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Pastori sardi, l’innovazione inceppata

La protesta dei pastori sardi. ANSA/FABIO MURRU

di Alfonso Pascale

 

La rivolta dei pastori sardi trova le sue ragioni di fondo nell’incapacità dei ceti dirigenti locali di accompagnare verso un percorso di sviluppo, mediante l’innovazione sociale e, insieme, tecnologica, un sistema produttivo complesso, il quale dopo essere uscito,  in modo repentino e doloroso, dall’assetto pastorale tradizionale dell’isola, non si è mai inserito da protagonista nel moderno contesto di relazioni economiche e sociali globali. 

 

La crisi del comparto lattiero-caseario della Sardegna

La crisi del comparto lattiero-caseario della Sardegna viene da lontano. È infatti dagli anni ’70 che tale comparto si è fossilizzato nella monoproduzione di quel particolare tipo di Pecorino che viene detto “romano”. Un formaggio che ai sardi non piace, tanto da essere quasi esclusivamente  destinato all’esportazione, verso la penisola o all’estero. Esso incombe sull’economia sarda dal giorno in cui, sul finire dell’Ottocento, alcuni commercianti laziali ne introdussero la tecnica di lavorazione; e dal giorno in cui (nel 1907) un medico condotto, Pietro Solinas, apriva a Bortigali la via alle latterie sociali cooperative.

Dunque,  abbiamo nell’economia agricola sarda monoproduzione di un formaggio e monomercato prevalentemente statunitense: entrambi basati su una concorrenza da costo che tende a fragilizzare gli attori più deboli della filiera, cioè piccoli trasformatori e allevatori. Su questi, a partire dagli anni ’90, si sono scaricati gli andamenti altalenanti del prezzo del latte ovino sul mercato globale.

 

Una montagna di latte per fare il Pecorino romano

In Sardegna ci sono quasi tre milioni di pecore distribuite in oltre dodicimila allevamenti. Un sistema che produce una montagna di latte, che necessariamente inflaziona il prezzo al ribasso. Tutto questo latte diventa “Pecorino romano” che è un prodotto di scarso valore. Non si guasta in tempi rapidi e mantiene le sue caratteristiche inalterate. È una commodity, non un prodotto di pregio. Come tutte le commodity agricole subisce gli effetti di un’elevata volatilità sul mercato globale. Dal 2000 le esportazioni sono crollate per la competizione con prodotti analoghi provenienti da altri Paesi europei, come Francia, Spagna, Grecia e Romania. Con la crisi economica del 2008 sono poi aumentati enormemente i costi di produzione: mangimi, elettricità, gasolio, ecc.

Tutti questi elementi hanno contribuito a schiacciare il reddito dei produttori, determinando l’insorgere di forme di lotta, anche radicali, tese a rivendicare una maggiore retribuzione del prezzo del latte, guidate dal Movimento dei Pastori Sardi. 

 

L’andamento del prezzo del latte

A partire dal 2012 c’è stata una leggera ripresa del prezzo del latte, attestandosi nel 2013 con quotazioni attorno ai 72-75 centesimi, che sono ulteriormente cresciute  fino ad arrivare in qualche caso anche ad un euro al litro. Negli ultimi due anni il prezzo è di nuovo calato, tant’è che l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (Antitrust), il 14 febbraio 2018, ha annunciato di avere aperto un’istruttoria sui prezzi del latte sardo di pecora destinato alla produzione di Pecorino romano. Con l’obiettivo dichiarato di verificare se i caseifici abbiano imposto un prezzo di acquisto inferiore ai costi medi di produzione. In violazione della normativa sulle pratiche commerciali sleali nella filiera agroalimentare (legge 27/2012, art. 62). È trascorso un anno, ma l’Antitrust non ha ancora completato l’indagine. 

Tale ritardo ha costituito il pretesto immediato per la ripresa di una tipica forma di lotta che dal ’68 in poi viene adottata in tutte le rivolte rurali: riversare il latte o altri prodotti nelle strade. Non è il ribellismo contadino delle società tradizionali quando si occupavano le terre e s’incendiavano i municipi. È il ribellismo delle campagne trasformate quando s’inceppa il meccanismo dell’innovazione e non si adottano politiche per rimetterlo in moto. E quando rovinosamente s’interviene con sussidi a pioggia e non s’incoraggiano gli agricoltori ad accettare la sfida del contesto tecnologico e globale in cui viviamo.  

 

Serve creare nuovi mercati

Bisognerebbe, infatti, concentrare le risorse nel sostegno a programmi aziendali di investimento per l’innovazione, la costruzione di reti, la diversificazione delle attività, la creazione di nuovi mercati. E accompagnare una politica di questo tipo con una rete di welfare a beneficio di chi si troverebbe senza lavoro per aiutarlo a trovarne un altro. Ma per attuare una strategia siffatta occorrerebbe adeguare radicalmente le istituzioni, i centri di ricerca, il sistema educativo e le organizzazioni dell’agricoltura. 

Per fronteggiare la crisi del comparto ovicaprino sono sicuramente necessarie misure immediate per lo smaltimento delle eccedenze e il ritiro delle giacenze. Il Consorzio per la tutela del Pecorino romano deve poter effettuare una programmazione produttiva efficace e credibile. Va, inoltre, ratificato l’accordo CETA per facilitare le esportazioni anche verso il Canada.

 

Produrre innovazione sociale

Ma mentre si fa tutto questo, bisognerebbe produrre un’innovazione sociale che parta dal rafforzamento delle capacità dei produttori di ripensare il proprio modello organizzativo, per renderlo meno dipendente dalle rigidità del mercato globale, attraverso la strada della multifunzionalità agricola che permette la differenziazione delle fonti di reddito. Si tratta di rivitalizzare, in forme moderne,  un aspetto del mondo pastorale tradizionale, quando pastorizia e agricoltura s’integravano reciprocamente per garantire l’ottimizzazione delle risorse disponibili e la sopravvivenza economica.

Già oggi sono numerose le aziende che hanno smesso di conferire ai caseifici per ritornare alla trasformazione diretta del latte, con il recupero di tecniche di lavorazione a mano e la costruzione di minicaseifici aziendali. I formaggi realizzati, prevalentemente a latte crudo, sono fortemente destandardizzati e territorialmente connotati, si “distinguono” per aspetti come la qualità del pascolo, il periodo di mungitura, il tipo di lavorazione eseguita. Le innovazioni sono state effettuate conservando la caratteristica peculiare e identitaria dell’allevamento sardo che individua un vero e proprio vantaggio comparato rispetto ad altri territori: il sistema di allevamento estensivo e diffuso sul territorio, basato sul pascolamento a cielo aperto con integrazione di erbai.

 

Le novità in agricoltura

In tale evoluzione si consolidano le “agricolture multi-ideali” così chiamate perché si riferiscono a passioni, vocazioni e concezioni del mondo plurime, da cui scaturiscono modelli produttivi e di consumo e attività molteplici. Queste nuove realtà vanno dall’agricoltura sociale a forme inedite di accoglienza nelle campagne, dalla realizzazione di filiere e reti di qualità che guardano con occhi diversi ai processi di globalizzazione (reti di popoli)  alla costruzione di distretti di economia locale. 

La multi-idealità va aperta alla bioeconomia, alla robotica e alle tecnologie digitali che permettono di promuovere e valorizzare le relazioni economiche e sociali e indurre nuovi comportamenti alimentari. Come sostiene Leonardo Becchetti, se si sviluppasse nei consumi alimentari il mercato delle informazioni sul rating sociale e ambientale e i cittadini-clienti fossero consapevoli e decidessero tutti insieme di votare col portafoglio per le imprese migliori, vincerebbero quelle tecnologicamente più avanzate che hanno meno bisogno di puntare al ribasso sul costo del lavoro e di distruggere le risorse ambientali.

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