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Usa 2020: tre questioni aperte che meritano attenzione

Voters wait to get a ballot at a polling station during the mid-term elections at the Old Stone School in Hillsboro, Virginia on November 6, 2018. - Americans started voting Tuesday in critical midterm elections that mark the first major voter test of US President Donald Trump's controversial presidency, with control of Congress at stake. (Photo by ANDREW CABALLERO-REYNOLDS / AFP) (Photo credit should read ANDREW CABALLERO-REYNOLDS/AFP/Getty Images)

di Pasquale Pasquino

 

I sondaggi ed i commenti relativi alle elezioni americane si sono concentrati nelle ultime settimane sulla elezione presidenziale, cioè sul conflitto fra il candidato Repubblicano, il presidente in carica Donald Trump, e lo sfidante Democratico Joseph Biden. E forse si dovrebbe dire sul plebiscito a favore o contro chi ha governato il paese negli ultimi quattro anni, negando il pericolo rappresentato della pandemia, quel “virus cinese”, come lo chiama il presidente in carica, che costui ha avuto il torto di sottovalutare.

Bisogna però non farsi distrarre da due altri eventi: uno appena trascorso, la nomina del sesto giudice scelto dai Repubblicani una settimana prima della tornata elettorale; e l’altro, che coincide con l’Election Day, che vedrà, oltre alla scelta del presidente, il rinnovo completo della Camera dei rappresentanti, eletta in America ogni due anni, e quello parziale (un terzo) del Senato federale.

 

I poteri del Presidente (e quelli del Congresso)

Su quest’ultimo punto vale la pena di ricordare che il Presidente degli Stati Uniti non ha i poteri di Vladimir Putin, che controlla in maniera quasi monocratica il potere politico in Russia, e nemmeno quelli di Xi Jinping, che condivide il suo controllo sul governo solo con la ristretta oligarchia del comitato permanente del Politburo.

Il sistema americano, infatti, è una forma repubblicana del potere diviso. Il capo dell’esecutivo non può governare il paese, in particolare la politica interna e la funzione legislativa, senza il consenso del Congresso, bicamerale. Ma anche nel caso di un Congresso che nei suoi due rami esprima una maggioranza politica dello stesso colore dell’inquilino della Casa Bianca – come accadde nel 1960 quando John F. Kennedy venne eletto e i Democratici avevano la maggioranza in entrambe le Camere – il presidente eletto non è un sovrano assoluto.

Furio Colombo ha raccontato una volta di aver intervistato Kennedy. Quando gli disse che in quella posizione poteva fare quello che voleva il Presidente gli fece osservare cortesemente che non capiva bene il sistema costituzionale americano. Lui non era nemmeno come il Premier inglese, il capo del partito che aveva vinto, e bisognava tener conto che gli Stati Uniti sono un sistema a potere diviso, al livello centrale, oltre che una federazione che lascia agli stati dell’Unione vasti poteri (fra questi quello dell’organizzazione del sistema elettorale, come vedremo martedì).

E’ vero che negli ultimi decenni il potere del Presidente americano si è accresciuto e che il potere esecutivo si è accresciuto notevolmente ma è difficile pensare che Biden, se eletto, possa semplicemente scavalcare il Congresso e creare una struttura quasi monistica del potere, come ha cercato di fare Trump creando grande confusione alla Casa Bianca e al Dipartimento di stato. 

Questo dovrebbe spingerci a fare molta più attenzione di quanto si è fatto di recente all’elezione del Congresso. In questa prospettiva se non sembra esserci dubbio che la Camera resterà sotto il controllo del Partito democratico, la partita è del tutto aperta al Senato a proposito del quale nessun sondaggista serio si azzarda a fare pronostici, poiché in molti dei seggi in palio i dati che abbiamo sono interni al margine statistico di errore.

Dunque, se, come pare verosimile, Biden dovesse essere eletto alla testa dell’esecutivo, nel caso, del tutto possibile per quanto ne sappiamo, che il Senato resti nelle mani del Partito repubblicano (in larga misura ‘trumpista’, fino ad una sua eventuale rifondazione), le possibilità del Presidente democratico di governare un paese diviso sono scarse e ne fanno sin dall’inizio e almeno per due anni (quando ci sarà un nuovo rinnovo parziale del Senato) un presidente zoppo.

 

Come cambierà la politica estera americana

Anche per quanto riguarda la politica estera, che è naturalmente quella a cui guardano con più attenzione gli osservatori stranieri, sarebbe sbagliato assumere che il presidente possa fare quello che vuole. Questo è ciò che ha voluto far credere Trump. Con l’uso espansivo di executive orders e soprattutto di una retorica da bullo che non ha avuto molti riscontri nella realtà. Al di là dei conflitti commerciali, in particolare con la Cina, e della perdita secca di reputazione internazionale degli Stati Uniti, Trump è riuscito soprattutto a tener fuori dei confini un po’ di bambini sfortunati e qualche professore invitato dalle università americane. Vale la pena in ogni caso di ricordare che il Senato nomina a maggioranza tutti i giudici federali e deve ratificare i trattati.

Peraltro, anche con una maggioranza Democratica al Congresso, Biden potrà difficilmente mutare radicalmente la politica estera verso la Cina e l’Iran (per non mettersi contro Israele e gli stati sunniti del Golfo). Molto probabilmente miglioreranno le relazioni con il Messico, peraltro governato da un presidente populista, e con l’Unione Europea. Non a caso la grande maggioranza degli europei, con l’eccezione dei sovranisti di destra, ha dichiarato nei sondaggi di preferire Biden.

Ma la fine del fortunato, per noi europei, lungo periodo della Pax Americana, e dell’egemonia di quel paese che ci ha salvato con l’Unione Sovietica dal dominio nazista, il declino lento dell’America come guida delle democrazie liberali sembra irreversibile. Il ritorno allo statu quo ante significa necessaria assunzione piena delle proprie responsabilità politiche, economiche e militari da parte dell’Unione Europea, che deve decisamente uscire dalla sua adolescenza.

 

Quanto conta l’astensione negli Usa

Un altro punto sul quale vale la pena di attirare l’attenzione riguarda la massiccia astensione degli elettori americani, più inquietante anche se non più massiccia nel presente contesto. Il paese, come non si è smesso di ripetere, è ostilmente diviso, come mai dalla Seconda guerra mondiale, e sessanta milioni di americani voteranno probabilmente Trump, questo anno come quattro anni fa. Questi elettori accetteranno malvolentieri – e speriamo pacificamente – la loro sconfitta, ma è altrettanto vero che un numero molto più grande di cittadini, intorno al 40% degli aventi diritto al voto, non si recheranno alle urne, come accade ormai da molti anni.

Non sto dicendo che ci sarà un aumento dell’astensionismo, al contrario, pare dai primi dati sui voti numerosissimi per corrispondenza che la partecipazione sarà più elevata che nel 2016, quando avevano votato circa 137 milioni di cittadini su 230 aventi diritto al voto. Vorrei che si riflettesse su una questione più generale indipendentemente da queste elezioni nelle quali probabilmente circa 80 milioni di americani non si recheranno alle urne, nonostante il forte scontro politico e gli appelli al fatto che si tratta di elezioni decisive per il futuro degli Stati Uniti.

È un errore pensare che le elezioni servano solo a scegliere questo o quel candidato. Dal punto di vista – superficiale però – degli eletti questo è quello che conta e in America si spendono somme di danaro stratosferiche per farsi eleggere. Ma le elezioni, come risulta dalla loro genealogia in occidente a partire dalle dottrine dei diritti naturali, hanno innanzitutto la funzione di legittimare l’esercizio dell’autorità politica e di fondare l’obbligo all’obbedienza.

Noi, dicono i rappresentanti scelti dai cittadini – anzi la maggioranza – promulghiamo delle leggi che sono degli ordini e che voi cittadini dovrete obbedire perché ci avete scelto e potrete anche non sceglierci più e sostituirci con altri, se i nostri ordini ai quali avete dovuto obbedire non vi sono piaciuti.

Tutto questo è alternativo al vecchio discorso che diceva: Tu mi devi obbedire perché io sono naturalmente superiore a te che sei inferiore a me per natura. Oppure – queste alcune alternative – mi obbedirai perché stiamo facendo insieme la Rivoluzione che cambia la natura umana. (Tale principio di legittimazione in genere dura poco). Oppure mi obbedirai perché ti faccio ricco ed eri povero (Deng). Certo se il governo impoverisce sempre di più i suoi cittadini, anche in democrazia, rischia di finir male – ma questa è un’altra storia. 

Sappiamo anche che nessuno sa rispondere chiaramente alla domanda: a partire da quale tasso di astensione le elezioni non danno più legittimità al governo? Chi ha più voti vince comunque (un po’ come nei referendum senza quorum), ma rischia di non comandare più.

Non sappiamo bene la risposta alla domanda che pongo circa il tasso necessario di partecipazione elettorale. Ma dovremmo riflettere sul fatto che in Francia fra due anni è l’astensione che potrebbe decidere del prossimo presidente. 

Le ragioni dell’astensione, questo lo sappiamo, sono diverse e vanno dal disinteresse per la politica al rifiuto ed alla protesta nei suoi confronti. Alcuni in America pensano che il “non voto” sarebbe una forma di consenso implicito senza espressione di una preferenza: questo o quello per me pari sono. Che potrebbe voler dire: vanno bene tutti e due o non va bene nessuno.

Eppure, è chiaro che il problema resta. Non basta avere più numeri di voti per governare ci vuole almeno una generale acquiescence della società per non essere un re o un parlamento travicello. Se il non voto non è acquiescenza c’è rivolta. O più probabilmente disobbedienza passiva e disfunzionalità del sistema, ed il rischio di conflitti e divisioni sempre più rigide. 

 

Da che parte sta chi non vota?

Quello che mi ha colpito in una discussione talvolta ossessiva sulle elezioni americane è stata l’assenza del tema. Si continua a parlare di una società bitterly divided. Ma anche questa volta si dimenticano certi numeri. Quelli di coloro che non votano. Da che parte stanno? Bisogna credere che c’è una parte della società che si scontra con una certa ferocia, almeno verbale, finora, ed un’altra che mangia popcorn? Una America non solo divisa fra ‘trumpisti’ e non. Ma fra partecipanti nemici, da una parte, e indifferenti, dall’altra? Questo però vuol dire che non sappiamo come funziona una società in cui metà sono guelfi e ghibellini mentre gli altri stanno a guardare. Ci penseremo meglio dopo queste elezioni.

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