LibertàEguale

Letta rinnega il Jobs Act e Tony Blair all’inseguimento della sinistra grillina

di Vittorio Ferla

 

Domenica scorsa è stata scritta una nuova complicata pagina sulle sorti del Partito democratico dopo il 25 settembre. “È assolutamente improbabile la possibilità di tornare al dialogo con questo vertice del Pd”, ha chiarito Giuseppe Conte, capo del M5s, nel corso di una manifestazione elettorale pentastellata ad Avellino. “L’attuale vertice del Pd – spiega Conte immaginando lo scenario politico post elettorale – rappresenta assolutamente un problema: non ci sono le condizioni per immaginare oggi la possibilità di dialogo”. Un messaggio – servito in stile obliquo ma di facile interpretazione – che mette i piedi nel piatto del prossimo congresso del Pd. Lanciato ai maggiorenti di quel partito che, in caso di un risultato modesto, potrebbero cogliere l’occasione per liberarsi del segretario con l’obiettivo di spostarsi più a sinistra, come nelle migliori tradizioni della casa.

La sfida del posizionamento è evidente nelle parole dell’avvocato del popolo: “Io non voglio alimentare polemiche personali tra leader. Chiedo però che Letta spieghi alla comunità Pd perché ha abbandonato l’agenda Conte 2 ed è rimasto folgorato dall’agenda Draghi, è passato da 1 milione di cittadini salvati dalla povertà in pandemia a 6 euro lordi al mese in busta paga per i lavoratori, che al massimo ci pagano una colazione”. Insomma, Conte – che evidentemente ha ancora il dente avvelenato – prova a rivendicare l’esistenza di una propria agenda che il Pd avrebbe tradito a vantaggio di quella dell’invidiato successore. E rilancia il mito di un programma socialpopulista che i dem dovrebbero tornare a sposare se davvero si considerano ancora progressisti.

L’avvocato sa di toccare un nervo ben scoperto. Enrico Letta è in difficoltà sia a destra che a sinistra. Da una parte, è schiacciato dalla revanche progressista del M5s che stuzzica il rimpianto di una parte del suo partito per una grande alleanza frontista con i grillini che avrebbe almeno avuto il merito di rispolverare un’identità di sinistra troppo sbiadita dalla grigia vita di governo. Dall’altra, Letta è sfidato dalla manifestazione muscolare di identità riformista dura e pura esibita dalla coppia Renzi-Calenda. I due non perdono occasione di punzecchiarlo quotidianamente per ricordargli che, così facendo, il ritorno nelle braccia del populismo grillino è inevitabile.

La posizione un po’ equivoca del Pd è anche causa e conseguenza di scelte di coalizione confuse. Dicendo no a Renzi e sì a Fratoianni e Bonelli, Letta ha creato senza volerlo le condizioni per consegnare Calenda a Italia Viva pur lasciando comunque aperta una prateria a sinistra. Il risultato è che adesso sia il M5s che il Terzo Polo cercano di contendersi due quote dell’elettorato dem, deluse per motivi diametralmente opposti.

E che fa Letta in questo caos? Purtroppo per lui ne produce di nuovo, anche quando cerca di mettere una toppa. È successo proprio in un tweet di domenica scorsa. “Il programma del @pdnetwork supera finalmente il #JobsAct, sul modello di quanto fatto in Spagna contro il #lavoropovero e precario. Il blairismo è archiviato. In tutta Europa sono rimasti solo Renzi e Calenda ad agitarlo come un feticcio ideologico”: così scrive il segretario del Pd, con una ruvidezza polemica perfino eccessiva da parte di chi ha fatto dell’esitazione pallida la sua impronta stilistica. Tradotto dal politichese, è chiara l’intenzione di parlare all’oligarchia interna per dimostrare la distanza che lo separa dai Dioscuri del braccio italiano di Renew Europe. In questo modo, Letta sembra dare ragione a quanti sono convinti che il segretario “comandi per modo di dire” e che piuttosto debba rendere conto a un nucleo storico di formazione berlingueriana che conserva il controllo sul partito e affonda le proprie radici culturali nella rivoluzione d’ottobre. Così facendo, però, il rischio del ridicolo è dietro l’angolo. La frasetta polemica sull’archiviazione del blairismo è un po’ buffa se si pensa che il laburismo di governo di Tony Blair (sostenito dalla Terza Via elaborata da Anthony Giddens) fu, tra la metà degli anni 90 e il primo decennio del duemila, un punto di riferimento simbolico cruciale proprio per quell’Ulivo che resta il mito politico di Letta e di molti democratici di allora. Se a questo si aggiungono le perenni resistenze antimoderne della nomenclatura postcomunista, impegnate a chiudere ogni spazio di agibilità politica alla declinazione italiana del blairismo, viene proprio da ridere. In buona sostanza, come si fa ad archiviare qualcosa che in Italia non si è mai realizzato? Il dibattito politico italiano non è nuovo a cortocircuiti del genere. Basti pensare alla demonizzazione sistematica della rivoluzione liberista e thatcheriana di Berlusconi: una roba mai vista, di cui nessuno ha traccia in Italia, pura mitologia alimentata dai fumi dell’ossessione ideologica.

Si osserverà, correttamente, che il blairismo che condanna Letta è quello che cercò di introdurre Matteo Renzi in Italia, parecchi anni dopo l’originale britannico, in particolare con la riforma del Jobs Act. Ma la storia sta lì a dimostrare che il tentativo riformista di quel governo fu osteggiato dall’interno del suo stesso partito, fino all’exploit della resistenza frontista contro la riforma costituzionale messa in atto da D’Alema, Bersani, Speranza e dalla loro allegra compagnia. Il tema del lavoro è un caso a parte. Per conoscerlo fino in fondo bisognerebbe rileggere i libri e gli articoli di Pietro Ichino, il giuslavorista che lo ispirò con l’obiettivo di forzare i blocchi di un mercato del lavoro sclerotizzato, fondato sull’ipersindacalismo a tutela dei lavoratori già integrati e delle categorie già protette, ma incapace di aprire e offrire nuove opportunità agli outsider che ne restavano esclusi. Come ha scritto Giuliano Cazzola, “il pacchetto varato nel 2015 dal Governo Renzi ha rappresentato la più importante modernizzazione del diritto del lavoro degli ultimi decenni, anche per la complessità e l’ampiezza degli argomenti affrontati”. Pure i dati – diffusi negli anni successivi dallo stesso ufficio stampa del Pd – sono lì a dimostrarlo. Certo, la riforma andava completata – ne sa qualcosa l’economista e senatore Tommaso Nannicini, che fu protagonista di quella stagione – ma a quel governo non fu dato il tempo necessario per farlo. Ovviamente, poi, il jobs act ha subito la feroce opposizione della ‘ditta’ postcomunista, lo stigma della Cgil e l’ostilità della giurisprudenza del lavoro e di quella costituzionale: il che non dimostra necessariamente che la riforma fosse sbagliata. Semmai dimostra quanto è ancora forte la fitta trama conservativa del mondo sindacale e giudiziario e della vecchia sinistra reazionaria. Per dovere di cronaca, infine, bisognerebbe ricordare che il primo premier a promuovere la necessità di introdurre il Jobs Act fu proprio Enrico Letta. Ecco perché la deriva gauchiste dell’ex premier suona strana. Né sembra sufficiente il lungo esilio francese per giustificare il passo indietro. In ogni caso, pare assai improbabile che rinnegare il Jobs Act (oggi, con il senno di poi) possa portare molti voti in più alla corsa dei dem e migliorarne l’immagine.

1 Commenti

  1. Carlo Pisani mercoledì 7 Settembre 2022

    Ottime riflessioni sopratutto in materia di controriforma da parte della Corte costituzionale in ordine ai regimi sanzionatori contro il licenziamento introdotti con il Job Act, che sta a dimostrare come le forze nostalgiche del vecchio 18 (così come della vecchia norma sulle mansioni o sui controlli a distanza), quando non riescono ad avere la forza parlamentare agiscono per via giudiziaria.

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