LibertàEguale

Ma davvero dovremmo tornare al centralismo statale piemontese-borbonico?

di Giovanni Cominelli

 

Paola Taverna, vicepresidente del Senato, esponente di primo piano dl M5S, ha chiesto di rivedere il rapporto Stato-Regioni e di riportare la Sanità in capo allo Stato. Il Fatto Quotidiano, house organ del medesimo partito, propone, in un articolo firmato da Filoreto D’Agostino, l’abolizione delle Regioni e la loro riduzione a Enti di servizio amministrativi. Se si tratta di boutades, bisogna ricordare che il partito che le lancia in piazza ha il 32,7% dei voti, 195 deputati e 92 senatori in Parlamento e attualmente occupa posti-chiave nel Governo. Il punto di partenza delle loro proposte è la gestione anarchica del Covid. A loro fa da sponda l’immancabile Zagrebelski su Repubblica.

 

Ripensare il regionalismo

Che sia necessario un ripensamento del regionalismo lo va dicendo da tempo Piero Bassetti, primo “governatore” e padre fondatore della Regione Lombardia. Se l’istituzione delle Regioni, prevista dalla Costituzione e attivata solo nel 1970, aveva come scopo di rimediare al centralismo monarco-piemontese del 1861, al “mandarinato di Stato della burocrazia centralista” e di sanare la frattura storica tra Nord e Sud, siamo costretti a constatare che l’impresa non ha avuto successo. Piero Bassetti, primo presidente della Regione Lombardia.

La burocrazia continua a detenere le chiavi della Repubblica, lo squilibrio tra Nord e Sud si è aggravato. Fa notare Piero Bassetti, che se nel 1870, fatto 100 il reddito pro-capite nazionale, Il Nord era livello 110 e il Sud a 90, oggi il Nord è al 120, il Sud a 65. Il passo in avanti, costituito dal Nuovo Titolo V della Costituzione del 2001, per un “regionalismo ideale” che ridefinisse i rapporti tra la Repubblica e lo Stato, non ha modificato il “regionalismo reale”, iniziato nel 1970. I Livelli Essenziali di Prestazione, che dovevano definire la qualità minima indispensabile delle prestazioni del Welfare e che dovevano valere per tutto il territorio nazionale, sono stati scritti sulla sabbia, perché le Regioni non sono riuscite ad accordarsi su dove fissare l’asticella: chi in alto, chi in basso. E lo Stato? Immoto. Ha finito per prevalere l’inerzia della spesa storica, che è diventata un vincolo e una zavorra.

Il caos delle regioni

Ciascuna Regione ha camminato per conto proprio. La spesa sanitaria è stata amministrata/distribuita da ogni Regione secondo calcoli politico-elettorali diversi e divergenti, fatalmente condizionata dalla qualità delle società civili regionali. In una società civile, eventualmente permeata, fin dentro le famiglie, dalla camorra, dalla Sacra corona unita, dalla ‘ndrangheta e dalla mafia, la politica e l’Amministrazione pubblica hanno finito per rispecchiarne i fenomeni piuttosto che contrastarne la crescente degenerazione. Dopotutto, il consenso è il nuovo il vitello d’oro della politica. Al “caval donato” del consenso non si guarda in bocca.

La Calabria è l’emblema di questo disastro “democratico”. Ma é solo la punta visibile dell’iceberg. L’intreccio tra politici e apparati amministrativi regionali ha portato a corruzione, a selezione avversa del personale tecnico, a inefficienza, fino a dover ricorrere, per compensare l’illicenziabilità del personale inefficiente e impreparato, all’esternalizzazione delle funzioni.

Attorno alle Regioni è nata una galassia costosa e pressoché inutile di Enti… inutili. Basterà ricordare, come ultimo caso, la famosa Film Commission Lombardia, di cui sono soci Regione Lombardia e Comune di Milano e il cui scopo è quello di promuovere sul territorio lombardo la realizzazione di film, fiction TV, spot pubblicitari, documentari e di ogni altra forma di produzione audiovisiva per aumentare la visibilità del territorio lombardo ecc…

Gli “stipendi” dei Consiglieri regionali, originariamente fissati quali forme di autofinanziamento per i partiti e per i singoli, a fini di prossima campagna elettorale e/o di rielezione, arrivano ormai fino a 10 mila euro lordi mensili, di cui solo 6 mila circa tassabili. Discorso a parte meriterebbe la faccenda delle Regioni a Statuto speciale. L’unica davvero meritevole di tale qualifica è ormai la Provincia autonoma dell’Alto Adige, per ragioni internazionali ben note. Per le altre il titolo è obsoleto e fasullo.

Partire dalla constatazione di questa realtà è la pre-condizione per reagire al neo-statalismo centralistico di ritorno, che approda con un salto mortale all’indietro alle circoscrizioni politico-amministrative progettate dal Ministro dell’Interno Carlo Farini nel 1860 e, infine, ai Prefetti di  Bettino Ricasoli, nel 1861, che applicò il modello francese all’organizzazione dello Stato italiano. Se l’attuale status quo è indifendibile, ancor meno lo è il ritorno allo Statuto albertino-piemontese e all’intreccio paralizzante della burocrazia piemontese con quella borbonica, che governa tuttora il Paese.

Che fare, dunque?

Diminuire il numero delle regioni

Intanto, occorre diminuire il numero delle Regioni. Con quali criteri?

Quello storico, che tiene conto della storia d’Italia, articolata per mille e trecento anni dal 568, anno dell’invasione longobarda, in numerose unità politico-territoriali sovrane, che hanno plasmato storia e geografia del Paese.

E quello geo-economico, che muove dalla vocazione produttiva nazionale e sovranazionale dei territori regionali, in una prospettiva europea, nella quale sono motore di sviluppo le città metropolitane e le Regioni, tra loro collegate da correnti produttive e commerciali che passano sotto i confini nazionali. Basterà pensare alla relazione speciale tra la Baviera, da una parte e Lombardia, il Veneto e l’Alto Adige.

Nel marzo del 1992, dopo la tempesta geo-politica del 1989, che aveva travolto il sistema politico italiano, la Fondazione Agnelli aveva fatto una proposta di assetto regionale della Repubblica, dimensionato su dodici Regioni: 1. Piemonte, Valle d’ Aosta e Liguria tranne la provincia di La Spezia; 2. Lombardia; 3. Veneto, Trentino-Alto Adige, Friuli-Venezia Giulia; 4. Emilia-Romagna, con la provincia di La Spezia; 5. Toscana, con la provincia di Perugia; 6. Marche, Abruzzo, Molise; 7. Lazio, con la provincia di Terni; 8. Campania, con la provincia di Potenza; 9. la Puglia, con la provincia di Matera; 10. Calabria; 11. Sicilia; 12. Sardegna.

Il progetto si presentava probabilmente più realistico del “Breviario di Assago” del 1993 di Gianfranco Miglio che prevedeva un’Unione federale italiana, costruita su tre Repubbliche. Il progetto della Fondazione era piuttosto sulla scia di Carlo Cattaneo, che aveva proposto dapprima una Confederazione degli Stati pre-unitari e poi, preso atto del fallimento del suo progetto federalista, una Repubblica federale fondata sui Comuni, che Gioberti aveva definito sprezzantemente “repubblichette”.

La questione dei poteri

Se i numeri delle Regioni sono più o meno opinabili, decisiva resta la questione dei poteri, dei quali il primo è quello fiscale. Il modello svizzero con tre livelli di imposizione fiscale – comunale, cantonale, federale – resta il più trasparente e il più efficiente. A questo punto si levano dal Sud alti lai – l’ultimo è quello di Roberto Napolitano sul Quotidiano – che gridano al “federalismo dei ricchi” e all’alleanza tra Lega e sinistra padronale. Tanto nella Svizzera dei Cantoni quanto nella Germania dei Länder lo Stato federale ha sempre governato gli egoismi dei ricchi e redistribuito verso i Cantoni/ Länder più poveri. Si può/si deve fare anche in Italia.

Se l’assetto istituzionale ed amministrativo del Paese si è dimostrato da decenni incapace di fornire un quadro allo sviluppo in epoca di globalizzazione, il Covid ha squarciato definitivamente il velo che copre l’obsolescenza e la miseria delle istituzioni istituzionale della Repubblica. Ha fatto notare Piero Bassetti, commemorando i 50 anni della Regione Lombardia, che l’internazionalismo conflittuale e il sovranismo –  pesante o leggero – degli Stati sovrani, ancora regolati dalla logica di Westfalia, non basta a garantire lo sviluppo e le relazioni orizzontali delle economie e delle società. Riconoscere il ruolo decisivo dei Comuni e delle Regioni significa “ridefinire gli strumenti per la trasformazione dei valori in potere”, cioè rinnovare le istituzioni. E’ questo il contenuto più nobile della politica. Qui si parrà la sua nobilitate. Forse…

 

(Pubblicato da santalessandro.org, sabato 28 novembre 2020)

1 Commenti

  1. Gianpietro OLIVARI domenica 29 Novembre 2020

    Splendido Cominelli! Una bella ed, ahinoi, veritiera analisi del problema. Molto opportuno approfondirla e tentare di attuarla. Ma, visto il deserto della politica italiana, viene spontaneo il riferimento biblico: “Vox clamantis in deserto”.

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