LibertàEguale

I problemi dell’Italia e i compiti della sinistra liberale

di Enrico Morando

 

(Relazione introduttiva all’Assemblea nazionale di Libertà Eguale – Orvieto 28 settembre 2019)

 

1- Vorrei resistere al rischio che la vicenda politica di queste ultime settimane travolga l’esigenza di impegnare Libertà Eguale in una riflessione di fondo sia sulla reale natura dei problemi dell’Italia – in larga misura determinati da fattori nazionali -, sia sulle innovazioni di progetto e di soggetti politici che la sinistra liberale deve realizzare per farvi efficacemente fronte. Parlerò dunque del nuovo Governo PD-M5S e della frattura determinatasi tra i riformisti del PD. Ma cercherò di ispirare i miei giudizi – ed anche le conseguenti indicazioni di lavoro per Libertà Eguale-ad una posizione politico-culturale che risulti sostenibile anche a prescindere da queste due, pur rilevanti novità.

 

2-Poiché la sinistra riformista di governo conosce, in tutti i Paesi occidentali avanzati- dall’Europa agli Stati Uniti- una profonda crisi, e subisce sconfitte pesanti ad opera di quel coacervo di forze che chiamiamo nazionalpopulismo, è innegabile che ci siano fattori comuni di questa crisi.

Resto convinto che essi siano riassumibili come quelli che danno luogo alla “crisi di funzione” di quel vasto campo di forze- latu sensu “socialdemocratiche”- che nella seconda parte del secolo scorso hanno fornito un contesto, una organizzazione a quella che Schumpeter chiamava distruzione creatrice del capitalismo. Riuscendo per lungo tempo a consentire che le sofferenze sociali indotte dalla distruzione venissero robustamente mitigate – nella feconda utopia della visione socialdemocratica , addirittura eliminate -, dalla costruzione dello Stato Sociale. Un’istituzione – nata dall’incontro tra la migliore elaborazione dei progressisti liberali e la crescente forza organizzata del movimento operaio -, capace al tempo stesso di ridurre la disuguaglianza e alimentare la crescita economica.

Quando la rivoluzione tecnologica – non solo quella della capacità di calcolo, ma anche quella meno affascinante, ma altrettanto potente, del container – crea le condizioni per la globalizzazione, la funzione stabilizzatrice della socialdemocrazia viene progressivamente meno. “Poiché il capitalismo nazionale fu attaccato e riformato dalla socialdemocrazia nazionale- ha scritto Michael Walzer-, ora abbiamo bisogno di una socialdemocrazia globale per affrontare il capitalismo globale. Non abbiamo ancora trovato lo spazio politico per l’organizzazione globale necessaria, ma conosciamo gli obiettivi: emancipazione dei lavoratori, ordinamento democratico, tassazione redistributiva, e garanzie a tutela del welfare”.

In questo vuoto di nuove soluzioni “socialdemocratiche”, si è venuta sviluppando l’iniziativa di quanti- a destra e a sinistra-, lavorano per una svolta reazionaria- alla lettera, un vero e proprio salto all’indietro-, facendo leva sulle contraddizioni sociali e le sofferenze indotte dal mancato governo della distruzione creatrice, che ora ha per teatro il mondo. La loro,è prima di tutto un’offensiva di tipo culturale, che prende le mosse dalla definizione del fenomeno globalizzazione – descritta come l’esito di decisioni consapevoli da parte di qualcuno (in Italia, ricordiamo le tesi di Tremonti sulla decisione di far entrare la Cina del WTO nel 2001) -; passa per il silenzio sugli impressionanti risultati conseguiti in termini di crescita del Pil pro capite e di drastica riduzione della povertà estrema e della disuguaglianza; ed approda alla proposta di soluzione: chiusura per difendere “noi” dagli “altri”.

Se la sinistra riformista non si mette in grado di riappropriarsi della sua funzione riequilibratrice, costruendo le condizioni e le forme per il governo delle principali contraddizioni globali – un insieme coerente di regole e istituzioni che non si proponga di arrestare la distruzione creatrice, uccidendo così la fonte del dinamismo economico e sociale, ma le fornisca un ordine, un contesto in grado di ridurre drasticamente le sofferenze sociali -, saranno gli esclusi, i diseredati del mondo a pagare un prezzo enorme.

Sapete tutti, infatti, come sono andate davvero le cose: tra il 1990 e il 2016 il Pil pro capite mondiale è cresciuto da 9000 a quasi 16.000 $ (calcolati a valori costanti del 2011). Le persone in situazione di povertà estrema sono passate dal 35,9% al 9,9% del totale. La disuguaglianza a livello globale si è drasticamente ridotta: l’indice di Gini, in soli 10 anni, tra il 2003 e il 2013, è passato da 69 a 63. “I liberali – hanno scritto Nicola Rossi e Alberto Mingardi – sono rimasti gli unici a preoccuparsi di chi non ha, dovunque egli si trovi”. La consapevolezza dei costi pagati in Occidente a questa tumultuosa crescita economica e a questa rapida riduzione della disuguaglianza non può indurci a salutare come benvenuti i dati che da qualche anno ci parlano di una globalizzazione in ritirata. Nessuno ne parla perché i maniaci dei complotti dei poteri forti e i sostenitori della scelta protezionista la fanno da padroni, anche e soprattutto sul piano culturale, ma le cifre degli scambi commerciali globali e quelle della integrazione di beni e servizi – compresi quelli finanziari -, sono in caduta. I primi dal 2011. La seconda dal 2007. E le guerre commerciali che si sono scatenate nel recente passato e promettono di intensificarsi, porteranno ad un ulteriore restringimento. Nel suo rapporto annuale la Banca dei Regolamenti Internazionali conclude la sua analisi così: “Il rumore e il furore della guerra commerciale ha dato una svolta negativa che spinge al ribasso l’economia”. Un’economia, quella globale, che- malgrado la dura lezione della crisi del 2008- sembra incapace di abbandonare il suo modello di crescita basato sul debito. Quest’ultimo, infatti, è oggi molto più alto rispetto al periodo precedente la Grande Recessione . Che, secondo l’analisi di Raghuram Rajan, proprio da quella bolla del debito fu provocata.

Tutto ciò ci dice che se vuole perseguire con efficacia i suoi obiettivi di massima diffusione della eguale libertà, la sinistra riformista deve farsi protagonista di una incessante offensiva – prima culturale, e poi politica e sociale – a favore dell’apertura, del libero scambio e di una ripresa del processo di integrazione di beni e servizi, facendo prevalere le ragioni dell’approccio multilaterale sulla tendenza, oggi soverchiante, a delegittimare le istituzioni del multilateralismo a favore di un pericoloso approccio di tipo bilaterale. In questo contesto, la sinistra liberale deve mettere al centro del suo programma di cambiamento l’accelerazione del processo di integrazione europea.

Per la prima volta dalla fine della seconda guerra mondiale, il progetto europeista è a rischio disintegrazione: negli Stati Uniti, l’Amministrazione Trump saluta festante la vittoria della Brexit nel Regno Unito e lavora perché presto altri lo imitino (“qual è il prossimo?”). La Cina persegue un suo disegno di egemonia globale, fondato a sua volta su di un sistema di relazioni bilaterali, per il quale l’Unione Europea è il principale ostacolo. All’interno dell’Unione, le forze disgregatrici raccolgono vasti consensi e possono contare su di una vittoria popolare “simbolo” come quella registrata nel Regno Unito: “uscire dall’Unione si deve. La Brexit dimostra che si può”.

Fino a poche settimane fa, il Governo del nostro Paese era considerato il principale protagonista interno di questo progetto di distruzione dell’Unione Europea. Un progetto perseguito con tenacia e coerente determinazione da entrambi i partiti della coalizione gialloverde: chi, malgrado l’evidenza suggerisse il contrario, ha continuato a parlare di slogan al vento e innocua propaganda, ha commesso un errore di sottovalutazione del rischio per colpevole ignoranza. Bastava infatti prestare anche una superficiale attenzione ai disegni di legge presentati dai due gruppi parlamentari per convincersi della serietà della minaccia.

Ad esempio, la fuoriuscita dell’Italia dall’Euro e, quindi, dall’Unione, era l’unico obiettivo razionale perseguito attraverso tre scelte in avanzato stato di realizzazione in Parlamento:

1-il disegno di legge Bagnai-Bottici, approvato dalla Camera, sulla proprietà delle riserve auree di Banca d’Italia;

2-la mozione sui mini BOT, a prima firma Molinari e D’uva, approvata dalla Camera (all’unanimità) nel maggio scorso;

3-il disegno di legge sulla governance della Banca d’Italia. Presi a sè, tre atti inutili e irrilevanti.

Considerati come atti preparatori dell’uscita dall’Euro, tutti e tre assolutamente indispensabili: dopo l’uscita dalla moneta unica, a mercati inaccessibili, la Banca d’Italia doveva tornare prontamente alle dipendenze del Tesoro, per finanziare la spesa pubblica. Ora, credo di poter affermare che di tutta questa attenta costruzione, oggi, rimanga depositario Salvini, isolato all’opposizione.

La formazione del Conte bis ricolloca il Governo italiano dove è sempre stato- tra i governi favorevoli al processo di integrazione. E crea finalmente le condizioni perché il Presidente Macron – sulla piattaforma europeista illustrata col discorso della Sorbona – possa contare sul Governo italiano. Per come la penso io, basterebbe questo drastico mutamento per considerare positiva la svolta intervenuta. Tanto più che, in assenza della iniziativa che ha portato alla formazione del Governo giallorosso, l’Italia appariva dominata da una forza politica – la Lega di Salvini – ostile all’Unione anche perché orientata a realizzare un più generale rovesciamento della collocazione internazionale del Paese. Non ha senso parlare del rischio fascismo, secondo un antico riflesso condizionato di cui fatichiamo a liberarci. Per valutare l’entità del pericolo incombente basta e avanza quanto era leggibile nelle scelte e negli orientamenti di Salvini e della Lega, fino ad allora condivisi dal M5S.

La scelta di quest’ultimo di votare il Presidente della Commissione proposto dallo schieramento europeista ha fatto da spartiacque e, unitamente alla decisione di Conte di valorizzare il ruolo del Parlamento nella gestione della crisi aperta da Salvini, ha creato le condizioni della svolta. Lo stato di necessità c’era. L’iniziativa per farvi corrispondere una soluzione di emergenza, che riportasse l’Italia nella posizione che è tradizionalmente sua in Europa e nel mondo, doveva essere assunta. Lo è stata ed ha avuto- in Europa- effetti pressoché immediati e positivi. È un buon punto di ri-partenza. L’esito della vicenda governativa può favorire la ripresa dell’iniziativa degli europeisti italiani, malgrado lo sfavorevole esito delle recenti elezioni europee.

Abbiamo più spazi e più possibilità di successo, ma per poterne davvero approfittare dobbiamo cambiare profondamente il nostro approccio. Dobbiamo decidere ora quale parte vogliamo giocare nell’Unione che non ci considera più un pericolo: quella di chi scarica sull’austerità europea – vera che fosse o presunta che sia – la responsabilità della nostra incapacità di cambiare l’Italia e l’Unione, pronto ad accontentarsi di un po’ di flessibilità in più? O quella di chi considera la ripresa e l’accelerazione del processo di integrazione come la condizione necessaria per costruire nuove forme di governo globale, per affrontare le grandi contraddizioni aperte, da quella del riscaldamento globale a quella degli squilibri macroeconomici; da quella del governo delle migrazioni a quella della minaccia del terrorismo fondamentalista islamico?

A me sembra che, per ora, l’atteggiamento prevalente sia il primo. Non mi riferisco solo e tanto alla prima parte del documento programmatico PD-M5S, in cui prevale la consueta idea dell’Europa come fonte di vincolo. Questa volta usata per accettarlo, mentre col Governo precedente la si usava per respingerlo. Mi riferisco a ciò che sembra emergere- in proposito- anche dai tentativi più seri di fornire un orizzonte “strategico” alla scelta di necessità compiuta. Scrive Bettini sul Foglio: “Negli anni passati siamo stati percepiti sia come difensori strenui dei diritti individuali ( e questo è sacrosanto), sia come esecutori delle compatibilità e delle regole di bilancio europee. Questo intreccio tra allargamento degli spazi di libertà personale e restringimento di quelli di una vita dignitosa, non ha prodotto coesione e nuove “forme” civilizzatrici”. Siamo alle solite: noi abbiamo messo il bene. L’Europa ha messo il male, e noi abbiamo la colpa di non averglielo impedito. Così messe le cose, è difficile capire perché il furore popolare contro il male dovrebbe privilegiare quanti si dichiarano europeisti e non quanti orgogliosamente si dichiarano ostili all’Unione. Capisco l’obiezione: il Movimento 5 Stelle fino a pochi giorni fa era schierato sul fronte opposto. Non possiamo pretendere più di tanto… Ciò che non capisco è perché noi europeisti coerenti non si tenti di far emergere le ben più grandi potenzialità del nostro approccio, secondo il quale l’Europa è prima di tutto fonte di nuove opportunità di soluzione dei problemi aperti; e solo in secondo luogo – proprio per rendere concrete queste opportunità – pretende il rispetto di regole comuni, che si osservano finché insieme non si cambiano.

Un esempio chiarirà meglio il punto: gli spazi di bilancio nazionale per politiche fiscali espansive sono oggettivamente ristretti dal nostro enorme debito pubblico (l’unica “espansione” oggi nelle nostre mani è quella di tenere basso lo spread). Ciò costituisce un limite per i nostri obiettivi di crescita e di riduzione della povertà e della disuguaglianza (ci tornerò: non sono la stessa cosa). Lo si supera, questo limite, ottenendo più flessibilità nella gestione delle comuni regole di bilancio? È una strada che abbiamo praticato con successo coi governi di centrosinistra. Ma apre spazi modesti ed è subordinata a condizioni giuste (riforme strutturali, forte aumento della effettiva spesa per investimenti), ma non facilmente determinabili, stando al programma di governo presentato.

Non c’è dunque alternativa? Subiamo le regole – come se in loro assenza noi potessimo e volessimo spendere e spandere a volontà -e invochiamo flessibilità? Al contrario: sosteniamo-d’accordo con Macron e Merkel del documento di Meseberg del giugno 2018, fatto fallire dal Governo Conte 1º- l’esigenza di accendere, a sostegno della crescita di tutti, il motore federale, attraverso il Bilancio dell’area dell’Euro. L’invito alla rassegnazione di chi crede di saperla lunga – “non si farà mai” – va risolutamente respinto, perché il progressivo esaurirsi del peso della politica monetaria ultraespansiva (l’inflazione non sale, malgrado l’inondazione di liquidità), reclama l’intervento di coerenti politiche fiscali. E i singoli Stati un po’ non vogliono, e un po’ non possono rispondere efficacemente a questa esigenza.

Ecco un compito per la sinistra liberale europeista, consapevole delle sue ragioni e poco incline al falso realismo: il nuovo Governo farà quello che potrà- e tutti ci auguriamo che possa molto-, ma noi dobbiamo renderci protagonisti di una campagna insistita, martellante e ben organizzata a favore del Bilancio dell’Area dell’Euro. Se non la faremo, perché incapaci o perché scettici sulla sua efficacia, non avremo diritto di lamentarci della miseria del dibattito che si sta aprendo sul seguente dilemma: vogliamo che il Bilancio dell’Unione Europea sia pari all’1% del Pil della stessa, o all’1,11%?

 

3- Se si guarda all’orientamento culturale e al livello di consenso delle diverse forze politiche italiane si deve concludere che l’Italia è il Paese d’Europa nel quale la globalizzazione – definita come il fenomeno causato dalla intensificazione degli scambi e degli investimenti internazionali su scala mondiale (Wikipedia) – ha avuto le sue più intense applicazioni e le più devastanti conseguenze sociali. In verità, la tesi che vede nella globalizzazione- l’intreccio tra cambio tecnologico e intensificazione degli scambi – la fonte dei nostri guai è sostenibile solo nel senso che, mentre il mondo cambiava tumultuosamente, noi ci siamo ostinatamente rifiutati di farlo. E i tentativi più coerenti di riforma-quando ci sono stati -, sono stati prima robustamente osteggiati e poi definitivamente respinti.

Come ha scritto Carlo Stagnaro sul Foglio di lunedì scorso, questa tragica verità è dimostrata da due dati, l’uno estraneo all’altro: il primo è relativo alle esportazioni. I settori manifatturieri più esposti alla competizione internazionale, cioè alla globalizzazione, sono quelli che ci tengono a galla. Il secondo, è relativo alla disuguaglianza. Da moltissimi anni l’indice di Gini, che ne misura l’intensità, è fermo a quota 32-33. Si potrebbe pensare che ciò è dovuto ad una migliore capacità del nostro sistema di welfare di compensare gli effetti di disuguaglianza prodotti dal mercato, cioè dalla globalizzazione; ma da tempo sappiamo che è vero l’opposto: abbiamo una bassa disuguaglianza “di mercato”, per la quale ci collochiamo nella parte inferiore della classifica tra i paesi dell’Unione. Ma la nostra posizione peggiora significativamente quando si passa a misurare la disuguaglianza post-intervento dello Stato. La nostra politica economica e sociale sembra più orientata ad ostacolare la distruzione e a tenere lontana la globalizzazione che ad ottenere gli effetti positivi della creazione e a redistribuirne i vantaggi. Abbiamo tutti studiato ed utilizzato il lavoro di ricerca di Milanovic, e il suo Elefante. Ma proprio Milanovic, applicando il suo metodo all’Italia, ha messo in evidenza che tra il 2008 e il 2014 (la Grande Recessione) la caduta del reddito è stata molto forte (un quinto) per i poveri e per i ricchi, mentre i decili centrali- il ceto medio- hanno perso “solo” il 10%. Una dinamica del tutto opposta a quella dei Paesi, come gli Stati Uniti, più esposti alla globalizzazione.

Se ne può dedurre che – accanto alle ragioni di difficoltà e ai problemi che condividiamo con i Paesi più avanzati dell’Occidente -, abbiamo da fare i conti con cause nazionali, con problemi endogeni. Ne consegue una maggiore complessità anche dei compiti cui la sinistra liberale è confrontata. Ci devono essere ragioni specifiche per le quali- per citare due sintomi gravissimi del declino italiano- noi siamo l’unico Paese il cui Pil pro-capite è ancora molto lontano da quello del 2008 e il Paese d’Europa con l’indice di natalità più basso. E la politica della sinistra liberale non potrà risultare efficace se a queste specificità non applicherà tentativi di soluzione altrettanto specifici. Lo stesso nostro “racconto” sulle difficoltà del Paese e sulla nostra azione di governo non ha tenuto nel giusto conto questa specificità, segnalando sia difetti di comprensione della realtà economica, sociale e culturale del Paese; sia limiti della strategia riformista.

Prendiamo il tema del debito pubblico italiano. Difficile sopravvalutarne il peso nella storia recente del Paese. Giorgio Tonini, riprendendo i risultati del lavoro di ricerca di Marco Fortis, ha descritto l’esperienza apparentemente paradossale vissuta dagli italiani negli ultimi 23 anni. Tra il 1995 e il 2018 il debito sale da 1150 miliardi a 2300. Dal 120% del Pil al 133%. Nello stesso periodo, gli italiani hanno pagato, in (poco) comode rate annuali, 1850 miliardi di interessi. Facciamo una somma: 1150 del 1995 + 1850 di interessi fa 3000. Perché nel 2018 il debito non è pari a 3000 miliardi, ma “solo” a 2300? Semplice: gli italiani hanno anche “pagato” circa 700 miliardi di avanzo primario. Nessun paese dell’Unione monetaria ha fatto tanto. Neppure la supervirtuosa Germania, in rapporto al suo Pil. Uno sforzo fiscale mostruoso, a stento sopportabile in un contesto di crescita ancora significativa. Quando, con la Grande Recessione, il reddito pro-capite crolla, il debito in rapporto al Pil torna ad impennarsi e la pressione fiscale sale ulteriormente, la sostenibilità politica della virtù italiana ( interrottasi solo col Governo di FI e Lega dei primi anni 2000),si azzera, e lascia il posto alla rivolta. Fomentata dall’efficace messaggio di Lega e M5S: avete ragione. Si può smettere di pagare e avere più crescita. Basta cacciare i colpevoli: il PD e l’Unione europea. Perché ha tanto successo questa falsa soluzione? Perché agisce su di un dato reale, che isola il presente dal passato: se si prescinde dall’eredità di quest’ultimo, la finanza italiana è la più virtuosa d’ Europa. La ricetta della Lega e del M5S- più spesa corrente finanziata con più deficit uguale più crescita, più stato sociale e meno debito, non poteva funzionare e non ha funzionato, perché si tratta di un caso di scuola di “espansione restrittiva” (Blanchard): più deficit uguale più alti tassi di interesse uguale più debito e meno crescita.

Quando però il centrosinistra, nel 2014, torna al Governo del Paese e lo accompagna a ritrovare la crescita e a stabilizzare il debito – camminando sul famoso sentiero stretto di Padoan -, fa suo un racconto della crisi che sottovaluta il baratro prodotto dalla Grande Recessione e valorizza l’inversione di tendenza in atto. Non ha funzionato, perché i più sentivano parlare di una ripresa che chi governava vedeva riferita al momento di inizio della sua esperienza di governo e chi ascoltava semplicemente non vedeva, perché il suo termine di paragone era la sua condizione di reddito e di sicurezza del 2008, da cui restava lontanissimo. Errore di comunicazione? No. Errore politico: se era comprensibile l’ansia di diffondere fiducia sulla possibilità di farcela, era inescusabile l’incapacità di collocare quello sforzo in un più radicale disegno di cambiamento, volto a rimuovere le cause profonde della incapacità del Paese di crescere. Perché questo è il nostro principale problema: da molti decenni non cresciamo adeguatamente. È un problema che non si è risolto neppure quando la vituperata austerità europea è stata progressivamente rimossa dal campo, seguendo la via obliqua della flessibilità e non quella maestra di una politica fiscale dell’Area Euro, coerente con la politica monetaria della BCE di Draghi.

Non riconoscere la centralità di questo problema conduce, ad esempio, a confondere il problema della disuguaglianza e il problema della povertà, con conseguenze nefaste sulla coerenza e l’efficacia delle relative politiche. Prendiamo il recente documento della Direzione del PD che ha aperto il confronto per la formazione del nuovo Governo: vi si chiede “una svolta delle ricette economiche e sociali in chiave redistributiva”, perché-come ha poi precisato Zingaretti, “l’Italia ha un alto tasso di disuguaglianza”. Se si parla della disuguaglianza di genere, intergenerazionale, regionale, è un giudizio perfettamente condivisibile. Ma se ci si riferisce alla disuguaglianza dei redditi, alla distanza tra quelli dei più ricchi e quelli dei più poveri, allora le cose si complicano. Perchè si trova evidenza della crescita di questo tipo di disuguaglianza negli Stati Uniti d’America: il 10% più ricco passa dal guadagnare poco più del 33% del reddito totale nel 1970 al guadagnare il 45% nel 2010.

Ma in Italia le cose non stanno così : la disuguaglianza è cresciuta moltissimo tra la metà degli anni 80 e il 92-93, quando – con la enorme svalutazione della moneta – l’indice di Gini peggiora addirittura di 20 punti. Successivamente, la disuguaglianza prima diminuisce e poi riaumenta, ma con oscillazioni molto ridotte. Oggi la disuguaglianza in Italia e a livelli molto simili a 15 anni fa.

Qual è il vero problema, allora? È il fenomeno dell’impoverimento, esploso durante la Grande Recessione: nel 2006 c’erano 2,3 milioni di persone in povertà assoluta. Oggi sono 4,7 milioni. Non sembri una questione di lana caprina: per quanto nell’immaginario i due fenomeni- crescente disuguaglianza e impoverimento- siano considerati coincidenti, essi presentano significative differenze, che debbono essere messe a base delle relative politiche di contrasto. Se l’obiettivo è la riduzione della disuguaglianza in un contesto di crescita, potranno risultare adeguate anche misure fiscali sul reddito dei più ricchi. Se l’obiettivo è il contrasto della povertà in un contesto di stagnazione o recessione, nell’immediato andrà riconosciuta la priorità di interventi mirati – da realizzare col determinante contributo delle istituzioni e delle comunità locali – sui segmenti più colpiti della popolazione, a partire dalle famiglie con minori (sì, il REI – adeguatamente finanziato -, era ed è la risposta giusta). Mentre sono le politiche di sostegno della crescita e dell’occupazione quelle più promettenti nel medio e lungo periodo.

Lo stesso sforzo di comprensione e di mutamento delle nostre politiche meritano problemi altrettanto rilevanti, come le politiche per il superamento della disuguaglianza di genere o di quella intergenerazionale. Il un contesto di rapidissima caduta della popolazione in età di lavoro, la possibilità stessa di tornare alla crescita quantitativa e qualitativa passa attraverso un significativo innalzamento della partecipazione delle donne alle forze di lavoro, sulla quale continuiamo a registrare un nostro forte ritardo, rispetto a realtà territoriali comparabili, anche nelle Regioni più sviluppate.

Bisogna svoltare e bisogna farlo subito. Per questo servono- anche per l’impatto culturale che possono avere-, misure shock, come una forte differenziazione del trattamento fiscale del reddito da lavoro non domestico delle donne, rispetto a quello dell’uguale reddito del lavoratore maschio. E uno spostamento di risorse umane, organizzative e finanziarie dagli attuali impieghi agli asili nido, per ottenere rapidamente copertura effettiva delle esigenze. Se ci si limita ad indicare obiettivi di maggiore spesa, lasciando intendere che quella in corso potrà restare esattamente impiegata come e dove è oggi, si finisce per alimentare attese destinate ad andare deluse, con loro corollario di crescente sfiducia, rabbia o rassegnata apatia. Il contrario di ciò che ci serve.

Allo stesso modo, in tema di politiche per il riequilibrio delle possibilità di vita buona, di lavoro e di benessere per i giovani: lodevoli intenzioni di intervento pubblico a questo scopo – dal recupero dei periodi di mancata contribuzione alla riduzione strutturale del costo del lavoro stabile e del cuneo fiscale – sono destinate a rimanere in larga misura tali se non si decide di interrompere subito, entro la metà del 2020, l’intervento di controriforma noto come Quota 100, di cui la Ragioneria Generale dello Stato ha documentato gli ingenti oneri aggiuntivi (63 miliardi entro la metà del prossimo decennio), mentre lo stesso DEF del Governo uscente ne ha comprovato l’inefficacia in termini di sostegno dell’occupazione e di crescita del Prodotto. Impossibile che il Governo Conte bis, per la sua stessa composizione, faccia scelte di questo tipo? Può darsi che le cose stiano così. Anche se non capisco come si possa comporre la prossima Legge di Bilancio per bloccare il già deciso aumento dell’Iva, finanziare le “politiche invariate”, migliorare- seppure di pochissimo- l’indebitamento strutturale, e finanziare gli interventi previsti dal nuovo programma di governo, senza recuperare al bilancio parte significativa di quella montagna di maggiore spesa corrente (93 miliardi) decisa con la Legge di Bilancio 2019-2021. Speriamo che sia un limite mio. Ma non sto parlando di ciò che dovrebbe fare il nuovo governo. Sto parlando dell’approccio al tema del cambiamento del Paese che deve caratterizzare la sinistra liberale. Anche sul cruciale terreno delle politiche per la tutela dell’ambiente bisogna partire dal pieno riconoscimento sia del carattere globale della sfida che abbiamo di fronte, sia delle peculiarità che ci caratterizzano, rispetto ad altri partners dell’Unione. Il grave processo di impoverimento in atto, ad esempio, sembra fare dell’Italia un Paese nel quale tenere molto conto di ciò che hanno messo in evidenza Baumol e Oates: “I nostri modelli e le evidenze disponibili danno supporto all’idea che, a conti fatti, i programmi di miglioramento ambientale promuovano gli interessi dei gruppi a più alto reddito più di quelli dei poveri; e possano facilmente aumentare il grado di disuguaglianza corrente nella distribuzione del reddito reale”. Questo rischio suggerisce un’adesione meno acritica a scelte ispirate all’obiettivo di combattere il riscaldamento globale” tassando il carbonio”. Non perché questa scelta vada sempre evitata, in ragione del suo carattere almeno potenzialmente “regressivo”. Ma per indurre chi vi ricorra a destinare parte significativa del maggiore gettito alla compensazione degli svantaggi subiti dalla parte più debole della popolazione. Qualcosa di molto diverso-per stare alla cronaca di questi giorni- dall’idea di ricorrere alla maggiore tassazione delle merendine per finanziare aumenti di spesa corrente, destinata a finalità che con la salute e l’ambiente non hanno nulla a che fare. Avendo vissuto in prima persona la difficoltà di ottenere il consenso parlamentare necessario per l’applicazione dell’Ecobonus ai grandi condomini degli anni 50,60 e 70, a fronte dell’enorme “facilità” di applicazione delle stesse detrazioni ai giardini pensili, inclino a ritenere che il criterio che sto suggerendo per la progettazione delle politiche ambientali sia di rilievo non del tutto trascurabile.

Cambiato il moltissimo che c’è da cambiare, questa metodologia di selezione delle politiche “adatte” per il nostro Paese vale ancora di più per le politiche di governo dell’immigrazione. Nelle 11 tesi riformiste di LibertàEguale – elaborate su mandato della Assemblea di Orvieto dello scorso anno e alle quali sono costretto a rimandare per un esame più completo della nostra posizione in tema di governo dell’immigrazione -, abbiamo parlato di un fallimento riformista, determinato innanzitutto dalla assenza di una autonoma visione di fondo del problema. Sballottati tra gli opposti estremismi di chi reclama apertura senza alcun governo, e chi pretende chiusura totale, non siamo riusciti ad assumere come principio ispiratore della nostra posizione quello che alcuni di noi, con apposito documento elaborato da Sandro Maran, tentarono di affermare in una lontana conferenza programmatica del neonato PD: “Venire in Italia è un’opportunità, non un diritto”. L’impotenza degli organismi internazionali, l’insensibilità di troppi Paesi europei, l’estremismo di chi ha alimentato legittime paure dei nostri concittadini per lucrarne il consenso, hanno fatto il resto. Il non governo del fenomeno che ne è seguito- malgrado il generoso tentativo di Minniti nell’ultima fase della legislatura dei governi di centrosinistra- ha condotto alla tragedia che conosciamo: una gran parte degli immigrati giunti in Italia è andata ad ingrossare le fila di chi vive al di sotto della soglia di povertà assoluta (1,5 milioni di stranieri sono in questa situazione).

L’economia non ha potuto giovarsi pienamente dell’impulso derivante dalla disponibilità di nuovi lavoratori, poco istruiti e professionalizzati rispetto a quanti scelgono altri Paesi europei come meta della propria migrazione. La rabbia dei cittadini italiani che avvertono l’immigrazione – specie quella clandestina – come una minaccia, è diventata ogni giorno più forte e si è rivolta ad incrementare il consenso di Salvini. Non basterà, per ritrovare un equilibrio, il migliorato rapporto con i nostri partners europei. Bisognerà ispirare al principio già richiamato un’azione fatta di nuova regolazione degli ingressi-la Bossi-Fini impedisce l’immigrazione legale per ragioni economiche, spingendo tutti alla richiesta di asilo e, in caso di legittimo diniego, alla clandestinità; di trasparente selezione degli immigrati da accogliere, nel totale rispetto dei diritti umani di ciascuno e nella prospettiva di riconoscere a chi la desidera e la merita la cittadinanza italiana; di creazione di strumenti di governo effettivamente europei del fenomeno migratorio.

 

4-Il cambiamento di cui il Paese ha bisogno non è realizzabile- ripeto: non è realizzabile-, senza la trasformazione della nostra democrazia in una democrazia decidente. Cioè, senza un ridisegno del nostro assetto politico-costituzionale. Lo so, abbiamo tentato e siamo stati respinti dal voto popolare. Non intendo riprendere qui l’esame degli errori che abbiamo compiuto e ci hanno condotto a quella sconfitta. Ma non credo ci siano alternative: o si riducono le nostre ambizioni di cambiamento, o si riprende l’iniziativa riformatrice in questo campo. E poiché il cambiamento è la condizione per evitare il declino che si viene minacciosamente profilando – nella demografia, nell’economia, nella qualità sociale – dobbiamo tornare ad impegnarci sul fronte della riforma costituzionale.

Continuo a ritenere che il sistema semipresidenziale francese, con l’elezione diretta del Presidente tramite il secondo turno di ballottaggio e Parlamento eletto con doppio turno di collegio, sia la soluzione da preferire, perché più corrispondente alle esigenze di ricomposizione del sistema politico e più promettente sotto il profilo della governabilità. Ovviamente, non pretendo che il nuovo Governo si faccia carico né di questa esigenza, né di questa soluzione. Se l’accordo prevede – come prevede – che si proceda al voto definitivo per la riduzione del numero dei parlamentari, in un contesto di aggiustamento dei contrappesi e delle garanzie, considero ragionevole che lo si attui. Non riesco invece a condividere- perché contrasterebbe troppo apertamente con la strategia riformatrice che sto cercando di delineare- la scelta del ritorno al sistema proporzionale.

Quando, con Giorgio Tonini, ho scritto per il Foglio un articolo che manifestava netta contrarietà a questa scelta, alcuni ci hanno chiesto cosa noi pensassimo si dovesse fare, su questo tema. Ripeto oggi la risposta che abbiamo formulato allora: si mantenga la più alta componente di maggioritario possibile, compatibile con la riduzione dei parlamentari. Così da non pregiudicare- per una esigenza dettata dallo stato di necessità, l’intera strategia riformista. In tema di riassetto politico costituzionale, e non solo. Non si tratta solo di un problema di fedeltà ad una linea che è nostra da tanto tempo e che continua ad apparirmi feconda. Si tratta di tenere aperta la possibilità di rendere il sistema politico-costituzionale almeno potenzialmente capace di consentire un’incisiva azione di governo, qualora la direzione del Paese venisse assunta da un partito – o una coalizione di partiti – che su quella azione trasformatrice si fosse impegnato, ottenendo la maggioranza dei consensi. Se i governi si fanno dopo il voto degli elettori questo esito è meno probabile. Non impossibile. Ma molto meno probabile.

È lo stesso punto di vista – anche se non è lo stesso argomento – da cui ho guardato e guardo alla scissione in atto del PD. Non è questa la sede per discuterne in una logica interna al PD stesso. Ma è la sede giusta per discuterne in una logica di sistema: è utile o dannosa, la scelta di Renzi e di altri amici riformisti del PD, ai fini dell’avanzamento della strategia di cambiamento ispirata ai principi propri della sinistra liberale? Sono grato a Gigi Covatta di avermi fatto scoprire- con l’articolo sul Mattino del 22 settembre scorso- che l’idea del partito “a vocazione maggioritaria” è entrata della politica italiana quasi 100 anni fa, per iniziativa di Pietro Nenni, che deplorava l’assenza, tra le forze politiche di allora “di quella che potremmo chiamare mentalità di maggioranza, comprensione cioè dei problemi e degli interessi più generali”.

Ora sappiamo che- per la sinistra italiana- ci sono voluti poco meno di 100 anni per passare dalla affermazione della esigenza alla effettiva costruzione della risposta, con la nascita di un unitario partito dei riformisti italiani, effettivamente dotato di vocazione maggioritaria. Un partito nel quale – in soli 12 anni di vita – leadership e linea politica sono risultate effettivamente contendibili, con l’alternanza – determinata dal voto libero e consapevole di milioni dei suoi elettori più attivi – tra le due posizioni che caratterizzano la dialettica interna di tutti i partiti di centrosinistra a vocazione maggioritaria dei Paesi occidentali.

Se una parte dei riformisti del PD decide per la separazione e la creazione di un altro partito, debbo dedurre che lo faccia perché ritiene non più contendibili linea e leadership. Se la maggioranza del PD uscita dall’ultimo Congresso non si comporterà in modo da trasformare questo giudizio in una profezia che si autoavvera – e non vedo che interesse avrebbe a muoversi in tal senso – credo si tratti di un giudizio con deboli fondamenta. Nella più favorevole delle ipotesi, si tratterebbe della trasformazione in atto compiuto di un rischio solo potenziale.

Dunque, a me personalmente – non come Presidente di Libertà Eguale, ma come Enrico Morando – appare un errore politico. Se non avessi detto in questa sede – con chiarezza – quello che penso in proposito, mi sarei sentito ipocrita.

Vorrei che risultasse tuttavia chiaro che Libertà Eguale resta la casa di tutti quelli che – iscritti al partito che ritengono più utile allo scopo e non iscritti ad alcun partito – si impegnano nel lavoro politico-culturale per la piena affermazione dell’eguale libertà. E che nessuna vicenda interna di partito può mettere in discussione o revocare in dubbio questa sua natura.

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