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Della povertà educativa degli educatori

Giovanni Cominelli domenica 8 Gennaio 2023
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di Giovanni Cominelli

L’elaborazione da parte della Fondazione indipendente “Open Polis” dei dati Eurostat relativi agli investimenti in istruzione nell’Unione europea e in Italia conferma il perdurante divario negativo tra il nostro Paese e gli altri. Come segnalato da Unimpresa, l’Italia spende per l’istruzione 8.514 euro per studente, la media delle grandi economie europee spende circa 10.000 euro. Queste statistiche poco brillanti si rincorrono, in realtà, da anni. Così come quelle relative ai Neet in aumento, alla dispersione, all’invecchiamento degli insegnanti, alla caduta della natalità e, pertanto, alla diminuzione dei ragazzi e dei giovani.  I 33,81 miliardi di Euro del PNRR potranno contribuire a migliorare la condizione dell’Educazione e dell’Istruzione in Italia. Ma non più di tanto.
Ciò che nessuna Legge di Bilancio e nessun PNRR possono garantire è la volontà/capacità degli adulti, delle famiglie, della società civile, della nazione di educare. Educare è un’azione generativa complessa: si tratta di offrire ai ragazzi, fino ai 18 anni, il sapere essenziale di civiltà e di forgiare il loro carattere. Al seme originario della libertà, di cui ciascuno è portatore, deve essere offerto il terreno fertile, perché cresca, fiorisca, dia frutti.
La crescita non è un processo lineare, non è una tranquilla evoluzione “naturale”: gli ostacoli, i traumi, le contraddizioni, la fatica e il dolore sono anch’essi costitutivi del processo. E sono condivisi dall’educando e dagli educatori.
Ora, c’è ancora qualcuno che ritiene che questo compito personalissimo sia anche il compito civile e nazionale, fondativo di una comunità nazionale?
Pare che i genitori ritengano che la loro missione più importante sia quella di proteggere i propri figli. Proteggerli dal tempo presente e dalla storia degli uomini. Descrivono o fanno intravedere ai loro figli un mondo dove realizzeranno immancabilmente i loro sogni, i desideri e ogni loro voglia, perché hanno un diritto naturale al loro compimento. Simile “protezione” li lascia disarmati di fronte ai NO che le relazioni umane inevitabilmente sottoproducono, li tiene lontani dalla realtà effettuale. I ragazzi vengono “abituati” all’onnipotenza del desiderio, fatta di argilla, perché destinata a sbriciolarsi al primo impatto con la durezza della realtà. Di qui la reazione della frustrazione e della depressione e di quella, simmetricamente opposta, del bullismo. Se la realtà si oppone o scappo o la prendo a schiaffi. E se si tratta di gesti violenti e di sopraffazione verso gli altri, c’è sempre qualche genitore che parla di “ragazzate” o qualche dirigente scolastico che parla di “inclusione”. Vengono “educati” all’irresponsabilità dei loro atti. In termini più generali, tutto ciò si chiama nichilismo, relativismo, individualismo. I trascendentali – ens, verum et bonum – sono stati bruciati sull’altare dell’Io-selfie in fuga dalla realtà, che insegue i modelli di autorealizzazione, che fluiscono quotidianamente dai media.

Ma che succede alla scuola e alla società, quando la massa di questi ragazzi male-educati si presenta sulla soglia della scuola dell’infanzia, della media, della superiore, per un totale di circa 8 milioni e mezzo di ragazzi?
Quanto alla scuola – gli insegnanti e i dirigenti e il personale amministrativo – è sottoposta ad uno stress crescente. Si trova in una posizione scomoda. Alla scuola è richiesto di cambiare missione e funzione. Se le scuole erano diventate, nell’età moderna, i monasteri e i santuari del sapere e della formazione dell’uomo, se erano considerate le punte di eccellenza di ogni società civile, se erano un ambìto traguardo di ascesa sociale per le classi subalterne, a loro oggi si chiede di diventare “centri di benessere”, luoghi dell’”entertainment”, isolati artificialmente dalla vita quotidiana e dal mondo reale, serre a temperatura costante di “un mondo a parte”.
A questa pressione sociale le scuole stanno resistendo, a fatica, dovendo muovere controcorrente, non senza arretramenti e sconfitte.  Così nei giudizi delle scuole, sono ormai vietate parole come “errore”, “difficoltà”, “lacuna”. L’errore diventa “margine di miglioramento”, la difficoltà viene resa come “tempi più distesi di apprendimento”, la lacuna diventa “spazio di crescita” … “L’obbiettivo raggiunto” non basta: deve essere “pienamente raggiunto”.
Le domande delle famiglie si sono trasformate in pretese, in “diritti”, meglio detti “entitlements”. Le conseguenze sono di due ordini. In primo luogo, il passaggio dalle “discipline”, sempre troppo impegnative, ai “progetti”, con una tendenza crescente allo scioglimento della base epistemologica delle discipline, in primis dell’insegnamento della Lingua italiana. Donde una caduta della decisiva funzione di trasmissione del “sapere di civiltà”. In secondo luogo, la delegittimazione del fondamentale ruolo educativo dell’autorità, costretta a stare sotto la tutela invasiva e crescente di famiglie, incapaci di educazione.
Quanto alla società, che succede se la società civile cessa di essere educante? Che è sempre più difficile tenerla insieme: i legamenti si allentano o si spezzano. È più difficile fare etica pubblica, informazione, cultura e politica di qualità. Succede che la società civile è sempre meno “civile”. La deriva individualista-populista è la prima conseguenza: rabbia e ignoranza del mondo.

Possono i governi invertire questa deriva?
Educare non è compito dei governi. L’educazione dell’intelletto alla realtà totale, cioè allo “sviluppo di tutte le strutture di un individuo fino alla loro realizzazione integrale” e “a tutte le possibilità di connessione attiva di quelle strutture con tutta la realtà” – la formazione del carattere – è compito degli adulti liberi e responsabili, singoli o associati in famiglie e in gruppi, che incessantemente la società civile pluralista genera dal proprio interno. È però compito sussidiario decisivo dei governi creare le condizioni istituzionali e legislative affinché l’educazione possa accadere.
A partire dalla Conferenza nazionale sulla scuola del 1990 in avanti, la scuola era stata pensata non più come un segmento burocratico dell’Amministrazione statale, ma come un istituto generato dalla società civile. Si chiamò “autonomia scolastica”. Implicava che la scuola pubblica, statale o “paritaria”, potesse elaborare un proprio progetto educativo, nell’alveo di un “curricolo nazionale” e sotto il severo controllo di un sistema di valutazione esterno ad ogni singola scuola, per realizzare il quale potesse autogestirsi – eventualmente mediante un Consiglio di Amministrazione – assumere e licenziare i dirigenti e il personale docente e amministrativo, per realizzare quello che oggi si chiama PTOF. Si trattava di superare il modello istituzionale previsto dai Decreti Delegati del 1974, caratterizzato dalla partecipazione invasiva e incompetente delle componenti scolastiche alla vita della scuola e dal parlamentarismo assembleare paralizzante dei Collegi dei docenti.
Quel progetto è sostanzialmente fallito. L’autonomia è stata, fin dall’inizio, avvolta nelle spire di un burocratismo soffocante, che sta affaticando sempre più le scuole ed ogni singolo docente con adempimenti, il cui unico scopo è difendersi, codici civili e penali alla mano, dalle “pretese”. Riprendere in mano quel progetto è il passaggio fondamentale che attende il Governo attuale. Senza tale passaggio, i soldi del PNRR saranno mal spesi.
Senza mai dimenticare che un Paese che non educa è simile ad un morto che cammina.

 

Editoriale da santalessandro.org
Sabato 7 gennaio 2023

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