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I dieci anni del PD: in cerca di una cultura comune

di Claudia Mancina

 

 

Che il Pd ci sia ancora potrebbe già apparire come un risultato positivo, a dieci anni dalla sua nascita, che non fu certo assistita da auspici favorevoli.

 

La fusione tra cattolici democratici e postcomunisti

Il tema della “fusione fredda” tra i cattolici democratici (o più precisamente la sinistra democristiana) e i postcomunisti fu al centro dei commenti. Il ricordo della sfortunata fusione tra socialisti e socialdemocratici del 1966 – la “bicicletta”, come fu impietosamente definita, dalla lista che affiancava i due simboli – gravava come un presagio fatale sul nuovo partito della sinistra.

Ancora adesso, due politologi acuti come Natale e Fasano, autori di un interessante bilancio della breve storia del Pd (L’ultimo partito, Torino, Giappichelli, 2017), attribuiscono alla fusione le difficoltà e le incertezze incontrate fino ad ora. Ma l’attenzione a tale questione, in realtà molto meno significativa di quanto si creda, impediva e impedisce di vedere i problemi profondi che fin da quel 2007 erano presenti e che, non essendo mai stati affrontati, non sono mai venuti meno.

 

Nato con dieci anni di ritardo

Il Pd – come ha riconosciuto Veltroni – nasceva con dieci anni di ritardo. Ci si doveva aspettare che nascesse come sviluppo coerente dell’Ulivo, che nel 1996 aveva vinto le elezioni e si presentava non solo come una lista, un’alleanza elettorale, ma come la promessa di un nuovo soggetto politico. Quella promessa è stata mantenuta solo dieci anni dopo, ma in condizioni molto mutate, e molto meno felici.

Il ritardo in politica non è mai solo un fatto temporale: è causa di cambiamenti significativi, ed è effetto di errori o di precise intenzioni. Ci furono gli uni e le altre, tra il 1996 e il 1998 (i brevi anni del governo Prodi). Errori da parte di Prodi e Veltroni, che sottovalutarono la necessità e la possibilità di avviare quella trasformazione dell’Ulivo in soggetto, fidando che la gestione del governo di per sé spingesse il mutamento. Intendiamoci, non sarebbe stato facile: forse avevano ragione loro. Del resto Prodi non aveva un partito, e Veltroni non aveva – non ha mai avuto – il partito. E l’opposizione interna a quella trasformazione era molto forte, sia nel coté postdemocristiano sia in quello postcomunista.

Questo secondo, naturalmente, guidava il fronte antiulivista, perché quantitativamente più forte, perchè dotato di una solida ancorché vecchia cultura politica, perché diretto da un leader spregiudicato come Massimo D’Alema. Non c’è bisogno di rivangare i retroscena di quegli anni per sapere che D’Alema mise in campo tutta la forza di un partito strutturato e territorialmente radicato contro lo sviluppo dei Comitati dell’Ulivo, vissuti come un attacco all’egemonia del Pds. Indubbiamente desideri o velleità di ridimensionare il Pds erano presenti tra i prodiani – il celebre seminario di Gargonza lo testimoniò, provocando la reazione furibonda di D’Alema – ma la cifra principale dei Comitati per l’Ulivo non era questa.

 

I comitati per l’Ulivo

Era invece la ripresa di una iniziativa dal basso, ma non in contrasto con i partiti, che vedeva riunito e impegnato il cosiddetto popolo della sinistra su un progetto nuovo. Era il ritorno alla politica di persone deluse e sfiduciate. Era il ritorno di molti di coloro che si erano avvicinati alla politica negli anni settanta, e si erano poi allontanati, respinti dallo sfacelo del Psi e della Dc, ma anche dalla crisi autoreferenziale degli ultimi anni del Pci. E insieme a queste, una nuova leva di giovani che scoprivano l’impegno politico. Gli uni e gli altri non erano disposti ad accontentarsi di una tiepida continuazione dei vecchi partiti sotto mutate spoglie. Ci sarebbe voluto un gruppo dirigente capace di aprirsi a queste persone, a queste spinte verso il futuro.

Il Pds dalemiano rispose invece con il sospetto e la chiusura, con l’invenzione di una frattura tra “ulivisti” e “partitisti” che precipitò l’insieme dell’Ulivo (anche i popolari fecero la loro parte) in una furiosa lotta interna, che soffocò i Comitati, deluse molte speranze, e alla fine non poteva non risultare – senza bisogno di complotti – nel crollo finale del governo Prodi e quindi delle aspettative che a quel governo si legavano.

 

Popolari e diessini: conservatori allo stesso modo

La storia dal 1998 al 2007 è una storia di confusione politica e di smarrimento culturale. La causa non è nel blocco reciproco tra i popolari e i diessini, nel quale Natale e Fasano vedono il vizio d’origine del Pd. In realtà ciascuna delle due principali tradizioni politiche che si affiancavano nell’Ulivo, e che poi si fusero nel nuovo partito, erano in sé deboli, vecchie, gravate da contraddizioni, e in conclusione poco riformiste.

I popolari non erano conservatori solo sui diritti civili, ma anche sulle questioni istituzionali: erano proporzionalisti e legati a una visione piuttosto fondamentalista della Costituzione. E i postcomunisti erano incapaci di uscire da una visione statalista, che dal comunismo originario poteva trascorrere in una generica socialdemocrazia senza perdere la sua rigidità.

 

La mancanza di una cultura comune

Sarebbe stato necessario un grande impegno di elaborazione culturale, una vera e propria battaglia delle idee. Su questo L’ultimo partito ha ragione: le debolezze del Pd derivano fondamentalmente dalla mancanza di una cultura politica comune. Anche la testarda, e alla fine sempre vincente, ostilità alle leadership forti – che tanti lutti ha provocato – può essere riportata al conflitto tra culture politiche più che alle invidie e alle tensioni personali.

Non che queste manchino, ma trovano alimento e giustificazione in una visione di tipo ottocentesco, ancora dominante in molte sfumature della sinistra, per la quale la democrazia non consiste nell’esercizio del potere entro certe regole e secondo certi principi (libertà, eguaglianza, autogoverno e responsabilità), ma nella difesa, anche corporativa, anche cieca alle conseguenze, dal potere.

Poi, in un circolo vizioso permanente, i leader deboli non sono in grado di impegnarsi in un profondo rinnovamento culturale del partito, lasciando vivere, accanto a isolate dichiarazioni verbali, i riflessi condizionati, i luoghi comuni, i conformismi che la sinistra ha costruito in settant’anni di storia repubblicana. A questa incertezza culturale e perfino valoriale si devono le oscillazioni che il Pd ha avuto e continua ad avere tra posizioni politiche molto diverse.

Alla mancanza di elaborazione si deve il triste sentore di improvvisazione che spesso promana dalle dichiarazioni di molti esponenti, poi costretti all’ancor più triste balletto delle rettifiche e delle precisazioni. Il risultato è una identità politica confusa, che spiega meglio di tante dotte analisi politologiche la difficoltà del Pd ad allargare il suo consenso. Oggi come nel 2007.

 

Non basta l’energia personale

Matteo Renzi ha forse pensato che la sua indubbia energia personale potesse bastare a definire una nuova identità del partito; gli eventi degli ultimi mesi dovrebbero avere dimostrato che non è così. Se questo è vero, allora la necessità dell’elaborazione culturale resta il primo problema del Pd.

All’assemblea del Lingotto (marzo 2017, ma sembra già un altro tempo) Renzi aveva ripreso il tema della egemonia culturale da ricostruire – introdotto pochi giorni prima da Angelo Panebianco, un commentatore scomodo che meriterebbe di essere ascoltato di più – e dichiarato di volere non un partito pesante, ma un partito “pensante”. Ma il Pd non ha luoghi dove si possa “pensare”. Non ha sedi di elaborazione culturale, non ha think tank.

Non si tratta di riproporre i convegni di un tempo. Ma qualche strumento si deve pur trovare per discutere, al proprio interno e con gli osservatori esterni, le linee di iniziativa e di intervento di un partito che governa l’Italia e si candida a continuare a governarla negli anni complicati che ci aspettano. Altrimenti si continua a procedere a tentoni, a volte meglio a volte peggio, ma sempre senza solidi fondamenti. Pensiamo alla svolta – giusta e, a quanto sembra, anche efficace – che ha portato alla linea Minniti sull’immigrazione. Questa svolta appare inaccettabile alla sinistra tradizionale, molto numerosa anche nel bacino politico del Pd. Allo stesso modo altre iniziative, come il Jobs Act o la riforma della Costituzione, sono risultate indigeribili e hanno eroso il consenso di Renzi.

 

Serve una battaglia per l’egemonia

Bisogna capire che la sinistra tradizionale sarà alla lunga sempre più forte, sull’immigrazione come sulla scuola, sulle riforme istituzionali come sul lavoro, se non si mette in campo una vera e propria battaglia per l’egemonia. Ci sono temi che non possono essere accantonati ed elusi.

Il primo è il giudizio sulla globalizzazione e sulle politiche della sinistra negli anni novanta. La Terza via è stata davvero un cedimento al neoliberismo, o è stata un tentativo, in parte riuscito in parte fallito, di dare alla sinistra un pensiero nuovo capace di uscire dalla denuncia e governare la complessità? Che cosa mancava a quel pensiero? Come si spiega la successiva crisi della socialdemocrazia europea, anzitutto di quella tedesca, nonostante le riforme di Schroeder siano alla base dell’attuale benessere della Germania?

Ha ragione Luca Ricolfi (Sinistra e popolo, Milano, Longanesi, 2017) nell’indicare il bisogno di protezione come problema principale dei paesi occidentali, che la globalizzazione ha spogliato del loro dominio sul mondo? Oppure ha ragione chi vede nella globalizzazione il trionfo del dominio capitalistico? Sono domande che possono avere risposte diverse, ma che non possono non essere affrontate se si vuole definire una identità del Pd a confronto con la realtà.

 

L’eredità (pesante) del Pci

Così come non si può sfuggire alla riflessione sul Pci e sulla sua eredità, che è tanto più pesante quanto più viene rimossa. Tutte le formazioni politiche postcomuniste sono state incapaci di prendere le distanze da quella eredità, e quindi anche di riconoscerne gli aspetti positivi. Certo non è compito di un partito scrivere la storia: ma è suo compito ineludibile chiarire la propria identità politica rispetto a una storia importante come quella dei partiti della Repubblica.

Renzi ha avuto il merito di tagliare il cordone ombelicale sia con il cattolicesimo democratico, dal quale proviene, sia con le ambiguità del postcomunismo. Il vero senso politico della rottamazione è stato questo, ben oltre le questioni anagrafiche. Ma un partito che continua a riconoscersi in Enrico Berlinguer – o, molto peggio, in Pasolini – sarà difficilmente in grado di seguire il suo leader nel coraggio delle riforme. E non potrà non essere, a dieci anni dalla sua formazione, un partito incompiuto: una base fragile e infida per l’azione di governo.

 

 

Articolo già apparso sulla rivista Left Wing