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Il Pd alla prova della sfida milanese

Lia Quartapelle giovedì 26 Marzo 2015
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“Milano ha titoli nel campo industriale, ma nel campo politico ha sempre creato confusioni; i nemici di ieri sono quelli di oggi; nulla è cambiato”. E’ con questa citazione di Giulio Andreotti che si deduce, a contrario, in modo feroce e chiarissimo la specificità dell’innovazione che Milano ha sempre rappresentato per la politica nazionale: una carica di cambiamento che a Roma non si è mai stati in grado di capire e quindi di farvi fronte, dovendosi poi aggiustare alla confusione che ne derivava. Sono moltissimi i fenomeni nati da Milano e poi divenuti di valenza nazionale: dall’avvento del fascismo alla prima giunta di centrosinistra nel 1961, dal terremoto di Mani Pulite alla nascita del berlusconismo e alla sua caduta, iniziata con la vittoria del centrosinistra e di Giuliano Pisapia nelle elezioni comunali del 2011.

Per questo la decisione di Giuliano Pisapia di non ricandidarsi per un secondo mandato, oltre ad essere la conferma del fatto che si può vivere la politica come servizio, offre la possibilità al PD di provare, da Milano, a pensare in modo diverso al proprio ruolo di partito di governo e partito delle primarie in fase di selezione delle candidature, preparazione di una coalizione e preparazione del programma.

La vittoria di Giuliano Pisapia alle primarie del 2010, oltre alle sue indiscutibili qualità personali e alla stima e riconoscibilità della sua figura in città, fu dovuta alla mancanza di credibilità di un partito che era stato per vent’anni all’opposizione e non aveva avuto l’opportunità di creare una classe dirigente all’altezza della sfida né una reale capacità di collegarsi in modo autorevole con i suoi elettori. Oggi lo scenario è cambiato: esiste in città una classe dirigente che, a livello locale e a livello nazionale, si è misurata con le sfide dell’amministrazione e delle riforme. C’è da parte del PD uno sforzo organizzativo per ricreare un senso dell’organizzazione di un partito, con la tensione a trovare nuove forme di rappresentanza dei bisogni e degli interessi. Certo, si tratta di esperimenti giovani, tentativi di una classe dirigente che ancora ha da crescere. La preparazione delle elezioni del 2016 e la campagna elettorale saranno un banco di prova e di crescita cruciali.

In questo senso si può anche ripensare al ruolo che il PD deve giocare in questa sfida: quello di un partito che, insieme agli altri partiti della coalizione, appronta solo l’infrastruttura di partecipazione, lo straordinario strumento delle primarie, perché siano i cittadini a scegliere, tra più candidati del partito stesso, qual è il migliore candidato sindaco. Magari aggiustando lo strumento delle primarie da alcune storture che in altri contesti ne hanno rovinato l’appeal (si riconsideri ad esempio la possibilità di votare per chi non ha diritto di partecipare effettivamente alle elezioni. Sul voto di queste categorie si è effettivamente consumata gran parte della querelle sulla presunta invalidità di alcune primarie).Evitando di indicare il “candidato del PD”, avendo in questi anni messo alla prova più elementi di una classe dirigente di governo, e promuovendo così un’altra idea di partecipazione politica: non più candidati scelti in salotti o segreterie chiuse, ma partiti che si aprono al contributo di elettori curiosi, interessati, desiderosi di partecipare e di essere ascoltati.

Il secondo contributo che il PD potrà dare sarà quello di individuare un asse di governo, in consultazione con le forze vive della città e con le altre forze della coalizione. Un programma di sviluppo per Milano, per un sindaco che governerà i prossimi dieci anni e che dovrà avere le idee chiare su dove portare una città affamata di cambiamento e protagonismo. Dalla prova delle comunali del 2016 a Milano potrà emergere un partito che promuove la partecipazione alla politica, attraverso le primarie, e un partito di idee di governo. Un PD molto diverso da quello del 2010.

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