LibertàEguale

Non facciamo tavola rasa del Partito Democratico

di Norberto Dilmore e Michele Salvati

 

“Du passé faisons table rase”, “Facciamo tavola rasa del passato”: così cantano i compagni francesi nella loro versione dell’Internazionale. Ed è con questo spirito che alcuni componenti della commissione degli “87 saggi” si sono scagliati contro il Manifesto dei Valori del PD alla prima riunione convocata per il suo aggiornamento. “Documento … brutto, bolso, illeggibile, fatto di parole d’ordine, burocratese”, “impregnato di neoliberismo e antipolitica”, con un’“impostazione ordoliberista, non adeguata ai tempi”, “manifesto di un partito a vocazione centrista, blairiano” sono state alcune delle critiche indirizzate al documento redatto nel 2007. Queste critiche hanno inevitabilmente scatenato la reazione di quei componenti della Commissione che volevano sì aggiornare, ma non riscrivere, il Manifesto. Di conseguenza, quella che nelle intenzioni del segretario Letta avrebbe dovuto essere un’occasione per far convergere le varie anime del partito su un documento unitario, prima che si dividessero di nuovo nella scelta del segretario, è diventata un casus belli, rientrato solo dopo il chiarimento che la commissione degli 87 (nel frattempo scesi a 85) non si proponeva di redigere una nuova carta.

Noi eravamo scettici dell’utilità di convocare una tale commissione e uno di noi, Salvati, ha anche esplicitato i suoi dubbi in un articolo sul Foglio apparso subito dopo la sua creazione (Pensare la prima volta, da socialdemocratico, di dire addio al PD, 1/12/2022). Era relativamente facile prevedere che in una fase di forte incertezza e turbolenza all’interno del partito, nel quale non vi era e non vi è un vincitore in pectore delle primarie per la posizione di segretario e sono presenti diverse letture delle ragioni della sconfitta elettorale, una disanima serena dei “valori” del PD sarebbe risultata molto difficile.

La diatriba ha comunque sollevato un punto importante, non tanto legato ai valori, quanto alle politiche da perseguire: quali priorità deve darsi il Partito Democratico ora che la fase internazionale neoliberista, come crediamo, si è esaurita? Deve avanzare un’agenda completamente diversa da quella del passato, rafforzare gli aspetti identitari della sinistra e, come ha suggerito Nadia Urbinati, “essere parte e non tutto”? A nostro avviso la seconda questione è posta male perché presuppone che ci sia una sola risposta progressista alla crisi del neoliberismo e all’emersione di una nuova fase del capitalismo. In realtà ci sono diverse risposte progressiste possibili e quella sostenuta dai critici radicali del Manifesto è a nostro avviso inadeguata ad affrontare le sfide che l’Italia ha di fronte negli anni a venire.

Sul fatto che la narrativa neoliberista sia in crisi, che stiamo transitando verso una nuova fase del capitalismo nei paesi avanzati e che questa transizione sia aperta, nel senso che può portare a risultati regressivi o progressivi in base alle forze che gestiranno il cambiamento e alla narrativa che prevarrà, c’è ampio consenso. Non è questo che ci divide, come non ci divide l’ambizione di continuare il processo di emancipazione dei ceti sociali più deboli, sia in termini di una distribuzione meno diseguale dei redditi e delle ricchezze sia in termini di partecipazione alla vita politica ed economica del paese. Questi obiettivi sono condivisi ed è la ragione per la quale stiamo nello stesso partito. Laddove l’accordo viene meno è sulle priorità da perseguire, sugli strumenti da utilizzare e sulle modalità del loro utilizzo. 

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La sinistra del partito pensa che per riguadagnare il terreno perduto si debba puntare tutto sulla “triade” redistribuzione, investimenti nella green economy e politica industriale (più o meno europea). Dopodiché l’intendance suivra e la triade si porterà appresso il resto dell’economia italiana. Al fine di rafforzarla si introdurranno riforme (scuola, università, sanità, pensioni, mercato del lavoro, ecc.) guidate principalmente da considerazioni redistributive ed egualitarie: secondo la sinistra, esse condurranno alla creazione di circoli virtuosi che dovrebbero portare l’Italia fuori dal ristagno cronico in cui si trova. Queste poche righe sono una semplificazione di posizioni certo più articolate. Tuttavia, pensiamo che identifichino abbastanza bene le priorità economiche del PD così come espresse da alcune personalità di spicco della sinistra del partito. Comprensibilmente esse sottolineano la radicalità dell’approccio: solo una cesura netta col passato, una table rase, può risollevare le sorti del PD. È per questa ragione che il Partito Democratico dovrebbe essere di parte e, almeno fino a quando è all’opposizione, non dovrebbe farsi carico di tutti i problemi del paese.

A nostro avviso, un tale approccio ha scarse probabilità di successo e molto rapidamente si scontrerebbe contro ostacoli insormontabili. L’Italia non cresce da più di vent’anni, mentre la produttività totale ristagna dagli anni ’70. Il reddito pro-capite attuale è inferiore a quello del 2000, abbiamo una delle burocrazie più inefficienti e clientelari tra i paesi sviluppati e il nostro assetto istituzionale è uno dei più complessi e confusi. La spina dorsale dell’economia italiana è costituita da 2000 aziende altamente produttive e questa è una base troppo piccola per rilanciare il dinamismo economico di un paese con 60 milioni di abitanti. L’Italia è bloccata in una palude di problemi strutturali per affrontare i quali sono necessarie riforme profonde. In alcuni casi essi richiedono più mercato e concorrenza per smantellare un capitalismo relazionale che blocca la crescita del paese, mentre in altri occorre più stato, ad esempio per accelerare la transizione digitale e ambientale. Più stato però richiede in parallelo l’adozione di criteri di merito e produttività vincolanti, se si vuole evitare che più stato si traduca in più clientelismo ed inefficienza.

Se la crescita -o meglio la creazione delle condizioni per riprendere a crescere- non viene posta tra le priorità che il Partito democratico deve perseguire, allora non si va lontano. Da soli, aumenti salariali, politiche redistributive e investimenti nella green economy non bastano a ridare dinamismo all’economia, accrescerne il potenziale e a sbloccare il ristagno della produttività.  L’Italia, con il suo enorme debito pubblico, ha ben poche risorse da dedicare a una politica industriale ambiziosa. Senza poi menzionare il fatto che una tale politica richiede uno stato e una burocrazia efficienti, il che non è certo il caso del nostro paese (abbiamo già dimenticato i famosi carrozzoni pubblici e le degenerazioni clientelari che hanno creato? Nonché, in tempi più recenti, la triste vicenda di Alitalia?).  Politiche industriali molto ambiziose e poco focalizzate hanno spesso prodotto risultati deludenti e nella maggior parte dei casi sono state abbandonate, sovente con costi finanziari elevati. Per contro, l’Italia può guadagnare significativamente da politiche della concorrenza ben congegnate, capaci di ridurre posizioni monopolistiche e smantellare reti clientelari che indeboliscono il tessuto economico del paese. 

Non siamo contro politiche industriali limitate e focalizzate, volte a conseguire obiettivi ben definiti, a patto che siano accompagnate da forti politiche della concorrenza. Puntare tutto o quasi su politiche industriali ambiziose e generalizzate tralasciando le politiche della concorrenza sarebbe un grave errore. Un errore che, oltre a produrre risultati subottimali, potrebbe tradursi a livello europeo in un boomerang per l’Italia. Se per esempio, l’UE decidesse di reagire alle politiche industriali statunitensi volte a favorire la produzione di veicoli elettrici sul suolo americano con un indiscriminato allentamento delle regole sugli aiuti di stato, avremmo inevitabilmente un’accentuazione delle divergenze tra i singoli paesi dell’Unione, con i paesi con margini fiscali esigui collocati nella posizione più svantaggiata.

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Esiste anche una versione “opportunistica” dell’approccio propugnato dalla sinistra del partito, una versione spesso giustificata da una forte nostalgia di un passato che non può ritornare. L’adozione di una piattaforma programmatica radicale servirebbe a rafforzare l’identità del PD, che tornerebbe ad essere una scelta politica attraente per i ceti sociali più sfavoriti e si tradurrebbe in un’avanzata elettorale. Una volta tornato al governo, però, il PD adotterebbe un approccio più pragmatico e realista. Questa è stata per esempio la strategia di Fratelli d’Italia: dopo essersi opposti con forza e sulla base di argomenti di parte (nel caso, etno-nazionalisti e antieuropeisti) al governo Draghi, una volta vinte le elezioni essi hanno notevolmente annacquato la propria agenda e hanno mantenuto solo una piccola parte delle promesse fatte, consapevoli che se avessero fatto altrimenti sarebbero durati ben poco al governo.

La versione opportunistica ha una sua logica, soprattutto per un partito indebolito, che fa fatica a definire la propria identità. Tuttavia, vi sono tre ragioni che sconsigliano l’adozione della strategia che essa implica. La prima si applica a qualsiasi schieramento politico: se il programma è un programma di parte, senza una visione generale del paese, quest’assenza progettuale si paga al momento dell’accessione al governo. L’esempio più evidente è proprio quello di Fratelli d’Italia: non avendo riflettuto seriamente su come ridare dinamismo e coesione ad un paese che non cresce, FdI ha dovuto far proprio il programma del governo Draghi, utilizzando i pochi margini di manovra disponibili per soddisfare alcuni degli interessi corporativi del proprio blocco sociale. Se questo da un lato ha evitato il peggio, dall’altra parte non ha certo creato le condizioni per porre il paese sui binari che possono farlo uscire dal lungo ristagno in cui si trova. Così facendo, si perde tempo e si sprecano i pochi margini d’azione disponibili, mentre il tempo stringe.

La seconda ragione riguarda invece il centro-sinistra in generale. Nel centro-destra e a destra sono possibili situazioni in cui programmi radicali ottengano l’appoggio di una parte dell’elettorato, sostanzialmente perché non vengono considerati come un rischio grave per l’economia e per i diritti di proprietà. Lo stesso non vale nel centro-sinistra e a sinistra, dove programmi radicali di tassazione e redistribuzione, accoppiati con politiche dirigiste, vengono percepiti come destabilizzanti e pericolosi, in particolare se la fiducia nello stato è limitata e l’efficienza della pubblica amministrazione è bassa. I due principali esperimenti effettuati con programmi fortemente radicali (Corbyn in Gran Bretagna e Mélanchon in Francia) hanno solo prodotto sconfitte elettorali. Laddove i partiti socialdemocratici e di centro-sinistra riescono a vincere, lo fanno sulla base di programmi che coniugano o cercano di coniugare crescita economica, riduzione delle diseguaglianze e protezione dell’ambiente. È stato il caso della Germania, della Spagna, del Portogallo della Danimarca e forse, in un futuro non lontano, lo sarà anche per la Gran Bretagna.

La terza ragione riguarda il PD e, più in generale, il centrosinistra del nostro paese: riguarda il loro recente passato e come sono percepiti dagli elettori. Non c’è dubbio che nei suoi quindici anni di esistenza il PD sia stato percepito da molti come un partito pompiere, che ha indirizzato il suo contributo politico e la sua forza elettorale a sostegno di politiche volte ad evitare il peggio per il paese, ciò che è avvenuto sia ai tempi della crisi del debito sovrano che ai tempi della pandemia. D’altra parte, negli anni in cui è stato al governo, per il fatto di non possedere maggioranze solide ma anche per un difetto di elaborazione teorica, il PD si è dimostrato molto meno efficace nel perseguire una propria agenda su temi cruciali quali la transizione ecologica, la riduzione delle diseguaglianze e la modernizzazione dello stato, ed è su questi che dovrebbe concentrare il suo programma (si veda N .Dilmore, PD, un problema di credibilità, Rivista Il Mulino on line, 2/12/ 2022). Il PD, nel bene e nel male, per il suo riformismo, per vocazione maggioritaria e per il leale sostegno che ha dato ai governi tecnici, è visto (ed è importante che continui ad essere visto) come un partito di governo e non può e non deve alterare questo suo carattere identitario quando si trova all’opposizione: rovesciarlo come un calzino non farebbe che aumentare la confusione tra i suoi sostenitori.

Il PD ha perso voti -reali e potenziali- a destra e a sinistra (e nell’astensione) per due ragioni speculari. Ha perso voti a sinistra e nell’astensione perché non è riuscito a far comprendere che redistribuzione e transizione ecologica non vanno molto lontano se non si riesce in parallelo a sbloccare l’Italia e farla tornare a crescere. Ma il PD ha perso anche voti alla sua destra e nell’astensione perché ha dato l’impressione di non voler perseguire veramente la strada delle riforme necessarie per porre termine al ristagno del paese. Il PD deve convincere questi elettori che la loro impressione è sbagliata: nella situazione attuale le politiche in favore della crescita, per essere veramente efficaci, devono andare di pari passo con misure volte a ridurre le diseguaglianze attraverso attraverso un’imposizione fiscale più progressiva (un ovvio candidato è l’aumento delle imposte di successione, un punto lasciato in ombra dalle forze di centrosinistra alla destra del PD). E ancora: una delle questioni cruciali per ridare dinamismo all’Italia è smantellare il clientelismo e favorire il merito. Tuttavia, nella situazione attuale, la semplice promozione del merito, inteso solo come capacità e talenti, rischia di favorire i ceti sociali più istruiti e benestanti e spingere le classi disagiate ancor più verso il populismo e il clientelismo. La platea dei meritevoli dev’essere molto estesa affinché possano manifestarsi effetti favorevoli sulla crescita. Solo riducendo le diseguaglianze e creando reali opportunità per i giovani che vivono in famiglie con bassi livelli di reddito e istruzione si può ottenere la forte scossa necessaria per creare mobilità sociale e crescita economica, modificando così l’iniqua e inefficiente struttura socio-economica del paese.

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Concludendo. Se il PD vuole restare il partito egemonico del centro-sinistra esso deve essere capace di coniugare in modo coerente nel suo programma crescita economica, transizione ambientale e riduzione delle diseguaglianze e di dotarsi di una narrativa in grado di legare in modo convincente questi tre elementi. (Anche se non rivolto all’Italia, ma a tutti i paesi capitalistici avanzati retti da democrazie liberali, queste sono le conclusioni del nostro libro sul Liberalismo inclusivo, Feltrinelli, 2019). Per essere credibile, deve inoltre impegnarsi a farli progredire in parallelo, presentando misure simbolo da adottarsi appena arrivati al governo per dare concretezza al programma stesso. Scorciatoie identitarie di altro tipo possono forse pagare nel breve periodo, ma difficilmente possono tradursi nella creazione di un blocco elettorale vincente. Per fronteggiare un governo di destra-centro incapace di rimettere il paese sui binari di una crescita stabile, sostenibile e inclusiva, la via da seguire è mostrare che un tale modello di crescita è possibile anche in Italia e che c’è una forza politica determinata a perseguirlo con proposte concrete. Ma questa forza deve anche essere finalmente capace di risolvere i suoi dannosi conflitti interni e presentarsi con un/una leader e un programma di riforme adeguato alla gravità della situazione economica e sociale del nostro paese.

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