LibertàEguale

Cari storici italiani, anche il comunismo ha prodotto regimi totalitari

di Alberto De Bernardi

 

La pubblicazione della risoluzione della UE “Sull’ l’importanza della memoria europea per l’avvenire dell’ Europa” ha aperto in Italia un dibattitto del tutto fuorviante sulla presunta equiparazione tra il fascismo e il comunismo, che non costituisce affatto né lo scopo né il senso del testo approvato.

 

Leggere le fonti

Fermo restando che ritengo sempre scivoloso ogni tentativo delle istituzioni politiche di definire una interpretazione condivisa del passato su cui costruire la memoria pubblica, perché si presta a omissioni e a superficialità, che gli storici hanno in più occasioni messo in evidenza, quello che in questo caso mi preme notare riguarda le reazioni che ha suscitato nel dibattitto pubblico italiano l’iniziativa del parlamento europeo, che con quel documento hanno ben poco a che fare, fino all’esplicito travisamento.

I due argomenti toccati dai critici del documento riguardano il ruolo del patto Ribbentrop- Molotov come acceleratore dello scoppio della seconda guerra mondiale e la equiparazione tra fascismo e comunismo, che comportano la stessa condanna da parte della comunità europea. In realtà nel documento nessuna di queste due affermazioni trova un fondamento.

 

Il patto Ribbentrop-Molotov e le proposte della Risoluzione

Sul primo punto infatti il parlamento invita a fare 4 considerazioni:

B- considerando che ottanta anni fa, il 23 agosto 1939, l’Unione Sovietica comunista e la Germania nazista firmarono il trattato di non aggressione, noto come patto Molotov-Ribbentrop, e i suoi protocolli segreti, dividendo l’Europa e i territori di Stati indipendenti tra i due regimi totalitari e raggruppandoli in sfere di interesse, il che ha spianato la strada allo scoppio della Seconda guerra mondiale;

C- considerando che, come diretta conseguenza del patto Molotov-Ribbentrop, seguito dal “trattato di amicizia e di frontiera” nazi-sovietico del 28 settembre 1939, la Repubblica polacca fu invasa prima da Hitler e due settimane dopo da Stalin, eventi che privarono il paese della sua indipendenza e furono una tragedia senza precedenti per il popolo polacco; che il 30 novembre 1939 l’Unione Sovietica comunista iniziò una guerra aggressiva contro la Finlandia e nel giugno 1940 occupò e annesse parti della Romania, territori che non furono mai restituiti, e annesse le Repubbliche indipendenti di Lituania, Lettonia ed Estonia;

D- considerando che, dopo la sconfitta del regime nazista e la fine della Seconda guerra mondiale, alcuni paesi europei sono riusciti a procedere alla ricostruzione e a intraprendere un processo di riconciliazione, mentre per mezzo secolo altri paesi europei sono rimasti assoggettati a dittature, alcuni dei quali direttamente occupati dall’Unione sovietica o soggetti alla sua influenza, e hanno continuato a essere privati della libertà, della sovranità, della dignità, dei diritti umani e dello sviluppo socioeconomico;

E- considerando che, sebbene i crimini del regime nazista siano stati giudicati e puniti attraverso i processi di Norimberga, vi è ancora un’urgente necessità di sensibilizzare, effettuare valutazioni morali e condurre indagini giudiziarie in relazione ai crimini dello stalinismo e di altre dittature

Il Parlamento europeo invita dunque a condannare le conseguenze di quel patto che ha costretto i paesi dell’Europa dell’Est, a subire per cinquant’anni una dittatura spietata, condannandoli a perdere la libertà e la propria autodeterminazione di popoli liberi. Invita anche a fare un bilancio morale di questo periodo e di aprire inchieste giudiziarie nei confronti di eventuali aguzzini, analoghe a quelle che hanno riguardato i crimini del nazismo e del fascismo.

 

Il “patto scellerato” e l’Urss

Nel documento dunque non si esprime nessun giudizio storico che riguardi le cause della seconda guerra mondiale in rapporto la trattato di non aggressione tra Germania e Urss, quanto piuttosto si invita a riflettere sulle conseguenze di quel patto, che riguardarono la spartizione dell’Europa orientale tra le due potenze totalitarie. Come ha messo in luce la ricerca storica quel patto fu anche la conseguenza della volontà delle nazioni democratiche europee di non coinvolgere l’Urss nella lotta contro la minaccia nazista, convinte come erano che il comunismo fosse un nemico peggiore del fascismo. Come ricordò Churchill si trattò di una decisione sbagliata per cui Francia e Gran Bretagna oltre a non riuscire a evitare la guerra, persero anche “l’onore”.

Le ragioni del “patto scellerato” stanno in gran parte in quell’errore, ma non solo. L’accordo tra Mosca e Berlino aveva altre implicazioni strategiche, che riguardavano i progetti «imperiali» di Stalin, volti da un lato a fare dell’Urss una grande potenza mondiale e dall’altro a espandere i propri confini nazionali in direzione dell’Europa orientale, come misero in luce la spartizione della Polonia e la guerra contro la Finlandia. Quindi il suggerimento del parlamento europeo di ritornare a riflettere su quel patto è di grande rilievo perché obbliga a riconsiderare il ruolo dell’Urss nella seconda guerra mondiale, all’interno del quale l’imperialismo costituisce una linea guida che rimane anche dopo Stalingrado e l’alleanza “antifascista” con gli Stati Uniti e i suoi alleati: se siamo europei dobbiamo prendere atto che dobbiamo leggere la storia del continente nella sua intierezza: non solo da Roma o Parigi, ma anche da Varsavia o da Vilnius e che l’esaltazione dell’Urss come patria dell’antifascismo e della lotta al nazismo e priva di senso se vita da quella parte dell’Europa, e meno fondata di quanto non si pensi.

 

Lo Stalinismo e l’antifascismo

Al di là della vulgata, non vanno dimenticare le conseguenze che il “patto” ebbe sull’antifascismo di allora. L’Urss, infatti, non era semplicemente uno stato tra altri stati; era la «patria del socialismo», cioè lo stato guida di un movimento rivoluzionario internazionale. Ogni suo atto, dunque, doveva necessariamente trovare posto all’interno di un tragitto strategico definito, come se costituisse la tessera di un mosaico che il partito era in grado di comporre perfettamente perché ne conosceva il disegno finale. Il patto con il nazismo, con il nemico principale del movimento operaio mondiale, andava dunque inserito in un dispositivo politico e ideologico capace di trasformare questa scelta, espressione della più cinica «ragion di stato», in una lungimirante operazione che doveva aprire una nuova fase dello scontro tra borghesia e classe operaia a livello mondiale.

Per realizzare questo obbiettivo e mobilitare intorno ad esso il movimento comunista europeo fu rilanciata la vecchia discriminante capitalismo/anticapitalismo, in sostituzione di quella tra fascismo e antifascismo scelta nell’VIII congresso dell’Internazionale comunista. Questo cambio di orizzonte politico ebbe come conseguenza la crisi irreversibile dell’antifascismo stesso, come si era venuto configurando dal 1934, basato sull’unità d’azione tra comunisti, socialisti e forze democratiche. Quando Molotov dalla tribuna del Soviet supremo sostenne, a giustificazione del trattato testè sottoscritto, che «era insensato e addirittura criminale spacciare questa guerra come una lotta per la distruzione dell’hitlerismo sotto la falsa bandiera di una battaglia per la democrazia», decretò la morte dell’antifascismo. L’antifascismo venne dunque sacrificato per la politica di potenza dell’Urss, altro che “patria dell’antifascismo”.

Quindi a chi professa una presunta lesa dell’antifascismo il mancato riconoscimento del ruolo dell’Urss nella lotta contro in nazismo, non solo non ha letto il testo della risoluzione, che non tratta dell’argomento, ma dimostra una conoscenza del passato parziale e ideologicamente orientata. Proprio l’esito della guerra nei paesi dell’Europa dell’Est dimostra l’estraneità del comunismo ai valori dell’antifascismo e la strumentalità con cui l’Urss aderì alla “guerra antifascista” dopo Stalingrado e soprattutto utilizzò l’antifascismo come elemento fondante della sua ideologia per opprimere i paesi dell’est europeo.

Se nell’Europa occidentale l’antifascismo faticosamente divenne il fondamento della ricostruzione democratica, questo non si verificò al di là della cortina di ferro, dove divenne una componente dell’ideologia comunista, cioè della negazione dei valori dell’antifascismo stesso.

 

Equiparare fascismo e comunismo?

Ma se, dunque nel dibattito italiano, si è travisato il senso della risoluzione per quel che riguarda il patto Ribbentropp-Molotov, il travisamento è ancor più grave a proposito della presunta equiparazione tra fascismo e nazismo della quale non vi è nessuna traccia. La riflessione che il parlamento europeo invita a fare riguarda la necessità di condannare allo stesso modo il fascismo e il comunismo, non perché siano uguali, ma perché costituiscono i due lati della stessa medaglia totalitaria, che ha insanguinato l’Europa per gran parte del XX secolo.

Il nodo della questione riguarda dunque l’appartenenza o meno del comunismo al campo del totalitarismo, cioè di un insieme di regimi che, differenziati dal punto di vista delle finalità ideali che contrassegnano le loro ideologie, hanno messo in pratica forme di governo basate sulla negazione radicale della democrazia e del pluralismo, in nome di uno statalismo assoluto e di una integrazione inestricabile tra stato e partito, che ha tolto ogni autonomia ai cittadini trasformati in sudditi sottoposti a una macchina di controllo sociale senza scampo il cui esito estremo e stato il gulag e il lager. Il totalitarismo è la negazione dell’uomo, non è una ideologia ma un crimine estendendo al comunismo il giudizio che Sandro Pertini espresse a proposito del fascismo.

Se di questa macchina totalitaria l’Europa occidentale ha conosciuto il volto fascista, quella orientale a conosciuto quello comunista, o entrambi. E dunque la risoluzione del parlamento comunitario

ricorda che i regimi nazisti e comunisti hanno commesso omicidi di massa, genocidi e deportazioni, causando, nel corso del XX secolo, perdite di vite umane e di libertà di una portata inaudita nella storia dell’umanità, e rammenta l’orrendo crimine dell’Olocausto perpetrato dal regime nazista; condanna con la massima fermezza gli atti di aggressione, i crimini contro l’umanità e le massicce violazioni dei diritti umani perpetrate dal regime nazista, da quello comunista e da altri regimi totalitari.

Quindi mentre condanna “il revisionismo storico e la glorificazione dei collaborazionisti dei nazisti che hanno corso in certi paesi dell’Unione”, invoca la necessità che si diffonda nell’Europa una memoria potremmo dire “antitotalitaria” che condanni entrambi i regimi che hanno negato i valori fondanti su sui è stata edificata la nuova Europa comunitaria, per elaborare una cultura della memoria condivisa, che respinga i crimini dei regimi fascisti e stalinisti e di altri regimi totalitari e autoritari del passato come modalità per promuovere la resilienza alle moderne minacce alla democrazia, in particolare tra le generazioni più giovani”.

 

Il comunismo e la cultura storica italiana

Perché dunque in Italia si è verificato questo travisamento finito in prima pagina di Repubblica per la firma di uno storico serio come Guido Crainz, ma a cui hanno contribuito altri studiosi come Guido Melis o Davide Bidussa, che non posso pensare abbiano commentato un testo senza averlo letto e si siano fidati della lettura ideologica “filocomunista” dell’Anpi?

Le ragioni sono sostanzialmente due.

La prima riguarda l’incapacità degli storici di estrazione marxista, che provengono da una più o meno lunga militanza nel Pci e/o nei movimenti di sinistra, di leggere il comunismo non per quello che aveva rappresentato nella loro giovinezza, ma per quello che effettivamente fu, quando fu messo alla prova effettiva della storia. Che il comunismo abbia significato per milioni di uomini una speranza di riscatto, non può tradursi nel negare che tutte le volte che quella speranza si è tradotta in sistemi politici concreti, da Mosca a Cuba, a Pechino, abbia prodotto regimi totalitari, che hanno raggiunto punte di violenza e di distruzione degli esseri umani del tutto simili a quelle dei fascismi: il socialismo reale con quelle speranze non ebbe nulla a che fare, né si tratto di “eccessi” e di deviazioni da un piano ideale positivo. Il leninismo infatti aveva nella sua costruzione originaria l’idea di una “dittatura” non già del proletariato, bensì del partito unico, della Ceca, della cancellazione dello stato di diritto.

Per accogliere questo piano di discussione e riflessione noi abbiamo a disposizione la categoria del totalitarismo, che consente di mettere in evidenza i punti di contatto, le omogeneità, oltre le differenze, che rendono possibile in sede scientifica la comparazione – che non è omologazione, equiparazione ed altre amenità – dei due regimi. Ma purtroppo la lezione della Arendt non è passata interamente, come quella delle scienze sociali americane, nella storiografia e nella cultura diffusa del nostro paese, che ancora non sono riuscite a fare i conti con De Felice e il revisionismo, ancora tacciato di blafemia. Il totalitarismo è ancora una categoria pericolosa, che non va utilizzata, non solo per interpretare il comunismo, ma nemmeno il fascismo.

Queste prese di posizione segnalano dunque il peso di retaggi ideologici ancora pesantemente presenti nelle griglie concettuali con cui molta storiografia italiana guarda al passato, a tal punto da impedirle di interpretare un testo per quello che effettivamente dice o di coglierne lo straordinario significato in rapporto alla creazione di una cultura democratica europea.

 

L’eccezione del Pci?

La seconda ragione riguarda il comunismo italiano, la cui partecipazione alla resistenza e alla costruzione della democrazia italiana, non solo ha messo al riparo dall’appartenere al campo del totalitarismo sovietico, ma consente di leggere tutta la storia del comunismo da quell’angolo visuale. Ma anche questa chiave di lettura non è pienamente condivisibile e presenta molte contraddizioni. Il Pci infatti ha appartenuto all’orbita bolscevica e staliniana fino alla morte di Togliatti e la partecipazione alla stesura della costituzione non sana il fatto che, per lo meno fino alla segreteria di Berlinguer, nel suo orizzonte strategico, tra i suoi “fini”, vi fosse la “democrazia popolare”, cioè proprio il sistema di quei regimi dittatoriali dell’Europa dell’Est. Per fortuna l’appartenenza al mondo occidentale e i vincoli della guerra fredda hanno impedito al Pci di realizzare ciò che prometteva ai suoi militanti e di diventare un effettivo costruttore della democrazia italiana: ma questa circostanza è una conseguenza storica che dipese dal contesto e dalla lungimiranza dei suoi dirigenti, ma non affondava le sue radici nella cultura politica di quel partito; e che tra l’altro contribuì a definire la sua ”ambiguità” storica, che tanto ha pesato sull’evoluzione della democrazia italiana.

Ma in ogni caso il Pci è stato, con tutti i suoi limiti, un’eccezione nella storia del comunismo mondiale, non l’osservatorio da cui leggerne la storia, che resta invece interamente riassunta nell’esperienza del “socialismo reale”. E’ con questa vicenda con cui qui la memoria dell’Europa deve fare i conti, con la stessa serietà e con la stessa fermezza messe in campo nei confronti del fascismo, non con i problemi identitari di intellettuali excomunisti, che sovrappongono la loro autobiografia di intellettuali militanti alle lezioni, spesso durissime, della storia.

Purtroppo è del tutto evidente che tra alcuni storici italiani e in alcune associazioni antifasciste non ci sia la stessa fermezza, anzi si annidi una concezione benevola dal comunismo, che colloca lo stalinismo tra gli eccessi e gli errori di una storia fulgida di lotte per la libertà e la pace, e soprattutto al di fuori della storia tragica del totalitarismo.

Mi viene da dire che per fortuna che c’è il parlamento europeo che vigila sulla memoria del continente, meglio di come non facciano gli intellettuali italiani.

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