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Il governo e il piccolo boom del lavoro

Pietro Ichino lunedì 8 Giugno 2015
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pflanze in erdeA marzo avevamo detto: nelle prossime settimane e mesi, quando arriveranno i primi dati dal ministero del Lavoro, dall’Inps e dall’Istat, attenzione agli errori in agguato nella valutazione degli effetti della riforma del lavoro. Innanzitutto, grande cautela nello stabilire i nessi causali: se si registrerà un aumento delle assunzioni a tempo indeterminato, non sarà affatto facile stabilire subito quanto di questo aumento sarà imputabile all’incentivo economico in vigore dal 1° gennaio e quanto alla nuova disciplina dei licenziamenti, in vigore dal 7 marzo. E ancora: non attendiamoci subito un aumento dell’occupazione: è normale che questo arrivi con qualche mese di ritardo rispetto alla ripresa della crescita economica generale.

Poi, ora, ci arrivano tra capo e collo i dati Istat relativi ad aprile, con quei 261.000 occupati in più rispetto all’aprile 2014 e 159.000 in più rispetto a marzo 2015, ben distribuiti tra tutte le classi di età; per farsi un’idea dell’entità di questo aumento, basti pensare che si tratta di uno 0,7 per cento dell’occupazione totale in più in un solo mese, e che se questo tasso di aumento si mantenesse per un anno significherebbe quasi due milioni di occupati in più a fine marzo dell’anno prossimo. Questi dati Istat fanno seguito a quelli altrettanto positivi forniti dal ministero del Lavoro sul numero e soprattutto sulla qualità delle nuove assunzioni a marzo, con l’impressionante aumento del 49,5 per cento dei nuovi rapporti a tempo indeterminato rispetto al marzo 2014 e l’aumento dell’81 per cento delle trasformazioni di contratti a termine in tempo indeterminato. E ancora: sia nel segmento 18-30, sia in quello 50-65, aumenta il tasso degli italiani attivi nel mercato del lavoro e si riduce quello dei disoccupati. Neanche i più ottimisti si attendevano una svolta di questa entità.

Sia ben chiaro: l’appello alla prudenza resta attualissimo. I dati Istat, nascendo da una rilevazione a campione, sono soggetti a scostamenti rispetto al dato reale e possono ampliare (come possono ridurre) l’effetto di oscillazioni o inversioni di tendenza. Inoltre gli economisti avvertono che, per essere significativi di una nuova tendenza, i dati in aumento o in diminuzione devono essere osservabili almeno per un trimestre. Infine, sulla base di questi dati nessuno può seriamente pretendere di indicare quanta parte delle relative variazioni sia imputabile alla drastica riduzione del cuneo fiscale e contributivo entrata in vigore il 1° gennaio scorso, quanta parte alla nuova disciplina dei licenziamenti e quanta parte all’incipiente ripresa economica: per stabilirlo occorrerà attendere il risultato delle analisi degli econometristi sui dati disaggregati, che non potranno venire prima del prossimo anno. Chiarito tutto questo, però, non mi sembra scorretto trarre da questi numeri almeno un indizio: se è vero che normalmente la ripresa della crescita del PIL precede di un semestre o anche più la ricrescita dell’occupazione, mentre oggi in Italia questa dilazione non si sta verificando, abbiamo quanto meno un indizio del fatto che l’incentivo economico in vigore da gennaio e i decreti in vigore da marzo stanno favorendo una netta anticipazione dell’aumento della domanda di lavoro. E se da gennaio si è registrato un aumento della quota di assunzioni a tempo indeterminato sul totale delle nuove assunzioni, ma da marzo questo ha fatto registrare una netta impennata, abbiamo quanto meno un forte indizio dell’efficacia della riforma dei licenziamenti entrata in vigore il 7 marzo, nel produrre quel miglioramento della qualità dei rapporti di lavoro, quindi della loro produttività, ma soprattutto quella riduzione del precariato, che da un quarto di secolo predichiamo e attendiamo, ma solo ora incominciamo a vedere davvero.

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