimento Cinque Stelle. Lasciamo perdere “chi si accontenta delle giravolte opportuniste di di Maio”, e andiamo alla sostanza: è pensabile in Italia una lunga stagione di governo riformista, senza poter contare su di un partito a vocazione maggioritaria che le fornisca leadership e posizionamento politico-programmatico fondamentale?

La differenza, tra Alberto e il sottoscritto, non sta nella risposta a questa domanda: sta nel fatto che lui ritiene che a questa esigenza si possa e si debba rispondere con la costruzione di un nuovo partito, dando per perso alla causa il PD. Mentre io penso che realismo politico e valutazione dellesperienza compiuta tra il 2007 ed oggi assegnino maggiori possibilità di successo alliniziativa per rilanciare il PD come grande partito di centrosinistra a vocazione maggioritaria e a leadership riformista. Tra le ragioni che depongono -secondo me- a favore della seconda strada, mi interessa qui rilevare che mentre lidea della costruzione ex novo di un partito a vocazione maggioritaria passa non solo attraverso un completo rivolgimento del campo politico del centrosinistra, ma anche -se si vuole conferirle un minimo di realismo- attraverso una definitiva modificazione delle regole elettorali in senso proporzionale, la strada che io propongo non ha bisogno di tornare ad un sistema che priva gli elettori della possibilità/potere di decidere col voto sia sulla rappresentanza, sia sulla formazione del governo. La trovo quindi una soluzione sia più realistica, sia più fiduciosa negli elettori (quelli del PD, che decidono nel Congresso; e quelli dellItalia, che decidono alle Politiche).

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