LibertàEguale

Manifesto laburista per l’Italia

Pubblichiamo un documento-appello che interviene nel dibattito del Congresso del Partito Democratico. I primi firmatari sono: Marco Bentivogli, Filippo Barberis, Federico Butera, Stefano Ceccanti, Maurizio Del Conte, Giorgio Gori, Pietro Ichino, Marco Leonardi, Valeria Mancinelli, Enrico Morando, Umberto Ranieri, Tommaso Nannicini, Carlo Salvemini, Giorgio Tonini, Lucia Valente, Silvia Zanella.

 

Premessa

La fase costituente del nuovo Pd rischia di impantanarsi presto nelle paludi di vecchie logiche, se non saprà uscire dalle logiche autoreferenziali e oligarchiche che sono ancora sorprendentemente dominanti, nonostante la portata politica ed elettorale della sconfitta del 25 settembre. Perché ciò non avvenga è necessario che ogni persona che ha a cuore le sorti della comunità democratica e progressista nel nostro Paese si faccia carico di essere il cambiamento che vuole veder realizzarsi. I promotori di questo documento hanno deciso di prendere sul serio le tappe del percorso costituente: prima le idee, dopo i nomi. Ma le idee non nascono sotto gli alberi, hanno bisogno del confronto, dello scontro e della partecipazione di tutta la nostra comunità nella sua capacità di aprirsi all’esterno. Questo documento, che parte da una nuova centralità del lavoro dentro una prospettiva comunitaria, vuole suscitare proprio questo: confronto, scontro, partecipazione, dentro e fuori i confini attuali.

 

UN NUOVO INIZIO, LABURISTA

Il senso della nostra proposta

La sconfitta del centrosinistra ha dimensioni elettorali e politiche tali da imporre analisi impietose e decisioni straordinarie, che segnino un’esplicita discontinuità. La sinistra di governo, in tutto l’Occidente, ha svolto una funzione cruciale, sia per la promozione della crescita economica, sia per la riduzione drastica delle disuguaglianze. Con la globalizzazione, e da ultimo con la pandemia, questa funzione storica è entrata in crisi, e va riacquisita mutando il paradigma fondamentale del centrosinistra, per renderlo protagonista nel processo di costruzione di iniziative sociali e politiche anche a livello globale. Ma c’è una specificità della crisi del centrosinistra italiano rispetto a Biden e Lula che hanno vinto mobilitando partecipazione elettorale: da noi, cresce l’astensione. Il centrosinistra, nel suo complesso, raccoglie il risultato elettorale peggiore dal dopoguerra. Il PD, dalla sua fondazione (2007-2008), ha perso quasi sette milioni di voti determinando un vero e proprio baratro tra la sua funzione di partito del sistema” – al governo per 11 anni degli ultimi 15, con formule diverse, ma accomunate dal carattere di “emergenza” – e il livello del suo consenso elettorale.

Tuttavia, è sul terreno politico che la sconfitta è più cocente: nato per essere il partito asse del centrosinistra di governo, il PD non è riuscito a competere sul terreno dell’offerta politica per la direzione del Paese, e si è visto costretto ad annunciare obiettivi -impedire che il destra-centro potesse contare su due terzi dei seggi parlamentari- che, per risultare credibili, presupponevano la sconfitta sul terreno del governo del Paese. Responsabilità da condividere con altri partiti nel centrosinistra? Certamente. Ma il peso è maggiore per il PD, che per dimensioni del suo consenso, per funzione politica e radicamento nel Paese, era tenuto a prendere su di sé l’onore e l’onere di unire i riformisti e costruire una proposta credibile per il governo.

Il Congresso del PD ha di fronte due missioni difficili, ma non impossibili: recuperare capacità di rappresentanza, sulla base di una chiara visione sul futuro del Paese; e costruire una proposta credibile di governo. Incarnate da una leadership legittimata dal voto degli elettori più attivi del centrosinistra, queste due dimensioni sono tra di loro intrecciate fino ad essere inscindibili: la capacità di rappresentanza non si recupera con le alleanze politiche, mentre la credibilità della proposta di governo non si alimenta agitando il “pericolo della destra”. Si vince se è forte e percepito come autentico il “per”, non solo se è chiaro il “contro“.

È la partecipazione la risorsa fondamentale su cui far leva per affrontare la crisi della rappresentanza. Malgrado i tentativi di apertura messi in atto nel recente passato, il PD non ha superato le barriere che lo separano da molti mondi vitali. Forse perché non si può chiedere al Paese di fare un passo in avanti, verso l’impegno politico, se non si superano regole e atteggiamenti che allontanano il mondo del sociale, del lavoro, delle imprese e delle professioni. Il Congresso costituisce una nuova occasione, poiché affida a tutti gli elettori più attivi del centrosinistra la possibilità non solo di prendere la parola, ma di decidere. Un’occasione che verrebbe sprecata se il Congresso non si aprisse con una reale disponibilità al superamento del patto di sindacato interno al gruppo dirigente, malcelato dietro il finto conflitto tra correnti prive di fondamento ideale.

Con questo documento, che propone scelte chiare sia per alimentare l’opposizione al Governo di destra-centro, sia per ricostruire legami sociali e dare credibilità alla proposta di una alternativa credibile e seria, noi vogliamo contribuire ad una svolta modernamente laburista nell’orientamento politico-culturale del partito, suscitando un confronto trasparente sulle vie da intraprendere. Perché, senza un’aperta battaglia sulle idee, non ci può essere partecipazione.

Il lavoro non è uno dei temi. È il tema fondamentale. È lindicatore dello stato di salute della condizione umana, perché misura la nostra capacità di fare bene sullambiente, sullinnovazione e sulle politiche di contrasto allemergenza demografica. Il lavoro è il crocevia delle transizioni che interessano la vita di ogni persona. Bisogna raccogliere la sfida che porti ad accelerare la valorizzazione del lavoro umano, un  lavoro di qualità   per tutti e non solo per una élite, un lavoro che crei valore nell’economia e nella società e che rafforzi la dignità, la riconoscibilità sociale, il ruolo sociale, i diritti di ogni lavoratore. Si propone l’aumento del valore e della professionalizzazione del lavoro e delle competenze delle persone, capace di garantire la persona nel rapporto e nel mercato del lavoro: un  percorso ottenuto attraverso lo sviluppo partecipato dell’organizzazione del lavoro  e delle azioni di formazione permanente. Programmi e progetti che sviluppino, regolino e proteggano sia il lavoro del circa 55% degli attuali lavoratori della conoscenza sia anche e soprattutto quello del 45% dei lavoratori oggi non qualificati, poco pagati, precari, assicurando anche a loro un lavoro decente.    Il futuro del lavoro è un foglio bianco da scrivere, da progettare. Non lo farà il mercato o le tecnologie in modo autonomo ma ne dovranno essere i protagonisti i nuovi “architetti del lavoro” capaci di affrontare questa sfida in ogni impresa e in ogni territorio.

Abbiamo il mercato del lavoro più diseguale d’Europa, e un sistema di protezione sociale che lascia fuori moltissime persone che non sono rappresentate e che non hanno voce. È stato così anche allo scoppio della pandemia: abbiamo usato, nellemergenza, gli strumenti più tradizionali (blocco dei licenziamenti, cassa integrazione e ristori), lasciando fuori dal lavoro quasi un milione di persone, quelle il cui turno (per ricevere un po’di protezione) non arriva mai. Ecco: noi vogliamo un partito che faccia arrivare il turno anche di questi altri, che sono ormai maggioranza. In questo senso, parliamo di un partito modernamente laburista. Un partito del lavoro contemporaneo, quello dei lavoratori della conoscenza e delle tute blu, e assieme quello di chi lavora molto e guadagna pochissimo, di chi lavora duro e vorrebbe sicurezza, di chi fa part-time obbligatori. Quello delle partite Iva e dei lavoratori autonomi a basso reddito e senza alcun diritto sociale. Quello dei lavori offerti tramite piattaforme digitali e quello dei lavori discontinui e intermittenti. È un partito che fa la sua parte per affrontare i nodi della questione salariale e della bassa produttività, in un Paese con gli orari di lavoro tra i più lunghi dEuropa.

Un partito forte sul territorio. Un partito che sa parlare di merito, in un Paese in cui le relazioni valgono sopra ogni cosa. È un partito che non chiede (e non accetta) nuove forme di collateralismo alle forze sociali; e non appalta ad altri la questione del lavoro. Proprio per questo, stabilisce rapporti trasparenti con le forze sociali stesse, riconoscendo e pretendendo rispetto della reciproca autonomia. È un partito che fa almeno ogni due anni la sua conferenza programmatica, perché le idee non si improvvisano dopo aver scelto le persone. Si fa il contrario.


Il Pd è lunico partito che ha una comunità politica sul territorio, molto bella e generosa. Merita un gruppo dirigente adulto, coraggioso e leale, capace di discutere tra posizioni diverse, magari feroce nel confronto sulle idee, ma rispettoso delle persone, aperto, contendibile sulla base di regole chiare (e poche deroghe). Un partito in cui la minoranza riconosce la legittimità pro tempore (tra un congresso e laltro) della maggioranza; e nel quale questultima si fa garante dellesistenza stessa della minoranza e dei suoi spazi di iniziativa.  Non serve né più sinistra né più centro, ma più coerenza, anche personale. Il tempo è superiore allo spazio” dice sempre Papa Francesco. Possiamo interpretarla come unesortazione a smetterla di occupare spazi (di potere), per dedicarci ad avviare processi (di cambiamento).

LE SCELTE PER LA RIPRESA RIFORMISTA

1-Con l’Ucraina, per la libertà e per la pace

Il PD ha fatto bene a sostenere con la massima coerenza e la più ferma determinazione la linea seguita dal Governo Draghi: con lUnione Europea, la NATO e le democrazie liberali di tutto il mondo, a fianco del legittimo Governo e del popolo dellUcraina, contro la guerra di aggressione scatenata da Putin. Su nessun’altra questione dellagenda il PD -da febbraio ad oggi- è stato altrettanto chiaro e determinato.

Tra le forze politiche che sostenevano il Governo Draghi si sono invece manifestate, fin dallinizio, ambiguità e contraddizioni. Tanto che non è illegittimo ritenere che -al di là della cronaca spicciola- la decisione comune di negare la fiducia al Governo Draghi sia alla fine maturata proprio in forza di queste ambiguità, sia nel destra-centro (Lega e Forza Italia), sia nel M5S.

I sacrifici imposti dalla guerra anche ai popoli dei Paesi dellUnione Europea che con maggiore determinazione hanno manifestato concreta solidarietà allUcraina -con il soccorso umanitario, con risorse finanziarie, con la fornitura di armamenti-, rischiano oggi alimentare, anche nel centrosinistra, quanti condannano soltanto a parole Putin, ma accettano di mettere in discussione il diritto degli ucraini a difendersi da un aggressore imperialista invocando, a parole, la pace. Sbagliano coloro che -sia pure in buona fede- sostengono che sia impossibile vincere con una superpotenza che possiede larma atomica”. E si mobilitano “per la pace”, senza qualificarne in alcun modo le condizioni in capo allaggressore. Se per vincere” si intende respingere lattacco dellaggressore e obbligare loccupante a ritirarsi nei suoi confini, leroico popolo ucraino può vincere. Aiutarlo ad ottenere questo risultato, continuando a fornire pieno sostegno politico e attiva solidarietà, anche attraverso la fornitura delle armi necessarie a difendersi dalla superpotenza che lo ha brutalmente aggredito, è al tempo stesso un dovere e una scelta che corrisponde agli interessi più veri e profondi dellItalia, dellUnione e di tutti i popoli del mondo. Per la libertà e per la pace.

2- Per un’Europa unita e forte, nell’interesse dell’Italia

Malgrado la moderazione dei toni in campagna elettorale, confermata nella Relazione programmatica di Giorgia Meloni, è serio il rischio che, con il Governo di destra-centro, possa determinarsi un rilevante mutamento nella posizione del Paese rispetto allUnione Europea. Se, sul piano delle alleanze politico-militari, la collocazione dellItalia non pare destinata a mutare -solido ancoraggio alla Nato e duro contrasto allimperialismo della Russia di Putin (Lega e Berlusconi permettendo)- resta elevata la probabilità che il nuovo Governo adotti invece una sorta di approccio polacco al rapporto con l’Unione, caratterizzato dalla tendenza a forzare in chiave nazionalista i termini delle politiche dellimmigrazione, a rinegoziare aspetti qualificanti del PNRR (dalla legge sulla concorrenza, mai citata nella Relazione programmatica, alle regole fiscali su cui si poteva fare molto di più), ad affermare la supremazia del diritto nazionale su quello comunitario, a sostenere le scelte dellUnione soltanto quando esse torneranno direttamente utili al nostro Paese.

Da Paese atlantista e, ancor più, europeista, l’Italia ha di fronte a sé il rischio di diventare un Paese atlantista ma euroscettico, orientato a perseguire l’obiettivo della solidarietà europea solo quando gli fa comodo, contrastando le soluzioni di riforma costituzionale e di governance che possono renderla permanente ed effettiva. L’assenza, nella Relazione programmatica di Meloni, di un impegno a favore della costruzione di una effettiva capacità fiscale dell’Unione, costituisce un allarmante conferma di questo orientamento. Del resto, il progetto Europa non è solo riferito alla governance economica, è anche ruolo geopolitico autonomo, di capacità di tassazione internazionale delle multinazionali, politica industriale e tecnologica e regolamentazione dei nuovi monopoli dell’economia internazionale immateriale.

Il processo di integrazione europea, dopo il grande balzo in avanti del Next Generation EU, resterebbe così privo di uno dei suoi fondamentali motori: lItalia che, con Draghi, aveva riconquistato un riconosciuto ruolo tra i promotori della svolta. Chiusa nel suo approccio polacco” al rapporto con lUnione, lItalia si autoescluderebbe dal gruppo dei Paesi che operano per rafforzare, in tutti i campi, la solidarietà europea… E, suscitando sfiducia tra i partner dellUnione, aprirebbe le porte al grande ritorno di quei governi “frugali” che – costretti a condividere NGEU- tornerebbero, con più possibilità di successo, ad agitare lo spettro dellazzardo morale contro ogni ipotesi di più profonda integrazione. A farne le spese, insieme allUnione nel suo complesso, sarebbe proprio quellinteresse nazionale italiano che si pretenderebbe di affermare: nessun grande problema dellItalia è risolvibile senza un rapido incremento della coesione europea e un più efficace funzionamento delle istituzioni dell’Unione.

Questo è dunque il primo e più rilevante fondamento dellopposizione del PD al Governo Meloni: una costante iniziativa culturale, sociale e politica per contrastare l”approccio polacco” allUnione, per impedirne le conseguenze peggiori.

3- Contro le disuguaglianze, partendo da lavoro e crescita

La condizione indispensabile perché il centrosinistra possa sviluppare liniziativa di contrasto della disuguaglianza – che resta una sua missione fondamentale – è che ci sia crescita economica, socialmente ed ecologicamente sostenibile. Le donne e i giovani sono gli ambiti del fallimento delle nostre politiche e rappresentano il più autentico terreno di riscatto del nostro paese. D’altra parte, la redistribuzione delle risorse e delle occasioni di lavoro fondata sul merito e sui bisogni aiuta la crescita e il contrasto all’esclusione sociale. Su queste basi, l’aumento della produttività aiuta la lotta alle disuguaglianze. Se il rapporto tra il principale partito del centrosinistra e il mondo della produzione – degli operai e dei tecnici- si viene progressivamente indebolendo -come è accaduto negli anni che ci stanno alle spalle – mentre il rapporto col lavoro autonomo – il 23%del lavoro in Italia – non è mai neppure decollato, è l’universo ideale e programmatico del centrosinistra, la sua cultura politica, che subisce una torsione verso lassistenzialismo, fino a snaturarla. Si finisce così per non vedere” che più del 50% dei contratti nazionali è scaduto senza realistica prospettiva di rinnovo nel breve periodo, mentre i contratti non standard, senza diritti per i lavoratori, sono molto diffusi, soprattutto nel terziario e nella logistica.

La lotta contro le vecchie e le nuove disuguaglianze – che può e deve prevedere misure di assistenza verso i poveri e gli esclusi, quale che sia la causa della loro debolezza -, deve rigorosamente iscriversi in una credibile strategia di emancipazione, incentrata sullo sviluppo delle forze produttive. Non c’è infatti produzione di ricchezza senza imprese, senza valorizzazione dell’iniziativa economica privata, del talento e del sacrificio degli individui. Il nostro compito è quello di aprire a tutti questa possibilità, contrastando le disuguaglianze di destino, le rendite e i privilegi. Anche e soprattutto facendo ricorso ad obiettivi concretissimi – perché capaci di incidere sulla vita di ogni cittadino – e al tempo stesso evocativi di una visione sul futuro della società. Si deve riconoscere che sia la destra – con la flat tax, qualunque sia la versione che ne viene data – sia il M5S, con il reddito di cittadinanza, hanno fatto fronte a questa esigenza meglio del PD. Non è stata utile – se mirava al conseguimento di questo scopo – la proposta della dote di 10.000 euro per i diciottenni”. Ben al di là della soluzione scelta per il finanziamento di questa proposta (ragionevoli imposte di successione sono pacificamente parte del patrimonio programmatico della sinistra), diecimila euro regalati dallo Stato non sono in grado né di redistribuire reali opportunità a favore di quei giovani cui la lotteria della famiglia di nascita ne ha assegnato di meno, né di intaccare il meccanismo di riproduzione della disuguaglianza nelle dotazioni dei giovani, né di favorire la riduzione del divario formativo che separa i figli delle famiglie più dotate di reddito, patrimonio e formazione da quelli più sfortunati.

Sosteniamo la proposta “genitori alla pari” di congedi egualitari, visto che “child penalty” resta la causa maggiore delle disuguaglianze di genere nel mondo del lavoro, per questo sono strategici gli investimenti in infrastrutture sociali (obbligo scuola infanzia, comunità educanti). La grande trasformazione del lavoro apre spazi inediti, pensiamo sia necessario legare gli aumenti di produttività al recupero del tempo anche per lavori a più basso valore aggiunto, con una sorta di “tempo di base” (copyright Maurizio Ferrera) dove il sabbatico per fare formazione o ribilanciare vita e lavoro in certe fasi non se lo prendono solo gli accademici o i rampanti della finanza, ma operai specializzati e cassiere.

Il mondo più giusto che il centrosinistra vuole costruire sarebbe assai meglio evocato da una proposta di drastica riduzione (almeno cinque punti per tutte le aliquote) dellimposta sul reddito da lavoro delle donne (di tutte le donne, di quelle che già lavorano e di quelle che lo faranno), e dei giovani. Una proposta mirata alla crescita economica (e al contrasto del declino demografico), perché può ampliare la partecipazione alle forze di lavoro. Una proposta ispirata a ridurre la più antica e consolidata forma di discriminazione sociale. Una proposta capace di animare un positivo confronto culturale, nella società e allinterno di ogni famiglia.


Un analogo potere evocativo, unito al rafforzamento delle condizioni reddituali e patrimoniali dei lavoratori, ha lo sviluppo di nuove forme di democrazia economica: è dunque urgente un’iniziativa, nel Parlamento (ci sono disegni di legge fermi nei cassetti da tempo) e nel Paese, per rimuovere gli ostacoli, normativi e fiscali, all’introduzione di istituti di partecipazione dei lavoratori, quali la  codeterminazione, la partecipazione agli utili, la presenza nell’azionariato, anche facendo tesoro delle migliori esperienze internazionali.

4- Un paese a misura degli ultimi è più giusto anche per gli altri

In questo quadro, la nostra strategia politica dovrà ridefinire priorità e strategia, non “occuparsi dei poveri e degli esclusi” ma di riportarli dentro la democrazia, provare ad ascoltarli davvero. Abbiamo di fronte un’umanità dolente e rassegnata, che invecchia sola, che non sa a chi chiedere aiuto, che annaspa, vivacchia, si arrangia. Non serve il paternalismo di chi si piega sui poveri.  Abbiamo molto da imparare, cercando di tenere insieme ragione e sentimento, visione e capacità di azione.  Per farlo bene, gli interventi assistenziali di redistribuzione devono essere inseriti in un sistema che torni a far funzionare l’ ascensore sociale. Il Reddito di cittadinanza non va abolito, ma migliorato: raggiunge solo il 47% dei più poveri (rapporto Caritas) e consente troppi abusi. Non raccoglie le buone intenzioni del Reddito di inclusione (Rei): la sua riforma deve accompagnarsi all’introduzione del reddito di formazione. Quest’ultimo, è composto di due ingredienti: 1-un percorso personalizzato di formazione e accompagnamento al lavoro; e 2-una forte garanzia del reddito per chi accetta di mettersi in gioco seguendo quel percorso (fino a 1500 € al mese, più un sostegno alla mobilità nel caso sia richiesto di spostarsi). Così si rovescia la logica attuale delle politiche di sostegno a chi cerca lavoro. Non più sussidi con condizionalità che nessuno controlla, ma un percorso fatto di bilancio e certificazione delle competenze, orientamento, formazione e sostegno alla mobilità. Sul fronte del sostegno economico, il reddito di formazione non prevede la forte riduzione mensile della Naspi (che oggi diminuisce del 3% ogni mese dal sesto mese in poi), fornisce una copertura più lunga agli over 50 ed è più facile da ricevere per i giovani in cerca di prima occupazione (che non devono aspettare quattro anni di contribuzione piena, come avviene adesso, prima di ricevere una garanzia del reddito che permetta loro di formarsi e mettersi in gioco).


Il nostro impegno deve essere quello di accendere la speranza di un futuro migliore per ogni persona, per la sua famiglia e per il nostro Paese. Il mezzo – mai davvero realizzato – è la costruzione di una vera uguaglianza delle opportunità, coniugata con la valorizzazione del merito e dell’impegno nella comunità, nel lavoro, in un ambiente dinamico e solidale, dove il mercato e lo Stato si integrano e si sorreggono, correggendo l’uno i fallimenti dell’altro. Un partito che sa parlare di merito, di impegno, coesione sociale, senso di comunità.

In tutti gli ambiti il tema della “cura” deve irrompere nella questione politica. Non è tema di genere ma di allargamento della capacità della politica di edificare il bene comune. La dimensione della cura è un perno del lavoro dignitoso.

Dentro un progetto integrale che si occupi di benessere, di salute, di fragilità, dell’educazione dei più piccoli, che costruisca fiducia e strumenti per la natalità, che riporti un’attenzione prioritaria ai giovani e al loro diritto al voto (a quei 4 milioni e 900 mila fuori sede che non hanno potuto votare), alla qualità dell’aria e alla vivibilità nelle nostre città, alla crescente emigrazione dei giovani italiani.

C’è una generazione di ragazze e ragazzi che non crede nella politica, se ne allontana, ne critica il linguaggio e gli obiettivi. A noi intercettarli e darle spazio.

Si tratta di scommettere sulla persona e sulla società, sulle loro energie, impegnando lo Stato nel compito fondamentale di creare – innanzitutto attraverso l’accesso universale ad una educazione e ad una formazione di qualità; coi propri investimenti a rendimento molto differito nel tempo e sui progetti più rischiosi; attraverso la regolazione dei meccanismi di concorrenza; e con la costruzione di dispari opportunità positive a favore di quanti da  soli non ce la possono fare-, un contesto favorevole al  pieno dispiegarsi di queste energie.

Come non esiste redistribuzione senza crescita -soprattutto per un Paese come l’Italia, gravato da un ingente debito pubblico, sostanzialmente fermo da oltre vent’anni e in grave crisi demografica- così non esiste crescita senza efficaci politiche di inclusione e di sicurezza sociale.

Sul lavoro serve un decalogo di diritti sociali esigibili a prescindere dal contratto di lavoro (autonomo, dipendente, part-time/full time, a termine/tempo indeterminato): solo così i lavori sempre più frammentati avranno un terreno minimo di ricomposizione, proprio sulla base della dignità del lavoro. Bisogna combattere il lavoro povero, con un salario minimo che non entri in concorrenza con la contrattazione collettiva. Su questo tema i ritardi del nostro paese e del centro sinistra non hanno giustificazione.

Dopo la sicurezza sul lavoro, il diritto soggettivo alla formazione deve diventare un diritto universale di tutte le lavoratrici e i lavoratori. Un percorso duale lungo tutta la vita delle persone è un vero anticorpo al precariato e all’insicurezza.

Nella società della conoscenza, il primo ascensore sociale è la scuola di qualità. Perché risulti efficace bisogna investire massicciamente sulla qualità dellinsegnamento. Questo implica una migliore formazione degli insegnanti, ma anche la scelta di impiegare i migliori laddove il loro contributo è più necessario. Implica un sistema di valutazione dei risultati di apprendimento ottenuti che crei basi certe per premiare i migliori con stipendi molto più alti, anche al fine di adeguare i tempi di presenza nella struttura scolastica rispetto agli attuali. Implica esaltare l’autonomia degli istituti scolastici, scommettendo sulla volontà delle comunità locali di investire sulle loro” scuole.

I servizi al mercato del lavoro vengono, tra gli ascensori sociali, subito dopo la scuola, alla quale sono strettamente connessi tramite il sistema della formazione professionale. Il baratro da colmare è quello tra le centinaia di migliaia di posti di lavoro che le imprese italiane non riescono a coprire e la realtà della disoccupazione. Il Jobs Act, per quanto incompleto sul grande tema delle competenze, contiene elementi positivi sui quali non si è lavorato in sede di attuazione.  Prevede ad esempio listituzione dellanagrafe della formazione professionale, per incrociare i dati con le comunicazioni obbligatorie al Ministero del lavoro sulle assunzioni, ottenendo la base informativa per concentrare linvestimento sugli istituti di formazione che funzionano meglio. Più in generale, è stato un errore non avere imposto lattuazione di quelle parti (formazione professionale, assegno di reinserimento) che potevano finalmente far partire, anche in Italia, quelle politiche attive per il lavoro che restano -a tutto danno dei più deboli- una chimera. Un partito adulto” adegua la sua strategia riformista alla luce dell’esperienza e dell’impatto delle riforme che realizza sulla condizione di vita delle persone: vale anche per il Jobs Act, sia per le soluzioni che sono state attuate, sia per le soluzioni che sono rimaste sulla carta. Allo stesso modo, è un errore non reagire ad interventi di tipo conservatore, che riducono o annichiliscono la portata delle riforme realizzate, come è accaduto con la controriforma che ha di fatto soppresso l’alternanza scuola/lavoro per tutti gli alunni delle medie superiori, che aveva cominciato a ridurre le distanze tra scuola e mondo del lavoro.

5- Un paese più verde e giusto   

La transizione ecologica è quel processo di innovazione tecnologica e rivoluzione ambientale, di stili di vita e modelli produttivi che consente di ricostruire l’equilibrio nel nostro ecosistema. Il progressivo abbandono delle fonti fossili verso quelle rinnovabili è urgente a livello planetario.

Fissare traguardi nella riduzione delle emissioni inquinanti ha l’utile scopo di fare sul serio, ma senza una gestione intelligente della transizione, i traguardi resteranno teorici e si accumuleranno costi sociali inutili. Serve il buonsenso della neutralità tecnologica, ovvero la possibilità di scommettere su diverse tecnologie nuove o già disponibili per centrare gli obiettivi. L’ambientalismo ideologico fissa traguardi che non raggiunge mai.

Non possiamo spiegare ai lavoratori che perderanno il lavoro per salvare il pianeta. Non è vero. La disoccupazione sarà il frutto di incapacità politiche di gestione della transizione. Sostenibilità ambientale e sociale devono essere coniugate dentro politiche di governo di queste trasformazioni.

L’economia ambientale produce ricchezza e posti di lavoro. A patto che si parta dalla realtà e se ne gestisca l’evoluzione.

6-Giustizia giusta

Una forza di centrosinistra non può permettersi derive forcaiole e giustizialiste.

C’è stata una competizione negativa verso derive di populismo penale, creando costantemente nuove fattispecie di reato, stabilizzando norme emergenziali, ritenendo alcuni pubblici ministeri infallibili: una serie di derive che non ha portato a più giustizia, che ha condotto a un’alterazione dell’equilibrio tra i poteri e che ha frenato lo sviluppo del sistema Paese.

Dobbiamo invece ripartire anzitutto dal dare attuazione al nuovo articolo 111 della Costituzione, come modificata nel 1999: giusto processo con tempi ragionevoli, terzietà del giudice con separazione delle carriere tra chi accusa e chi giudica, oltre a riformare l’abuso d’ufficio per gli amministratori che è fonte di paralisi e a intervenire sulla situazione disumana delle carceri.

7- Aggiornare la Costituzione, rendere più forte la democrazia con un’alternativa neoparlamentare al presidenzialismo

Il PD è certamente il partito italiano che ha più investito sull’aggiornamento della Seconda parte della Costituzione per renderla più coerente con la Prima. Lo ha fatto per due motivi. In primo luogo perché consapevole che la contraddizione insita nella Carta Costituzionale, tra l’estrema ambizione programmatica della prima parte e la drammatica debolezza degli organismi che quel “compito” dovrebbero svolgere (il Presidente del Consiglio primus inter pares  tra i ministri; due Camere con identici poteri), poteva e doveva essere superata attraverso profonde riforme dell’ordinamento. In secondo luogo, perché ha preso sul serio la definizione che ha dato di sé stesso, all’atto della sua nascita: partito riformista a vocazione maggioritaria, asse dell’alternativa di governo rispetto al centro-destra. Se vuole davvero essere questo, il PD “deve” volere che gli elettori -con un solo voto- compiano una scelta sia sul terreno della formazione della rappresentanza, sia sul terreno della indicazione al Presidente della Repubblica sulla formazione del governo. Di più: il PD -facendo delle “primarie” aperte a tutti gli elettori che vogliono parteciparvi il momento decisivo per la scelta della linea politica e della leadership del partito (l’atto finale del Congresso), ha teso a consentire agli elettori del suo lato dello schieramento politico di scegliere contemporaneamente leader del partito e candidato alla premiership del Paese.

Per questo, è stato un errore, nella fase successiva alla dura sconfitta del referendum costituzionale del 2016, sia inseguire l’egemonia culturale di posizioni populiste in materia costituzionale, sia operare una sorta di derubricazione del tema delle riforme istituzionali, quasi che fosse corrispondente agli interessi del Paese (e dello stesso PD) rinviarle a tempi migliori. Un errore da cui è discesa la scelta di chiudersi a riccio -quasi il PD avesse rinunciato ad un elemento costitutivo della sua natura, di fronte all’ipotesi che la legislatura che si è appena aperta possa impegnarsi in un ambizioso disegno di riforme costituzionali. Se è sacrosanto preannunciare la più dura opposizione a tentativi di riforma che si propongano di rompere l’equilibrio costituzionale in chiave illiberale o nazional-sovranista (vedi supremazia del diritto nazionale su quello europeo), bisogna invece immediatamente rilanciare una strategia di riformismo istituzionale, che comprenda misure immediate di razionalizzazione che configurino nel loro insieme un’alternativa neoparlamentare al presidenzialismo (in primis il voto di fiducia a Camere riunite; il voto di sfiducia costruttivo; la proposta di elezioni anticipate da parte del Primo Ministro in caso di rigetto della fiducia in modo da disporre di un deterrente verso le crisi in corso di legislatura), ben inserite quindi in un più ampio e coerente disegno di riassetto della seconda parte della Costituzione che, qualsiasi modello si voglia adottare (neoparlamentare o semipresidenzialismo secondo il modello francese), preveda un rinnovato sistema di pesi e contrappesi, tra cui lo statuto delle opposizioni (incluse procedure e tecnostrutture per controbilanciare potere Mef/Rgs); strumenti di partecipazione digitale complementari alla democrazia rappresentativa (per es. petizioni online).

Purché questo disegno sia ben definito fin dallinizio, i metodi e le sedi del confronto parlamentare potranno essere concordate tra maggioranza e opposizione, sgomberando il campo da pregiudiziali preclusioni, a partire da quelle dettate da esigenze legate a contingenti tattiche elettorali.

8- Un patto di rinnovamento della politica

A determinare l’aggravarsi della generale crisi della rappresentanza ha molto contribuito la mancata applicazione degli articoli 39 e 49 della Costituzione. Il principio costituzionale dell’autonomia delle formazioni sociali e politiche deve ispirare iniziative di riforma ed autoriforma che consentano da un lato di proteggere meglio la loro autonomia, dall’altro di evitare che essa venga usata per coprire un crescente allontanamento da un autentico metodo democratico. Per questo, gli statuti dei partiti devono fissare regole semplici e chiare sulle modalità e i percorsi per la definizione delle scelte politiche e programmatiche, per la selezione dei gruppi dirigenti locali, regionali e nazionali, per le nomine e la scelta delle candidature alle elezioni. Lo stesso vale per la gestione amministrativa, del tesseramento. Lo Statuto vigente del PD, per l’essenziale, ha queste caratteristiche. Ma è la concreta applicazione di queste stesse regole che deve diventare più rigorosa, senza il ricorso a continue deroghe” che finiscono per diventare prassi costante.

9- Stop alle liste bloccate e una diversa legge elettorale

Alla legge elettorale vigente sono state attribuite anche responsabilità che non ha perché spesso, in realtà, dipendono da decisioni dei vertici di partito. Al netto di questo (e non è poco), le liste bloccate sono delegittimate e gli attuali collegi uninominali sono per un verso troppo grandi e per altro verso soggetti a trattative di spartizione nelle coalizioni (anche perché sono a turno unico). L’alternativa però non può essere il voto di preferenza, perché a livello nazionale, a differenza di quanto accade per Comuni e Regioni, esso si baserebbe su circoscrizioni pluriprovinciali con altissimi costi delle campagne e un forte peso di gruppi organizzati, interni ed esterni ai partiti. Le soluzioni alternative, entrambe da preferire, sarebbero quella di avere collegi uninominali a doppio turno, oppure quella di eleggere tutti i parlamentari, come nel vecchio Senato o nelle vecchie province, con il collegio uninominale proporzionale di partito che a quel punto comprenderebbe poco più di 100 mila elettori alla Camera e 200 mila al Senato. In entrambi i casi, la candidata sarebbe ben visibile e questo retroagirebbe anche sulle modalità di scelta da parte dei partiti.
 
Sulla formula di traduzione dei voti in seggi non è di per sé un difetto che una maggioranza relativa in voti possa essere trasformata in maggioranza assoluta in seggi, consentendo che il cittadino sia arbitro del Governo. La legge elettorale vigente è criticabile non perché apra a questo principio condivisibile, ma perché il suo concreto funzionamento è esposto a due esiti opposti, entrambi non desiderabili: o la mancanza di una maggioranza in seggi o una maggioranza che si possa avvicinare ai quorum di garanzia, a cominciare da quelli dei tre quinti per l’elezione dei membri laici del CSM e dei giudici costituzionali di spettanza parlamentare. Per queste ragioni – di nuovo – appaiono più equilibrate due soluzioni alternative: il maggioritario a doppio turno alla francese, oppure predeterminare il livello di disproporzionalità affidandolo a un premio di maggioranza. In entrambi i casi, si supererebbero le storture esistenti senza rinunciare a una democrazia che lascia agli elettori e alle elettrici la scelta di fondo su chi deve rappresentarli in Parlamento e chi deve governare il Paese. L’uninominale a doppio turno si collega naturalmente al semipresidenzialismo francese, il premio di maggioranza al modello neoparlamentare.

10-La leadership che serve

Il PD deve innanzitutto investire su sé stesso, sulla sua capacità di (ri)diventare ciò che ha promesso di essere allatto della sua nascita: un grande partito riformista a vocazione maggioritaria, asse dellalternativa di governo alle forze di destra-centro. Unalternativa di governo che ricerca la sua legittimazione prima nel voto decisivo -su linea e leadership del partito- di tutti i suoi elettori che vogliano esprimerlo, e poi nella vincente competizione elettorale con lavversario di destra-centro.

Malgrado sia stato proprio il PD il partito che ha introdotto in Italia un metodo di selezione della leadership e della linea politica estremamente aperto, volto a superare per questa via (il coinvolgimento degli elettori più attivi), il progressivo restringersi della base degli iscritti, il PD ha finito col rifiutare -nella sua concreta esistenza- proprio il principio secondo il quale il partito -agli occhi del Paese e degli elettori- è un soggetto politico il cui programma, la cui visione delle cose è incarnata da un leader. Il quale, proprio per questo, non può essere scelto sulla base della sua capacità di costruire e mantenere lequilibrio interno ad unoligarchia, ma in forza della sua capacità di dare corpo e visibilità ad una idea di Paese, ad un programma che non sono solo suoi, ma alla finearrivano” agli elettori con unofferta politica unitaria: la figura del leader. Funziona così, da tempo, la democrazia contemporanea. Ha funzionato così anche la recente competizione elettorale in Italia, con lexploit di Meloni e di FdI.

Il PD ha procedure che sembrano derivare dalla consapevolezza di questa realtà. Ma ha comportamenti che la contraddicono. Lidea che si possa uscire da questa sindrome attraverso la scelta di un nuovo “primus inter pares”, prima accompagnato dallunanimità degli organismi dirigenti, poi indotto alle dimissioni al primo insuccesso elettorale-, è del tutto infondata. Serve una nuova fase di apertura, per far circolare una corrente di fiducia che coinvolga tutti gli elettori, compresi molti di quelli che magari non vengono a votare allatto finale del Congresso, ma dimostrano di avere un legame di identificazione profonda col PD (come documentano tutti gli studi sui flussi elettorali, anche relativi a queste ultime elezioni politiche).

Non servono quindi nuovi nomi o nuovi simboli. E non serve alcuna tattica dilatoria nella convocazione del Congresso: serve un confronto aperto e coinvolgente che sia in grado di interessare e mobilitare milioni di elettori di centrosinistra, chiamati a scegliere la linea politica e la leadership per i prossimi quattro anni. Un confronto capace di concludersi con scelte impegnative e legittimanti sia della nuova leadership individuale e collettiva, sia della sua missione politica, che valgano per i quattro anni successivi. La vicenda politica di altri grandi partiti a vocazione maggioritaria di centrosinistra -dal Partito Laburista inglese al Partito Democratico americano- testimonia che unità del partito nella competizione con lavversario e aperto e duro confronto interno tra posizioni diverse, sono compatibili. È questione di lealtà dei dirigenti e della loro capacità/volontà di rifiutare la logica dei patti di sindacato” interni. Ed è, soprattutto, questione di verità” del confronto interno: è un errore tentare di nascondere” la debolezza delle radici sociali del partito e dei suoi legami con la società dietro la ricerca di alleanze politiche, concepite come surrogati delle relazioni sociali deficitarie. Ed è un errore ancora più grave celare dietro il paravento delle alleanze politiche la sostanza -ideale, programmatica e di leadership- della posizione politica che si vuole affermare nel confronto congressuale. Una mistificazione da cui possono emergere solo scarsa (o nulla) credibilità della proposta di governo; incapacità del maggiore partito del centrosinistra di svolgere una funzione attrattiva (in una parola: di svolgere una funzione egemone nel suo campo); rischi di nuove rotture.

Le scissioni subite nel corso degli ultimi anni hanno indebolito il progetto originario del PD e pongono con ogni evidenza il tema della ricomposizione del soggetto politico riformista, così da rafforzare la credibilità del centrosinistra come forza di governo, fornendogli una leadership “naturale” un solido asse politico-programmatico. A loro volta condizioni indispensabili per eventuali ulteriori accordi di tipo politico-elettorale. Ma questi obiettivi potranno domani essere conseguiti solo se oggi il PD sceglie di investire su sé stesso, sul suo profilo ideale programmatico, sui suoi rapporti col Paese, su di una leadership che incarni l’uno e gli altri di fronte ai cittadini elettori.

 

Primi firmatari:

Marco Bentivogli, Filippo Barberis, Federico Butera, Stefano Ceccanti, Maurizio Del Conte, Giorgio Gori, Pietro Ichino, Marco Leonardi, Valeria Mancinelli, Enrico Morando, Umberto Ranieri, Tommaso Nannicini, Carlo Salvemini, Giorgio Tonini, Lucia Valente, Silvia Zanella.

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