LibertàEguale

Legge elettorale, il proporzionale non garantisce la governabilità

di Carlo Fusaro

 

 

Camera dei deputati

I Commissione Affari costituzionali

Indagine conoscitiva nell’ambito dell’esame della proposta di legge C. 2329 Brescia, recante «Modifiche al testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 30 marzo 1957, n. 361, e al testo unico di cui al decreto legislativo 20 dicembre 1993, n. 533, in materia di soppressione dei collegi uninominali e di soglie di accesso alla rappresentanza nel sistema di elezione della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica. Delega al Governo per la determinazione dei collegi elettorali plurinominali»

 

Memoria di Carlo Fusaro[*]

 

(25 giugno 2020)

 

1- Ringrazio per l’opportunità di partecipare a questa indagine conoscitiva. Svolgerò il mio intervento secondo questo schema: prima di tutto una spiegazione lampo del metodo che seguirò; a questa farò seguire la mia analisi e valutazione dell’AC2329 a firma del presidente Brescia; infine mi permetterò di avanzare, a titolo esemplificativo, una serie di ipotesi alternative.

 

2- Il metodo. A me pare si debba in primo luogo verificare gli obiettivi che con l’intervento normativo ci si propone di perseguire; ciò presuppone una analisi corretta delle caratteristiche e dei difetti della legislazione vigente; in secondo luogo, si tratta di vedere in che ordine di priorità questi obiettivi sono posti; in terzo luogo di rilevare i vincoli di natura giuridica e di natura politica al rispetto dei quali l’intervento riformatore è tenuto, il che comporta, in quarto luogo, di tenere conto del contesto, generale e specifico, nel quale ci si trova ad operare; in quinto ed ultimo luogo si potrà verificare la congruità degli strumenti proposti o ipotizzati.

 

3- Il progetto Brescia, autore il presidente della Commissione, viene presentato – lo si legge nella relazione – allo scopo di “avviare una discussione” fra i gruppi parlamentari in tempi anticipati rispetto alla scadenza naturale della legislatura. Su di esso hanno svolto la relazione introduttiva i deputati Fiano e Forciniti (se mi è consentito dirlo: con misura, senza enfasi, andando poco oltre la puntuale descrizione del contenuto): il progetto è perciò ben noto alla Commissione e non c’è bisogno che io ne riproponga la parafrasi. Seguendo lo schema proposto, partendo dalla relazione di accompagnamento, la valutazione della vigente legge 165/2017, è che essa «non coniughi bene il principio di rappresentatività con l’obiettivo della stabilità»; in base a questo assunto ci si propone (obiettivo) di «meglio garantire il pluralismo territoriale e politico della rappresentanza»: ovvero, cito ancora, «un Parlamento realmente rappresentativo in grado di prendere delle decisioni che abbiano il consenso degli elettori»: ciò, aggiunge la relazione, tanto più «alla luce della legge costituzionale che riduce il numero dei parlamentari». A tal fine, come ha detto l’onorevole Fiano nel suo intervento del 14 gennaio, l’intervento legislativo ipotizzato consiste nella trasformazione delle due leggi elettorali gemelle per la Camera e per il Senato da sistemi misti, quali sono, in “sistemi interamente proporzionali” (oggi essi sono definibili “a prevalenza proporzionale” in virtù del rapporto, come ridefinito dalla legge 51/2019, di cinque ottavi di seggi proporzionali e tre ottavi di seggi maggioritari plurality). I collegi uninominali vengono aboliti di modo e di fatto, e con essi la possibilità di apparentamenti fra liste nonché tutti gli adempimenti connessi (indicazione di un capo politico, deposito di un programma); la formula di attribuzione proporzionale dei seggi fra le liste viene mantenuta com’è; le clausole di sbarramento vengono rimodulate (in alto e in basso), con contestuale introduzione – invero concettualmente incoerente con una formula che si vuole proporzionale – di deroghe per permettere a liste presenti meno omogeneamente sul territorio nazionale di ottenere comunque alcuni seggi (il c.d. diritto di tribuna favorito da una singolare, con una battuta potrei dire: emblematica, reintroduzione della formula Imperiali: quella che in un sistema del quoziente aumenta il denominatore di 2 unità per aumentare l’attribuzione di quozienti pieni); il numero dei candidati che ogni lista può presentare nei collegi all’interno delle circoscrizioni viene opportunamente aumentato fino al massimo degli eligendi (senza più il tetto di quattro) così da evitare quanto occorso nel 2018, cioè la mancata capienza di eligendi in caso di successo elettorale molto rilevante. Vengono anche modificate, utilmente, alcune disposizioni relative all’elettorato (con rinvii mobili alle norme costituzionali). Tutto il resto, sostanzialmente, non viene toccato, incluse le modalità di individuazione degli eletti: riguardo alle quali confermo la mia opinione favorevole alle liste bloccate (fanno meno danni delle preferenze e permettono di meglio perseguire il riequilibrio di genere imposto dalla Costituzione).

 

4- Un breve dibattito ha seguito il 14 gennaio le due relazioni Fiano e Forciniti. Mi soffermo su un paio di affermazioni, in particolare contenute nelle repliche dei relatori, perché illuminano meglio gli obiettivi dell’intervento. Il deputato Fiano ha affermato che il sistema proporzionale «garantisce il massimo della rappresentatività e appare il più adeguato nell’attuale articolato scenario politico, che si caratterizza per una struttura tripolare…» (con ciò di fatto considerando quest’ultima un vincolo di contesto di cui tenere conto); il deputato Forciniti ha detto, a sua volta, che «in passato i sistemi in prevalenza maggioritari non hanno garantito la stabilità dei governi», mentre il proporzionale «…valorizza il confronto democratico fra opinioni differenti» (con questo suggerendo alcuni elementi di critica dei sistemi precedenti, cioè i veri o presunti difetti della normativa da cambiare, nonché una precisazione sugli obiettivi perseguiti). Anche il deputato Berti ha evocato criticamente, con riferimento al passato, le “alleanze senza garanzia di stabilità”.

 

5- Vediamo i punti principali.

Quando si afferma, ripetutamente, che un sistema elettorale deve allo stesso tempo perseguire l’obiettivo della rappresentatività (politica, territoriale: sull’ordine bisognerebbe avere le idee chiare perché non possono perseguirsi parimenti, a un certo punto una delle due deve avere la priorità) e quello della stabilità, occorre intendersi. Infatti, se per “stabilità” si intende “governabilità”, allora si afferma una cosa sacrosanta che vale in particolare nei regimi parlamentari: nei quali, essendo il sistema fondato sul rapporto fiduciario, ovvero sul fatto che l’esecutivo resta in carica e può operare solo ed esclusivamente nella misura in cui il Parlamento non lo sfiduci, è non solo utile ed opportuno, ma necessario che la legge elettorale, nel combinarsi col sistema politico esistente, persegua non solo l’obiettivo antico del rappresentare ma anche quello contemporaneo del governare. Detto con parole diverse: che favorisca l’emergere di una maggioranza ragionevolmente omogenea e ragionevolmente stabile. Ed eccoci alla parola “stabilità”. Non vi è alcun dubbio che la stabilità, posto che una maggioranza si sia costituita e abbia dato vita a un suo governo, sia un valore ed un obiettivo, successivo, degno di essere perseguito. Ed è certamente vero che in passato leggi elettorali (tutte miste) non hanno dato risultati del tutto soddisfacenti in materia: tuttavia non mi sentirei di condividere una liquidazione critica di quelle leggi elettorali, che comunque hanno, le due applicate, funzionato meglio della preesistente legislazione proporzionale. Mi riferisco in particolare alle leggi 276 e 277/1993 (Mattarella), 270/2005 (Calderoli), ma anche alla 52/2015 (Italicum). Non includo, invece, la legge 165/2017, riguardo alla quale mi permetto di dire due cose: non merita di essere censurata per essere intervenuta a sei mesi dalle elezioni (essa seguì con grande rapidità la sentenza 35/2017 della Corte di cui è figlia e non si vede come avrebbe potuto essere varata prima…); non merita di essere censurata per non aver favorito né governabilità né stabilità per il buon motivo che – rispetto alla legislazione che sostituì – certamente non le ebbe come obiettivi prioritari, ma al più secondari: l’obiettivo primario essendo l’adeguamento alla giurisprudenza della Corte e il superamento del progetto istituzionale di quella legislatura, a seguito del referendum del 4 dicembre 2016. Tornando alle precedenti leggi miste esse, invece, perseguivano accanto alla rappresentatività la governabilità (e prima ancora con la fondamentale decisività, cioè la possibilità per l’elettore di giudicare previamente alleanze, liste, programmi e candidature alla guida dell’esecutivo e spesso determinare – di fatto – la scelta di governo), certe censure liquidatorie, oggi di moda, sono smentite dalla realtà. Solo due dati: dal 1948 al 1994 abbiamo avuto 45 governi in 44 anni, con durata media di poco più di 11 mesi; dal 1994 al 2018 abbiamo avuto 14 governi in 24 anni, con durata media di quasi 21 mesi, che salgono a 24 se si considera che nella XIII e nella XIV legislatura i due governi D’Alema e Berlusconi non furono quattro ma, in realtà, due). Non solo: i meriti delle leggi Mattarella, in particolare, vanno inquadrati anche nel contesto di disfacimento del vecchio sistema partitico, risultando accresciuti.

 

6- Ciò detto, mi sento di affermare che è del tutto improbabile che l’obbiettivo duplice della governabilità e della stabilità possa essere perseguito attraverso la trasformazione del sistema elettorale da misto a prevalenza proporzionale a, appunto, interamente proporzionale. A me pare che già la presente legislatura ne sia una prima riprova, pur in presenza di una componente maggioritaria (tre ottavi). La cancellazione di essa rimetterebbe vieppiù, senza il benché minimo vincolo politico-elettorale, alle forze politiche parlamentari formazione e durata dei governi, salvi casi allo stato dell’arte del tutto imprevedibili, mentre la stabilità resterebbe a sua volta affidata solo ai comportamenti di queste (come è peraltro il caso con quasi tutti i sistemi elettorali: unica eccezione che si possa immaginare essendo una formula corredata dalla clausola aut simul stabunt aut simul cadent, che non è utilizzabile in ambito nazionale dato il vincolo giuridico costituzionale). Siccome ciò che dico è cosa nota (e del resto basta leggere ciò che scrivono da anni i politologi più accreditati da Roberto D’Alimonte ad Alessandro Chiaramonte ad Angelo Panebianco), mi permetto di dedurne che presentatori e sostenitori del progetto AC2329 in realtà, senza dirlo a voce alta, pongono come prevalente, se non unica, priorità delle modifiche al sistema elettorale prefigurate la rappresentatività, sapendo perfettamente che una formula “interamente proporzionale” rende assai difficile (per non dire impossibile) per qualsiasi forza politica assicurarsi la maggioranza dei seggi parlamentari; che impone pertanto coalizioni e, oggi, con ogni probabilità, coalizioni costituite da tre, quattro e più forze politiche anche non omogenee: ricetta sicura per lunghe negoziazioni in vista della formazione dei governi; per presidenti del consiglio costretti giorno per giorno a tenere in piedi una maggioranza di cui non possono mai dirsi sicuri; per governi di durata permanentemente incerta e, in definitiva, per un’azione di governo a sua volta soggetta a continua verifica. Con accentuazione, per dirla senza enfasi, della lamentata instabilità: tanto più in un contesto di bicameralismo indifferenziato e di destrutturazione dei partiti politici. Dove ci porterebbe un sistema proporzionale, pur ad alta soglia di sbarramento (dato e non concesso che tale possa poi essere davvero), in assenza di partiti forti e solidi, in assenza di convenzioni costituzionali (ad esempio la guida del Governo sempre affidata al leader del partito maggiore della coalizione) e in tempi di populismo mediatico?

 

7- Desidero aggiungere che se nei decenni passati (e in particolare fino agli anni Novanta del XX secolo) la singolare combinazione di grande stabilità della classe politica dirigente e forte instabilità nella continuità dell’azione di governo (mi riferisco a quelle compagini che duravano in carica, mediamente, undici mesi) fu caratteristica tipica dell’ordinamento politico-istituzionale italiano, oggi il contesto europeo, in particolare, è assai mutato in peggio: sicché mentre l’Italia era l’eccezione (da cui il tentativo dei riformatori di perseguire una “democrazia normale”), oggi la regola è diventata un’instabilità così marcata da far dubitare, addirittura, della stessa sostenibilità dei regimi parlamentare. Le cause sono di lungo periodo e non è possibile diffondersi. Certo è che le trasformazioni sociali, la fine delle ideologie, la crisi di molti se non tutti i corpi intermedi, i nuovi atteggiamenti delle persone, combinati con l’avvento delle nuove tecnologie e l’uso diretto della comunicazione attraverso i social, hanno accentuato la frammentazione della rappresentanza: basta guardarsi in giro. Dalle tre elezioni in due anni in Spagna alle tre elezioni in un anno in Israele, dalle difficoltà in Romania a quelle in Olanda, dai governi di infima minoranza in Danimarca al cronico ricorso a grandi coalizioni in Germania (grandi coalizioni peraltro così logore da non bastare più, prevedibilmente, nell’immediato futuro). Se si guarda alla composizione dei parlamenti dei paesi europei si scopre che raramente il primo partito supera il 25-30% dei voti; dappertutto ci si mette sempre di più a formare i governi e sempre meno a farli cadere; dappertutto essi poggiano, se va bene, su coalizioni di due, tre, quattro, cinque e più partiti. Mentre i partiti politici deperiscono, si impongono sempre più intese e compromessi fra di essi, e ciò proprio quando è diventato più difficile farli e sostenerli. Mal comune mezzo gaudio? Naturalmente no: anche perché non dobbiamo dimenticare che, caratteristica peculiare e vincolo derivante dal nostro regime parlamentare, è la doppia fiducia non con una ma due diverse camere: il che, a parità di altre condizioni, raddoppia difficoltà e instabilità. Ragione di più, perché la legge elettorale cerchi di farsene carico.

 

8- Vorrei aggiungere due parole sul contesto nel quale il progetto AC2329 si inserisce, a mio avviso un po’ prematuramente. Infatti (ci sono cenni sia nella relazione al progetto sia soprattutto nella relazione Fiano) sono in itinere importanti innovazioni di rango costituzionale in grado di condizionare la progettazione legislativa in materia elettorale: esse sono destinate a introdurre nuovi vincoli come a creare nuove opportunità di cui il legislatore dovrà tener conto. Mi riferisco ovviamente: (a) alla legge costituzionale approvata dal Parlamento ma in attesa di referendum sulla riduzione dei componenti di ciascuna delle due camere; (b) al progetto costituzionale che prevede il suffragio universale per il Senato (oltre che la riduzione dell’età per l’elettorato passivo); (c) al progetto costituzionale che permette la formazione di circoscrizioni interregionali (per l’elezione del Senato). Le reciproche interferenze e le connessioni col progetto di cui parliamo sono di tutta evidenza. Del resto, non tanto nel testo dell’AC2329, nelle relazioni e nel dibattito, appena agli inizi, quanto in sede politica (negli accordi di governo e nelle dichiarazioni di esponenti di vari gruppi), molti hanno motivato la presentazione del progetto Brescia proprio con l’esigenza di adeguare la legislazione elettorale alla consistente riduzione dei deputati e dei senatori: in altre parole ai nuovi vincoli attesi. Al riguardo due osservazioni: la prima è che a me non pare affatto che un’eventuale entrata in vigore della riduzione dei parlamentari imponga necessariamente un adeguamento della legge 165/2017; si tratta di una legittima scelta politica fondata sulla priorità non sempre esplicitata di cogliere l’occasione per cancellare i modesti effetti maggioritari di essa e, di nuovo, sulla prioritarizzazione della rappresentanza (territoriale e politica) rispetto alla governabilità (abbiamo già visto che la stabilità c’entra poco); la seconda osservazione è che sarebbe probabilmente opportuno attendere l’esito di queste revisioni costituzionali prima di intervenire in un contesto giuridico costituzionale diverso e potenzialmente superato. Osservo in particolare che i due interventi sulle circoscrizioni del Senato da una parte e sull’elettorato del Senato dall’altro sono suscettibili di aprire a modifiche della legge elettorale che perseguano più efficacemente alcuni degli obiettivi conclamati, con un “sistema interamente proporzionale” non perseguibili.

 

9- A me pare che sarebbe possibile pensare a qualcosa di diverso da un “sistema interamente proporzionale”, per perseguire anche la governabilità intesa come indicazione elettorale (almeno per la fase di inizio legislatura) delle maggioranze e dei governi, rapidità nella formazione dei governi medesimi e tendenziale maggior stabilità in corso di legislatura. Anche se non siamo nel campo delle scienze c.d. esatte e nessuno può spacciare possibilità per certezze, varrebbe la pena di provare, se non altro per non contraddire un percorso virtuoso in materia che il nostro ordinamento aveva pur avviato circa trent’anni fa con risultati non disprezzabili che non trovarono consolidamento per l’incapacità di ancorarli a pur misurate revisioni costituzionali e per il ricorrente sacro egoismo di talune forze politiche. Mi limito a quattro generalissime ipotesi.

1. A) Si potrebbe mantenere la legge 165/2017 così com’è. Non a caso questo Parlamento (non un altro) ha varato una specifica legge, la legge 51/2019, solo pochi mesi fa, proprio per disciplinare gli effetti dell’eventuale riduzione del numero dei parlamentari. Uno spettatore esterno non può non domandarsi cosa sia mutato da allora. La risposta naturalmente c’è ed è nota a tutti: ed è che è cambiato un elemento di contesto politico, cioè i rapporti fra i gruppi parlamentari. Ma francamente trovo sconsigliabile perseverare nella strategia di innovare le leggi elettorali ogni volta che cambia il quadro politico. Se non altro perché ciò dà l’impressione che vi sia un’agenda nascosta che consiste nel privilegiare di volta in volta un obiettivo prioritario non detto: perseguire la propria convenienza politica contingente e non strategica.

2. B) In alternativa si potrebbero apportare limitate modifiche alla legge 165/2017 al solo fine di evitare che – in particolare al Senato – la prevalente parte proporzionale finisca in alcune Regioni assegnata solo alle sole forze politiche maggiori (se si mantengono gli esistenti collegi uninominali). Ciò sarebbe possibile istituendo alcune circoscrizioni interregionali che permettano l’elezione di un numero di senatori meno limitato. Naturalmente perseguire questo tipo di obiettivo comporta un sistema elettorale meno selettivo e una maggiore frammentazione. Invece alla Camera, non mi pare si possa sostenere che un problema di circoscrizioni con troppo pochi eligendi sussista.

294. C) Separatamente o in aggiunta a B), si potrebbe mantenere il sistema misto della legge 165/2017, ma aumentare la parte maggioritaria nella direzione delle leggi Mattarella del 1993 dal momento che altrimenti, a parlamentari ridotti, il numero dei collegi uninominali si ridurrebbe con eccessivo ampliamento della base elettorale. Oggi i senatori eletti nei collegi uninominali sono 116, se la componente maggioritaria si alzasse al 50% diventerebbero 98, se diventasse 2/3 sarebbero 130 e se fosse riportata ai ¾ della legge 276/1993 diventerebbero 147: risolvendo alla radice sia il “problema” del rapporto candidati/elettori sia quello della rappresentatività territoriale. Naturalmente aumentare la parte maggioritaria comporterebbe la riduzione dei seggi proporzionali (in caso di ½ e ½ diventerebbero 98; in caso di 2/3 e 1/3 sarebbero 66 e in caso di ¾ e ¼ diventerebbero 49; con la legge 276 erano 83). Alla Camera, rispetto ai 232 seggi uninominali attuali, averne la metà significherebbe 196, averne 2/3 significherebbe 261 e averne i ¾ della legge Mattarella vorrebbe dire averne 294. I seggi proporzionali sarebbero rispettivamente 196, 131 e 98 (con la legge 277 erano 155).

1993. D) Separatamente o in aggiunta a B) e C) si potrebbe – sempre per favorire la rappresentanza territoriale – tornare a un riparto proporzionale dei seggi che partisse dalle circoscrizioni (se non dai collegi plurinominali), non dal livello nazionale con la doppia restituzione alle circoscrizioni e ai collegi plurinominali. Ciò agevolerebbe il collegamento fra elettori e candidati ed eletti. In alternativa si potrebbe immaginare che tutti i seggi proporzionali (5/8 o 2/3 o 1/2 o 1/3), fossero trasformati in uninominali per essere assegnati secondo una formula simile a quella delle vecchie elezioni provinciali ovvero simile a quella del Senato, fino al 1993. Il limite principale di tale soluzione sarebbe la eventualità che alcuni collegi esprimano più di un eletto ed altri nessuno.

15. E) Senza allontanarsi dalle tradizioni costituzionali ed elettorali italiane, infine, qualche considerazione dovrebbe essere data alla possibilità di trasferire sul piano nazionale i modelli di successo a livello locale e regionale. Essi combinano elezione diretta del vertice dell’esecutivo con elezione di un’assemblea rappresentativa a base proporzionale e sbarramenti modesti, ma con premio a vantaggio delle liste legate al sindaco o presidente eletto: a un turno (la maggior parte delle regioni) o a due turni (la Toscana e i comuni sopra i 15.000 abitanti). Essi conciliano virtuosamente ampia rappresentanza, governabilità, decisività del voto popolare. Nel rispetto del vincolo costituzionale si potrebbe immaginare una combinazione di aspetti positivi della legge Calderoli e della legge Italicum: naturalmente il presupposto necessario sarebbe l’estensione dell’elettorato a tutti i cittadini maggiorenni al Senato, per minimizzare il rischio di esiti difformi fra le due Camere insito nel nostro modello bicamerale. Si dovrebbe altresì tener conto del vincolo ulteriore costituito dalla giurisprudenza costituzionale (in particolare la sent. 35/2017): attraverso una varietà di possibili soluzioni da valutare in relazione, in particolare, all’accesso al secondo turno di eventuale ballottaggio, senza escludere la non assegnazione dei premi in caso di esito difforme fra le due camere ovvero nel caso in cui nessuna lista abbia conseguito il quorum minimo di accesso; e senza parimenti escludere il non ricorso al ballottaggio nel caso in cui una sola lista abbia conseguito l’accesso al ballottaggio e voti in numero notevolmente maggiore rispetto alla seconda lista. Va da sé che formule del genere sono associabili a diversi meccanismi di individuazione degli eletti e a diverse soluzioni in ordine ad eventuali clausole di sbarramento (ove ritenute ancora utili): che potrebbero ben essere configurati in modo da perseguire la massima rappresentatività territoriale possibile e la chiara identificazione dei candidati da parte degli elettori (nel rispetto della giurisprudenza costituzionale).

 

Come si vede da questi semplici esempi, esistono sulla carta (ricavati dalle nostre tradizioni e dalle nostre esperienze autoctone più virtuose, non da modelli accademici o da modelli esteri) più soluzioni che permetterebbero di perseguire in maniera razionalmente più convincente gli obiettivi che il progetto AC2329 dice di voler perseguire, ma propone di farlo tornando, dopo 27 anni, a un sistema interamente proporzionale (salvo lo sbarramento), che da decenni ha mostrato i suoi limiti insuperabili, con totale sacrificio della governabilità alla rappresentatività.

 

Ciò a mio avviso potrebbe trovare una (e una sola) giustificazione in termini di legittimazione rafforzata: nel caso in cui su tale formula convergessero tutte le principali forze parlamentari. In questo caso non potrei che ritrarmi rispettoso di un valore e di una priorità prevalenti. Ma solo a questa condizione.

 

[*] Ordinario di diritto pubblico comparato, ha insegnato nelle università di Firenze e Pisa (1976-2017), in ultimo Diritto elettorale e parlamentare (Scuola di scienze politiche “C. Alfieri”).

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