LibertàEguale

Digita parola chiave

Cari emeriti che votate no, avete perso la mappa

Maurizio Bozzaotre martedì 22 Novembre 2016
Condividi

In una delle sue migliori “Bustine”, scritta nel 1997, Umberto Eco riportava in incipit la notizia che in occasione del salone del libro di Torino era stata condotta una inchiesta presso vari intellettuali per sapere quali libri non avessero mai letto; era venuto fuori che alcuni non avevano letto Proust, altri Aristotele, altri ancora Hugo e Tolstoj, o Virginia Woolf, compreso un illustre biblista che aveva confessato di non aver letto per intero la Summa Teologica di San Tommaso. L’incipit si concludeva così: «Giorgio Bocca ha asserito di aver abbandonato dopo poche pagine sia il mio ultimo romanzo che il Don Chisciotte, e trabocco di gratitudine per questo immeritato apparentamento. D’altra parte a leggere troppo, come Don Chisciotte, va il cervello in acqua».

Ecco, a leggere troppo – diciamola meno rudemente del Maestro, va’ – si rischia di perdere il contatto con la realtà. Proprio come il buon Don Chisciotte, che, imbottito di troppe letture (e assai poco poggiate per terra) crede di vedere terribili mostri e non s’avvede di esser partito lancia in resta contro degli innocui mulini a vento. Lui è arciconvinto ed in perfetta buona fede, ma quelli sempre mulini sono.

Questo è quanto viene da pensare osservando la numerosa e variegata schiera di illustri ed emeriti cattedratici (non a caso tutti o quasi di età alquanto avanzata – ma su questo aspetto ci ritorniamo), scesi agguerritamente in campo contro la “schiforma” costituzionale Renzi-Boschi. Sono nomi che fanno tremare le gambe e i polsi a qualunque bipede implume di media cultura e di buone letture: in primis l’acclamatissimo Gustavo Zagrebelsky, e poi pesi massimi del calibro di Stefano Rodotà, Nadia Urbinati, Luigi Ferrajoli, Valerio Onida, Maurizio Viroli, Luciano Canfora, Salvatore Settis, Gianfranco Pasquino, e altri ancora.

Bene, cari professori, io vi conosco. Cioè, conosco i vostri libri. Li ho letti quasi tutti. Il diritto mite dello stato costituzionale di Zagrebelsky, le acute e ponderose riflessioni sui diritti e la solidarietà di Stefano Rodotà, quelle su John Stuart Mill e la democrazia rappresentativa di Urbinati, quelle sui valori della Costituzione di Onida, quelle su Machiavelli e il repubblicanesimo di Viroli, il grandissimo “Diritto e ragione” di Ferrajoli (vera bibbia di ogni sincero garantista), le appassionanti cavalcate tra Pericle e Togliatti di Canfora, i dilemmi dell’ingegneria costituzionale comparata di Pasquino, e via discorrendo (anzi, leggendo).

Io vi conosco, cari professori, e da tempo, al contrario di quelli che oggi si riempiono la bocca dei vostri nomi ma che fino a sei mesi fa neanche sapevano della vostra esistenza.

Per questo, come direbbe il grande Totò, sono con questa mia a scrivervi con grande dolore e amarezza. Io, che pure mi sono abbeverato per decenni ai vostri aurei insegnamenti, mai avrei pensato che un giorno sarei stato attonito testimone di uno spettacolo assolutamente raccapricciante, per me come per ogni altro bipede implume di cui sopra. E non sto parlando del “no” a questa riforma costituzionale, e neppure del “no” al cosiddetto “renzismo”, da voi visto come continuazione del berlusconismo con altri mezzi. Ma per carità! Ma ci mancherebbe! Ma ben venga il dissenso!

No, io sto parlando del vero dramma di questo dibattito (e di questo tempo), così come lo vediamo noi che, pur intrattenendo costante commercio di amorosi sensi con le vostre opere, non abbiamo la ventura di poter passare la vita a leggere libri e a tenere conferenze; noi che con il mondo della vita e le sue spigolosità siamo costretti a confrontarci sbattendoci gomiti e ginocchia tutti i giorni (e avendo sempre meno tempo per leggere, mannaggia!); noi che viviamo in un mondo che non coincide con le pareti di una biblioteca o di un dipartimento universitario.

Ma qual è questo dramma? Io la metto così, cercando di far fruttare quel che ho imparato innanzi tutto da voi, partendo dai fondamentali, dalle basi, da quella cosa assolutamente vitale per noi umani, sia individualmente che collettivamente, chiamata “cultura”.

Per me la cultura è una mappa. Una mappa che ci è assolutamente necessaria per orientarci e per comprendere la realtà in cui viviamo. Una volta ho letto da qualche parte che le rivoluzioni si fanno non per cambiare il mondo ma per vivere una vita autentica e non una vita da schiavi. E’ una frase bellissima, che io applico in toto alla parola cultura. Perché la cultura non serve solo a renderci liberi, come comunemente si dice, ma ci rende più “autentici”, più consapevoli di noi e di questo nostro essere-nel-mondo. Senza la cultura non saremmo tanto diversi dagli zombi dei film horror: morti che camminano non sapendo di essere vivi, che quando gli spari alla testa non avvertono nessuna differenza, smettono solo di muoversi.

La cultura è dunque quella mappa che ci distingue dalle altre forme di vita, che ci dà consapevolezza e “autenticità”. Siamo d’accordo, spero. E però, illustri emeriti – questo è il punto, anzi IL punto – il dubbio che voi Senatori della Repubblica delle Lettere fate atrocemente venire a noi semplici cittadini di quella Repubblica è che forse, alla maniera di Don Chisciotte, a causa delle tante (troppe?) ore trascorse nelle biblioteche o nelle aule di lezione, vi possa essere sfuggito che una mappa, per quanto ben disegnata possa essere, NON è la realtà. Una mappa ci fa orientare nel mondo, ma NON è il mondo. Lo sperimentiamo tutte le volte che ci troviamo in visita in un luogo sconosciuto: c’è la mappa che (quasi sempre sconsolatamente) teniamo in mano… e poi c’è la realtà intorno a noi. Che non è fatta di disegni e lettere, ma di mura e gradini. E persone fatte di carne e ossa, non di inchiostro e carta.

Lo sanno molto bene gli antropologi, che quando, ad esempio, devono pubblicare una ricerca su una semisconosciuta tribù dell’Africa equatoriale, non si limitano a leggere i libri scritti sull’argomento (che pure va fatto, ovviamente) ma fanno armi e bagagli e vanno “sul campo”, cioè a vivere con loro nel villaggio di paglia e fango, e ci stanno almeno sei mesi o un anno.

Ecco, cari maestri, il dilemma che attanaglia noi umili adepti di voi custodi sacerdotali di arcani a noi inafferrabili come “democrazia”, “costituzione”, “politica”, “società”, “sinistra”, riguarda proprio questo “stare sul campo”, che a noi pare necessario se davvero si vuol comprendere il, e operare nel, mondo di oggi. Un mondo, se mi posso permettere, parecchio diverso, sul piano sociale ed economico, da quello da voi vissuto negli anni della vostra formazione. Il che rende, se posso ancora, la variabile anagrafica una variabile dipendente, a volte determinante, rispetto alle vostre pensose meditazioni.

Ricordo che quando nel 1993 Massimo Cacciari vinse (si può ancora dire? parrebbe di no…) le elezioni comunali e diventò sindaco di Venezia, un giornalista televisivo gli fece questa battuta: «Un filosofo alla guida di una città, è dai tempi di Platone che non accadeva…»; e lui, con la consueta schiettezza, gli rispose (vado a memoria) più o meno così: «la battuta può essere divertente. Io però non credo alla filosofia applicata alla politica. C’è la filosofia, e c’è la politica». E infatti, coerentemente, Cacciari, quando parla o scrive, o lo fa muovendosi ad altitudini teoretiche elevatissime, o lo fa da pragmaticissimo osservatore (quasi sempre con invidiabile acutezza), senza mai mischiare indebitamente Heidegger con il federalismo oppure Nietzsche con la legge elettorale. O, magari, il “Principe” di Machiavelli con la “deforma” costituzionale. E di certo non è un caso che, tra gli emeriti, Cacciari sia uno dei pochi che, sia pure con riserve e distinguo (ma, del resto, chi non ne ha?) abbia dichiarato di votare “sì” a questa benedetta riforma. Perché aver avuto un’esperienza (eccolo, il famigerato “stare sul campo”!) come pubblico amministratore forse qualcosa incide sulla forma mentis con la quale si valuta una proposta politica. Una valutazione in cui assume un ruolo determinante tutto quell’insieme di fattori e condizioni, materiali e immateriali, che approssimativamente definiamo “contesto”.

Ecco, il contesto. Gli intellettuali, quando lo sono, sono liberi di ignorarlo, il contesto (e spesso aristocraticamente lo fanno, ed è anche per questo che trovano sempre meno ascolto in quel “popolo” le cui ragioni pretendono di voler rappresentare). Il politico non lo può fare, mai, pena la sua stessa, radicale, negazione.

E allora eccolo il dramma di questo maledetto dibattito (e di questo maledetto tempo): una conclamata, assoluta separazione tra il mondo del contesto (che pure paradossalmente, forse in un sussulto omeopatico, voi stessi evocate!) e un mondo – il vostro – che per decenni ha pasciuto intere generazioni di lettori: noi. Noi, avidi di mappe, curiosi di realtà, affascinati dal sillogismo, sedotti dal postmoderno, stregati dalla decostruzione. Noi, maschere di estasi folgorate da mirabili coniugii tra l’acutezza dell’analisi e l’efficacia della sintesi. Sempre meravigliosamente, elegantissimamente, impareggiabilmente. Che si parlasse di potere costituente o di differenza, di sistemi maggioritari o di rinascimento, ci sentivamo stupendamente prigionieri del vostro potere, il più titanico, il solo potere in grado di tenere avvinti il nostro mondo e il vostro: il potere della scrittura.

Oggi questo ponte tra i due mondi – quello in cui tutti noi viviamo e quello disegnato dalle vostre mappe – sembra essersi sgretolato. Le due rive sembrano essersi allontanate troppo, e troppo repentinamente. Forse è questa la vera “deriva” di questo maledetto tempo, come quella dei continenti.

Ma sì, perché a noi che in un mondo di realtà ci dobbiamo vivere cadono le orecchie quando si sente teorizzare ex cathedra che in democrazia non si “vincono” le elezioni; che far sì che un governo possa durare cinque anni è l’anticamera dell’oligarchia; che la Costituzione null’altro è che un “vestito” formale (ma allora, perdiana, di cosa si ragiona?) e quello che conta è il “riformare il corpo politico e sociale” (chiaro. Quindi?); che la democrazia è un sistema in cui devono dominare il compromesso e la mediazione e mai la decisione; che non c’era bisogno di riscrivere il Titolo V perché l’aveva già “riscritto” la Corte costituzionale (molto meglio, va senza dire…); che, species ad genus, in definitiva la Costituzione non deve essere toccata, mai e in nessuna sua parte, perché tanto ci pensano loro, gli emeriti giudici costituzionali, ad aggiornarla ed adeguarla ai tempi, così inverandosi l’utopia platonica del governo dei custodi (altro che “deriva” oligarchica… nell’oligarchia ci siamo già dentro con tutte le scarpe); e ancor più in generale, quando non si arriva a comprendere che il nostro tempo è immerso in un mutamento epocale prodotto da una gigantesca rivoluzione tecno-economico-produttiva pari a quella industriale di qualche secolo fa (per di più in forme enormemente più rapide, e quindi drammatiche), e ci si ostina a leggere questa rivoluzione inforcando le lenti otto-novecentesche “capitale vs. lavoro”, (che è un po’ come voler comprendere cosa accadde nell’Inghilterra dell’800 applicando le categorie economico-sociali della Roma antica).

E così oracoleggiando un po’ dovunque, da ponderosi volumi collettanei a trasmissioni televisive di “approfondimento”, da blog insurrezionalisti ad austeri quotidiani della borghesia benpensante. Perché un vostro “contributo” non se lo nega nessuno, ovviamente. E però il tutto incredibilmente (sì, incredibilmente!) infarcito di una tale pochezza (sì, pochezza!) non tanto di argomenti ma di una benché minima consapevolezza proprio di quel contesto politico e sociale di cui ci si riempie la bocca. Una pochezza, verrebbe da dire, di “autenticità”. Di chi è capace di saper leggere solo una mappa, peraltro ormai sbiadita e consunta, e non sa più leggere la realtà. Ecco.

E il guaio è che lo sa domineddio se in questo tempo, e in questo contesto, non ci sarebbe “necessità e urgenza” (come per i decreti-legge) di agitatori delle coscienze, di pastori dell’intelletto, di seduttori della conoscenza. Di illuminati che sappiano leggere la società di oggi e disegnarcene la mappa. E magari riuscire a inventarne una nuova. Di società, non di mappa.

A me accade spesso, da quando faccio a tempo perso attività politica nel Partito democratico, di sentir parlare dai compagni più anziani del comunismo come una grande “utopia” o un grande “ideale”. Ora, capisco il senso e lo spirito, però, per quel che ho capito dalle letture e dalle testimonianze, mi pare che definirlo solo così sia parecchio limitativo.

Il comunismo, nella teoria e nella pratica, non è stato solo un ideale o un’utopia, bensì qualcosa che aveva la pretesa di andare parecchio oltre. E’ stato un grande, grandioso progetto politico. Un progetto che scaturiva da un’analisi (che voleva essere scientifica) della società, dell’economia, della politica, perfino della storia. E però, siccome quello era un progetto politico e non uno sfogo intellettuale, fatta l’analisi veniva anche proposta una soluzione, il cui nucleo fondamentale era l’abolizione della proprietà privata, e successiva collettivizzazione, dei mezzi di produzione – vero e proprio fulcro archimedeo su cui fare leva per rivoltare l’universo mondo.

Questo nucleo originario (al netto di una serie di variazioni sul tema) ha resistito fino alla fine, fino alla caduta del Muro. Anche in Italia, dove pure il comunismo aveva intrapreso – e da lungo tempo – una strada diversa, che parlava di diritti, di democrazia, di rispetto per lo Stato e le sue istituzioni – da difendere sempre, non importa da quale “parte” provenissero gli attacchi. Del resto, quel “nucleo” era ciò che distingueva politicamente i comunisti da tutti coloro con i quali pure essi condividevano le più nobili aspirazioni di maggiore uguaglianza e giustizia sociale: socialisti, liberal-socialisti, cattolici democratici, repubblicani, azionisti, e tanti altri.

Ebbene, quel progetto è fallito. Un fallimento decretato, con verdetto univoco e inappellabile, dal tribunale della storia, testimoni la vita (e la morte) di milioni e milioni di esseri umani. Un fallimento rovinoso ed epocale (come lo era il progetto, del resto) su ogni piano: economico, sociale, politico, storico. E però, anche se quel progetto è fallito, resto sommessamente convinto che non per questo dobbiamo per forza concludere che il capitalismo ce lo dovremo sorbire fino alla fine dei tempi. La storia non è finita, come incautamente si ebbe a sostenere. Prima o poi, dobbiamo esserne certi, ci sarà qualcuno, qualcosa, una forza che, nel pensiero e nella pratica, lancerà una nuova sfida al cielo. Sarà – dovrà essere – una sfida diversa da quella, però. Perché se è vero che la storia non è finita, è altrettanto vero che quella storia lo è. Irrevocabilmente.

Un altro progetto alternativo prima o poi ci si sarà, dunque. Un progetto che però, se vuole esser davvero tale, non potrà limitarsi a generici piagnistei sulle storture del “pensiero unico neoliberista”, vagheggiando oniricamente “società più giuste e meno diseguali” (e chi non è d’accordo, via!) senza tuttavia fornire alcun “foglio del come” se non quello… di far pagare più tasse ai ricchi (ma dai!). Lamenti privi di progetto che assomigliano pateticamente a gemiti senza soluzioni.

Mentre invece – ce lo insegna la storia delle idee e degli uomini – questo progetto spetterebbe proprio a voi, amati maestri, disegnarcelo. Perché i grandi pensieri lunghi dell’umanità (umanesimo, liberalismo, comunismo, femminismo, ambientalismo, ecc.) sono tutti scaturiti da pensatori, non da principi e governanti. Da grandi menti che riuscivano a leggere la realtà in cui erano immerse disegnandone la mappa, ma che poi tentavano anche di costruire ipotesi e immaginare soluzioni che andassero oltre uno sterile lamento: dalla realtà alla mappa, e dalla mappa alla realtà. Grandi luci che rischiaravano il loro tempo, indicando una possibile rotta alternativa ai loro contemporanei. Gente che sapeva vedere il “mostro” realmente celato dentro il mulino a vento, ma non si limitava solo a smascherarlo.

Oggi, augusti emeriti, tutto questo noi non l’abbiamo. Siamo costretti a sperare nel futuro. Sperare che le generazioni che verranno abbiano miglior sorte di quella che oggi abbiamo noi, naviganti precari nell’oceano buio di questo tempo. Senza luci e senza mappa.