LibertàEguale

Putin’s People: la bottega del ‘macellaio’

di Alessandro Maran

Parlare di libri, ha scritto Claudio Giunta, “mi sembra un bel modo, un modo civile di parlare” (“Parlarne bene, cioè bene o male ma sempre con una certa ampiezza, argomentando con precisione, magari soprattutto di libri che sono usciti da un po’, non necessariamente quelli appena usciti, e piuttosto saggi che romanzi. C’è tanto bisogno, lo vedo coi miei studenti…” https://www.ilfoglio.it/…/come-non-sono-diventato…/).

Anch’io parlo soprattutto di libri (e ogni tanto di jazz: ieri, a proposito, Sarah Vaughan avrebbe compiuto 98 anni. Ascoltatela in questo brano tratto da uno degli album più significativi della sua carriera: https://youtu.be/YhEROBiJYYw) e, soprattutto, trovo che parlare di libri sia un bel modo di parlare.
Per spiegare, ad esempio, perché Putin abbia aggredito un paese vicino che non lo aveva provocato, sacrificando la vita dei propri soldati e mettendo in conto, come esito delle sanzioni, una crisi economica devastante per il proprio paese, ci vuole, come ha scritto Anne Applebaum, un po’ di storia (“ma non quella semi-mitologica, finta-medievale, che Putin ha usato in passato per dichiarare che l’Ucraina non è un paese, o che la sua esistenza è un caso, o che il suo sentimento di identità nazionale non è reale “); conta anche l’attaccamento di Putin alla vecchia URSS (“sebbene a volte venga erroneamente descritto come un nazionalista russo, in realtà è un nostalgico imperiale”); conta inoltre la sua “posizione” allo stesso tempo molto forte ed “estremamente precaria” (“un paradosso che molti americani ed europei fanno fatica a capire”); ma forse conta più ancora il percorso verso il potere che ha plasmato profondamente Putin e le persone intorno a lui. Per Putin e la sua cerchia “la protesta è pericolosa. Parlare di democrazia e cambiamento politico è pericoloso. Per impedire che si diffondano, i governanti russi devono mantenere un attento controllo sulla vita della nazione. I mercati non possono essere veramente aperti; le elezioni non possono essere imprevedibili; il dissenso deve essere ‘gestito’ con attenzione attraverso le pressioni legali, la propaganda e, se necessario, la violenza mirata”.
Del resto, se per centinaia di milioni di persone, la caduta del muro di Berlino è stata un grande trionfo (il momento che ha segnato la fine delle odiate dittature e l’inizio di un periodo migliore), per gli ufficiali del KGB di stanza a Dresda, le rivoluzioni politiche del 1989 hanno segnato la fine del loro impero e l’inizio di un’epoca di umiliazioni. Nelle interviste Putin è tornato su quel momento (quando era intento a distruggere documenti nella villa del KGB in attesa di rinforzi che non arriveranno) descrivendolo sempre come un punto di svolta nella sua stessa vita (“Come Scarlett O’Hara che stringe il pugno contro un cielo rosso sangue, Putin ha giurato, a quanto pare, di dedicare la sua vita al ripristino della gloria del suo paese” ha scritto Applebaum).
Sulle origini della visione del mondo di Putin e sull’ascesa della nuova classe dirigente russa è tornata, qualche anno fa, anche Catherine Belton con il suo “Putin’s People: How the KGB Took Back Russia and Then Took On the West” (il libro “Gli uomini di Putin. Come il KGB si è ripreso la Russia e sta conquistando l’Occidente” è pubblicato in Italia da La nave di Teseo).
Catherine Belton, ex corrispondente da Mosca per il Financial Times ora a Reuters, segue i flussi di denaro e padroneggia in modo straordinario l’intreccio labirintico di schemi azionari, delle operazioni di rifinanziamento, delle fusioni, delle società di comodo e dei conti offshore che mettono a nudo il sequestro dell’economia post-sovietica e delle istituzioni statali operato, in modo fraudolento, da un gruppo di ex ufficiali del KGB, o siloviki. All’indagine finanziaria, Belton unisce le testimonianze di una schiera di addetti ai lavori del Cremlino disillusi, ex compari d’affari, diplomatici, ufficiali dell’intelligence, pubblici ministeri, mafiosi e oligarchi. E il risultato, a volte, sembra un romanzo di John le Carré.
La trama sembra, infatti, quella di un thriller geopolitico. Nel bel mezzo del crollo di un impero, la polizia segreta incanala denaro fuori dal paese, creando un fondo nero per ricostruire le loro vecchie reti. Riacquistano il potere, diventano straordinariamente ricchi e si rivoltano contro i loro nemici, prima in patria e poi all’estero. Certo, il passato di Putin nel KGB è diventato una sorta di cliché giornalistico. Ma Belton si sofferma sugli anni di Putin (come agente) a Dresda non semplicemente come un aspetto inquietante della sua biografia, ma in quanto luogo d’origine e di diffusione di elementi culturali e ideologici del regime su cui poi avrebbe presieduto. Come Putin, i siloviki che formeranno la sua cerchia ristretta si sono fatti le ossa nelle operazioni clandestine del KGB negli ultimi anni della guerra fredda; hanno appreso tecniche sofisticate per lavare il denaro attraverso false società all’estero allo scopo di finanziare movimenti politici favorevoli al Cremlino e hanno sviluppato reti illecite per il contrabbando di tecnologia occidentale; hanno seminato disinformazione per screditare i leader occidentali, perfezionato l’uso di materiali compromettenti per ricattare uomini d’affari e funzionari e stringere alleanze con gruppi terroristici e criminalità organizzata. Una cassetta degli attrezzi, aggiornata ovviamente all’era di internet, che ha supportato la presa ferrea sul potere del Cremlino in patria e la sua proiezione politica all’estero.
Tuttavia Putin non emerge da queste pagine come un genio del crimine, una sorta di capo della Spectre intento ad accarezzare il suo grosso gatto bianco. Si tratta, piuttosto, di un uomo senza scrupoli e pieno di risorse, pronto a usare qualunque arma, ad infrangere qualsiasi regola e a sovvertire qualsiasi sistema per consolidare il proprio potere, la propria ricchezza e il proprio prestigio internazionale.
Sebbene sia spesso descritto come un presidente “frutto del caso”, l’ascesa alla presidenza di Putin non ha avuto “molto a che fare con il caso”. Nel 1999, i siloviki lanciano un attacco coordinato alla “famiglia” di Eltsin (parenti, consiglieri e oligarchi) facendo trapelare le prove di episodi di corruzione. Impantanata negli scandali e preoccupata di una restaurazione della vecchia guardia guidata da ex comunisti, la famiglia cerca una figura disponibile per sostituire il presidente malato e proteggere i propri interessi. Chiudendo un occhio sul passato di Putin nei servizi di sicurezza, la famiglia lo nomina (su suggerimento di Sergei Pugachev) primo ministro nell’agosto 1999 e poi, quando Eltsin si dimette bruscamente alla vigilia del nuovo millennio, presidente della Federazione Russa. Temendo un “colpo di stato delle forze del passato comunista”, la famiglia Eltsin si piega, scrive Belton, ad “un colpo di stato strisciante da parte degli uomini della sicurezza”. La volpe, insomma, entra nel pollaio.
Con il loro uomo ora insediato al Cremlino, i siloviki iniziarono a “spartirsi le risorse strategiche del paese”. Hanno preso di mira un’azienda dopo l’altra, sondandone i punti deboli e facendo leva sul passato di ogni uomo d’affari che aveva fatto fortuna nel caos del decennio precedente. Nella loro testa, il ruolo delle istituzioni statali – l’ufficio delle imposte, le forze dell’ordine, la magistratura – non era per nulla il garante di determinate regole in base alle quali tutti gli attori economici dovevano operare, ma era invece quello di una “macchina predatoria” che poteva essere utilizzata per distruggere i rivali e impossessarsi dei loro risorse.
Belton sostiene che anche l’Occidente sia stato accomodante e persino complice. I governi occidentali che predicano lo stato di diritto, il libero mercato e il rispetto della proprietà privata hanno chiuso un occhio sul saccheggio delle imprese russe da parte del Cremlino e dei suoi alleati. Le compagnie occidentali si sono affrettate a firmare nuovi accordi che hanno legittimato i proventi di queste incursioni aziendali; le banche occidentali hanno riciclato il denaro del Cremlino e gli hanno permesso di penetrare nelle economie dell’Europa e degli Stati Uniti; i partiti e le istituzioni politiche occidentali si sono mostrati pronti ad accettare donazioni di denaro sporco russo. “Sembra che l’intera politica statunitense sia in vendita”, dice ad un certo punto a Belton un ex banchiere russo di alto livello.
“Putin’s People” mette, infatti, a nudo la portata della sfida per l’Occidente e la minaccia rappresentati dal denaro e dall’influenza russi. La crescente disuguaglianza sociale e l’ascesa dei movimenti populisti sulla scia della crisi finanziaria del 2008 hanno “lasciato l’Occidente esposto completamente alle nuove tattiche aggressive della Russia per alimentare l’estrema destra e l’estrema sinistra”. La generosità del Cremlino ha finanziato, si sa, i partiti politici che in tutto il continente europeo sono uniti nella loro ostilità sia all’UE che alla Nato. Il “soldi in nero” del Cremlino, lamenta l’ex insider del Cremlino Sergei Pugachev, “sono come una ‘bomba sporca’. Per certi versi c’è, per certi versi no. Al giorno d’oggi è molto più difficile da rintracciare”.

“Putin’s People” si conclude, non per caso, con un capitolo su Donald Trump e su quella che Belton chiama la “rete di agenti dell’intelligence russa, magnati e associati della criminalità organizzata” che lo circonda dall’inizio degli anni ’90. Il fatto che Trump fosse spesso sopraffatto dai debiti ha fornito un’opportunità a quanti avevano i contanti di cui aveva disperatamente bisogno e Belton documenta come la “rete” abbia utilizzato affari immobiliari di fascia alta per riciclare denaro eludendo le normative bancarie più severe dopo l’11 settembre. “Da brividi”, ha scritto infatti il Times. Che Biden non si fidi di Putin, non dovrebbe sorprendere.

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