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Caro Enrico, è ancora il Pd la casa dei riformisti?

Alberto De Bernardi venerdì 10 Dicembre 2021
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di Alberto De Bernardi

 

Come sempre mi accade leggo con molta attenzione le prese di posizione pubbliche di Enrico Morando, perché ritengo che contengano sempre elementi di novità, originalità e libertà di pensiero assai rari in questi tempi grami nei quali la politica è ridotta a una palestra di banalità autoreferenziali, riprodotta h24 a reti unificate da talk show tutti uguali, e il riformismo vive una delle sue stagioni più difficili, schiacciato tra populismo, sovranismo e massimalismo che a partire dal 2018 si sono impossessati dello spazio pubblico e hanno rimodellato il sistema politico.

In questo scenario gli articoli e gli interventi di Enrico sono una sorta di lanterna di Diogene che getta fasci di luce sul difficile sentiero che devono percorrere i liberali di sinistra per fare uscire il progetto riformista da questa condizione di minorità politica e assumere un nuovo protagonismo nella costruzione di quel “partito per Draghi” che oggi rappresenta la carta migliore a disposizione della politica per fare il bene del paese.

Ma sul raggiungimento di questo obbiettivo, oltre alla forza degli avversari, pesano anche le divisioni del fronte riformista che negli ultimi tre anni ha conosciuto una vera e propria diaspora fuori dal Pd, che ne era stata la casa comune dal 2007. Quella diaspora ha messo in discussione una convinzione che pareva una certezza acquisita: il Pd è l’approdo del riformismo italiano e quella casa non ha alternative. Questo concetto ha assunto varie declinazioni, da quelle identitarie che scambiano il Pd con una sorta di chiesa  fuori dalla quale “non c’è salvezza”,  a quelle più prosaiche che tengono in conto gli equilibri elettorali, ma in tutti i casi ha perso progressivamente la sua aura di principio quasi dogmatico man mano che il Pd si era venuto trasformando in un partito massimalista – una brutta riedizione dei Ds –  che aveva iscritto tutto il suo futuro nella strategia dell’alleanza con i populisti del M5S.

Per molti riformisti quel dogma si è trasformato in un dubbio e l’unità di quel campo passa dalla risposta che si da ai due interrogativi che nascono da quel dubbio: è ancora il Pd la casa dei riformisti? e esistono le condizioni perché possa tornare ad esserlo?

Da questo punto di vista la lunga intervista di Enrico Morando a “il Riformista” del 1 dicembre (ripubblicata qui su Libertà Eguale) vuole essere esplicitamente una risposta a questi interrogativi, perché assume l’unità dei riformisti come nodo ineludibile, ma questa volta le sue risposte non mi hanno pienamente convinto.

Innanzitutto l’intervista ha un esordio molto forte dal quale traspare grande onesta intellettuale: “se io fossi convinto che la cultura liberaldemocratica e liberalsocialista non fosse una componente fondamentale della cultura politica del Pd, non farei parte di questo partito”. Personalmente sono uscito dal PD proprio perché ho letto nelle scelte della maggioranza che si era imposta alla guida del Pd dopo la sconfitta del 2018 l’esplicito tentativo di espungere quella cultura dal profilo identitario del partito, attribuendole di fatto la sconfitta. Mi sono chiesto pertanto su quali basi logiche Morando – dopo la proposta del partito unico demopopulista di Bettini e Zingaretti (la foto di Terni che è la negazione del Lingotto), dopo il taglio dei parlamentari (cioè una riforma della costituzione piegata agli interessi di quell’alleanza), dopo il sostegno al ministro Bonafede, dopo “Conte o morte”, dopo il delirio sul decreto Zan, dopo i tentativi continui di indebolire Draghi – è ancora convinto che quella cultura sia ancora presente nel partito? In sostanza cosa deve ancora succedere perché debba per forza pensare come me e con quanti hanno abbandonato il partito?

La risposta implicita a queste domande è che Morando non trova convincente la teoria del “bipopulismo”, cioè tra trasformazione ormai definitiva del sistema politico imperniato, prima del ‘18 su un polo di Csx a guida riformista, nella sua doppia declinazione liberaldemocratica e socialdemocratica, e uno di  Cdx a guida liberalconservatrice, in un altro, successivo a quella data, nel quale entrambi i fronti sono egemonizzati da forze populiste e sovraniste, cui il Pd da un lato e FI dall’altro hanno ceduto lo scettro. E’ possibile che quella teoria sia eccessivamente semplificatoria, e che il rischio del Pd sia solo quello di cedere definitivamente al massimalismo dei Provenzano, degli Orlando, del Landini e del “ monaco socialcristiano” Bettini e che quella trasformazione non si sia ancora verificata. Ma se questo non è accaduto, non è certo per merito dei riformisti rimasti del Pd, che non hanno promosso nessuna battaglia per evitare la deriva bipopulista, o massimalista che dir si voglia:  anzi, con operazioni improvvide come quella sulla riduzione dei parlamentari o con l’ambiguo sostegno al giustizialismo di Bonafede l’hanno alimentata.

Chi è uscito avrà forse scelto una scorciatoia facile, rispetto alla lunga battaglia interna, ma va riconosciuto che se oggi c’è Draghi e nel ‘19 Salvini non ha preso “i pieni poteri” lo si deve principalmente, se non esclusivamente, ai riformisti usciti dal Pd, sottoposti al dileggio di varie “bestie” populiste, nel silenzio assordante di chi avrebbe dovuto sostenere quelle battaglie in nome di quella stessa cultura politica che Morando rivendica come ancora vitale nel partito e riconoscergli i risultati ottenuti. Senza i vari Renzi e Bellanova, Bonetti e Marattin, nel ‘19 saremmo andati a votare regalando all’Italia il governo sovranista e nel ’20 avremmo avuto il Conte III con Ciampolillo. In assenza di battaglie comuni dei riformisti esterne e interne al Pd definire i torti e le ragioni diventa assai difficile: in ogni caso quelli “fuori” hanno assestato colpi decisivi all’egemonia populista e sovranista, mentre quelli dentro il Pd hanno ben pochi successi da annoverare, tali da giustificare l’assioma che i “fuoriusciti” son quelli in errore.

C’è da chiedersi: se tutti fossimo rimasti all’interno e Italia Viva si fosse ridotta all’ennesima corrente del partito insieme con Calenda e a qualcun altro potremmo annoverare gli stessi risultati in una legislatura in cui la sinistra era minoritaria? Ma soprattutto perché i riformisti Pd non hanno sostenuto la battaglia per liberare il campo dal Conte II e quando è accaduto hanno alimentato la pietosa bugia che il merito fosse di Mattarella e non dei riformisti che dentro e fuori il parlamento hanno sostenuto quella battaglia?

Infine, un’ultima nota critica. Morando derubrica a secondaria la questione M5S: un po’ perché sono cambiati, un po’ perchè ormai nel campo del Csx hanno perso l’egemonia; quindi una battaglia per emarginarli definitivamente è di retroguardia: è più ideologica che sostanziale. Una posizione che trovo discutibile non solo perché l’intreccio tra populismo e massimalismo è a mio parere del tutto solido nella cultura politica del gruppo di comando del PD, ma soprattutto non capisco quali siano  le ragioni per le quali ci si debba accontentare delle giravolte opportuniste di Di Maio, accettando la vulgata secondo la quale due frasi smozzicate rappresentino una specie di Bad Godesberg? Dove è il vantaggio? Se su questo non ci distinguiamo dai massimalisti  che stanno nel PD e che sono costretti a scambiare lucciole per lanterne, altrimenti cade la constituency del loro progetto,  su che cosa la facciamo la battaglia all’interno? In nome dell’unità interna o perché rompere l’asse con i 5s è ormai impossibile? E soprattutto se si accetta di non aprire il confronto con i riformisti che stanno fuori dal Pd, perché – e traspare anche dalle parole di Morando –  presuppone rompere il cordone ombelicale tra Letta e Conte, su quali basi possiamo dare vita a una prospettiva di riunificazione del fronte, che non sia una richiesta di abiura delle ragioni che hanno prodotto quella diaspora, quando invece proprio da lì sono nate le uniche iniziative riformiste che hanno generato risultati positivi.

Riunire i riformisti costa per tutti, richiede una riflessione e una nuova partenza comune; non una pacca sulla spalla e un “perdono”. Richiede una serie di risposte che sono proprio i riformisti del Pd che devono dare.

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