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Su cosa si vota (o non si vota) il 17 aprile

Angelo Polimeno mercoledì 13 Aprile 2016
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Su cosa si vota. Il referendum propone l’abrogazione della parte qui di seguito sbarrata dal comma 239 della legge 28 Dicembre 2015, n.208, che a sua volta è una legge che modifica una precedente legge del 2006: «All’articolo 6, comma 17, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, il secondo e il terzo periodo sono sostituiti dai seguenti: «Il divieto è altresì stabilito nelle zone di mare poste entro dodici miglia dalle linee di costa lungo l’intero perimetro costiero nazionale e dal perimetro esterno delle suddette aree marine e costiere protette. I titoli abilitativi già rilasciati sono fatti salvi per la durata di vita utile del giacimento, nel rispetto degli standard di sicurezza e di salvaguardia  ambientale. Sono sempre assicurate le attività di manutenzione finalizzate all’adeguamento tecnologico necessario alla sicurezza degli impianti e alla  tutela dell’ambiente, nonché le operazioni finali di ripristino ambientale».

Questa legge del 2015 in sostanza, nelle parti non oggetto di referendum, elimina la possibilità di nuove concessioni di esplorazione e coltivazione entro 12 miglia dalla costa. La parte oggetto di referendum, però, lascia la possibilità, per le concessioni entro le 12 miglia già in essere, di essere rinnovate fino a esaurimento del giacimento.

Cosa vuol dire? Per capirlo partiamo dalla lista delle concessioni per la coltivazione dei giacimenti petroliferi marini dal Ministero dello Sviluppo Economico. La maggior parte delle concessioni (più della metà) sono state emesse intorno al 1970. Era prassi che le concessioni venissero erogate per una durata iniziale di 30 anni, prorogabili a scaglioni di 10 e poi 5 anni, fino a esaurimento del giacimento.

Il “Sì” al referendum, abolendo la dicitura di cui sopra, eliminerebbe la possibilità di future proroghe.

Ora, per capire l’impatto potenziale del “Sì”, cerchiamo di capire come ragiona una generica società di estrazione. Al momento della concessione, la società elabora un “business case” con specifiche variabili e scenari. In questo caso, le variabili più importanti sono: 1. l’investimento iniziale (e finale), 2. i costi di manutenzione ed estrazione, 3. i volumi di estrazione, 4. il prezzo del petrolio grezzo, 5. la durata della concessione. La società si assicura che, al variare, entro valori verosimili dei parametri di cui sopra, essa avrà comunque un ritorno economico positivo, altrimenti rinuncerà alla concessione.

Questi ultimi due parametri sono i più rilevanti alla luce del referendum. Mentre la decisione di trivellare va fatta su “business case” prudenti, e quindi basati su una durata minima garantita della concessione (i 30, o in alcuni casi 20, anni iniziali), nulla impedisce però di mietere più  profitti di quelli previsti inizialmente, se la concessione viene prorogata, per cui si continua ad estrarre senza ulteriori investimenti significativi.

Il prezzo del petrolio, inoltre, al momento delle concessioni, la maggior parte agli inizi degli anni 70 (prima della crisi del petrolio), era davvero basso, al di sotto dei livelli attuali, anche in termini reali, il che rende verosimile che il business case sia risultato positivo anche proiettando quei prezzi molto bassi.

L’impatto ambientale da incidente. Il “Sì” eliminerebbe il rischio di incidenti ambientali futuri. Qual è la probabilità di questi? Non c’è un metodo certo per quantificarla. L’incidente nel golfo del Messico ha avuto un impatto ambientale devastante ed irreparabile. Gli impianti esistenti non corrono rischi comparabili, in quanto non in fase di costruzione, ma rodati e consolidati da decenni. Le società concessionarie potrebbero però decidere di costruire nuove piattaforme nelle aree già in concessione. C’è anche da dire che alcuni impianti sono stati costruiti 40 e più anni fa, dunque potenzialmente con tecnologie obsolete. Il “No” argomenta che non è necessario costruire nuove piattaforme nelle aree in concessione, e il rischio di disastro è piccolo abbastanza da essere accettabile.

L’impatto ambientale ordinario. Il “Sì” si preoccupa anche dell’inquinamento da attività di routine delle piattaforme. Nelle operazioni di estrazione delle piccole quantità di prodotti di scarto vengono perse in mare. Quanto piccole? Oltre i limiti consentiti, come accertato da Greenpeace su dati del Ministero dell’Ambiente, rendendo il Mediterraneo il mare con la più alta concentrazione di catrame in mare aperto. È grave? Difficile dirlo. Il “No” argomenta che comunque stiamo parlando di milligrammi per metro-quadro, quantità che non hanno effetti significativi sull’ecosistema.

L’impatto economico sugli investimenti. Il “No” argomenta che il non rinnovo delle concessioni farà diminuire la fiducia nella certezza delle concessioni rilasciate dall’Italia ad uso economico, diminuendo gli investimenti diretti stranieri in tutti i settori. Il “Sì” argomenta che non ci sarebbe nessun impatto sulle concessioni già erogate (su cui si sono costruiti i “Business Case” di cui si parlava prima) e quindi gli investitori hanno già avuto i ritorni pianificati finora, ma solo sui rinnovi – ulteriori profitti per i concessionari, non dati per scontati al momento della trivellazione.

L’impatto economico sull’occupazione. Il “No” teme per la perdita di posti di lavoro derivante dalla chiusura delle piattaforme al termine delle concessioni non più rinnovabili. Il “Sì” considera l’impatto occupazionale trascurabile e comunque recuperabile da investimenti equivalenti in rinnovabili. Quanti posti di lavoro si perderebbero? Ognuna delle parti fa stime “pro domo sua”, per cui qui faremo una nostra stima “back-of-the-envelope” ma indipendente. Su una piattaforma lavorano dalle 20 alle 100 persone, a seconda della dimensione. Consideriamo una media di 50 persone per piattaforma. Le piattaforme interessate sono 79. Fanno circa 4000 posti. Raddoppiamoli per includere l’indotto. Stiamo parlando di circa 8000 posti di lavoro persi nei prossimi 5-10 anni.

Le politiche energetiche. Il “Sì” sostiene che una loro vittoria sarebbe un segnale forte alla politica e al mondo economico, costringendo tutti a considerare che future scelte “non-green” sono a rischio, riducendone dunque il valore economico e scoraggiandole. Per il “Sì”, l’impatto sulla dipendenza energetica dell’Italia dall’estero è trascurabile.

Il “No” sostiene che le politiche energetiche siano strategiche per il Paese, e vadano dunque decise in ambiti più tecnici, considerando quindi tutti gli aspetti strategici, invece che in pubblica piazza sulla base di umori mediatici. Una vittoria del “Sì” per loro aumenterebbe ulteriormente la dipendenza dell’Italia, depauperando la già debole bilancia commerciale.

Le piattaforme in questione coprono l’1% del fabbisogno nazionale di petrolio e il 3% di quello del gas.

 

Informativa: L’autore dell’articolo non ha qualsivoglia interessi economici diretti o indiretti collegati all’esito del referendum in oggetto.

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