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Ius soli, un messaggio di inclusione

Gentian Alimadhi mercoledì 12 Luglio 2017
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Con l’approdo al Senato, dopo quasi due anni dall’approvazione alla Camera, della proposta di legge per l’introduzione dello ius soli (modifiche alla legge 5 febbraio 1992, n. 91) il mondo politico si divide; così come l’opinione pubblica, già disorientata e allertata dallo sbarco biblico di persone che giungono da zone di guerra, e non solo. Il momento attuale non è certo propizio a trattare serenamente un tema così delicato e importante come quello dello ius soli: delicato, perché in un clima culturale (in Italia e in Europa) in cui prevalgono pulsioni tutt’altro che solidaristiche si finisce per rimarcare inevitabilmente la inutile differenziazione di carattere identitario fra “cittadini” e “stranieri”; complessa, perché la riforma abbraccia ed intreccia diverse materie.
Ritengo sia doveroso nei confronti di chi ci legge fornire qualche dato tecnico per meglio comprendere la vera portata della proposta di modifica legislativa, per poi passare, in un secondo momento, alle considerazioni di carattere personale. Innanzitutto, la proposta prevede contestualmente l’introduzione dello ius soli c.d. temperato e dello ius culturae.

Con l’introduzione del primo potrebbero acquisire la cittadinanza italiana i bambini e ragazzi nati in Italia dal 1999 a oggi (ovvero ancora minorenni) i cui genitori sono in possesso del permesso UE per soggiornanti di lungo periodo (cittadini extra-UE che risiedono da almeno 5 anni) o il “diritto di soggiorno permanente” (cittadini UE). Secondo lo ius culturae, ottengono il diritto alla cittadinanza i minori stranieri, nati in Italia o arrivati entro il compimento del dodicesimo anno di età, qualora abbiano frequentato regolarmente un percorso formativo per almeno cinque anni nel territorio nazionale. 
Ebbene, pare evidente che dalla riforma beneficiano soltanto i minori nati o arrivati in tenera età in Italia lasciando invariata la procedura di naturalizzazione degli adulti – che possono fare richiesta dopo dieci anni di residenza legale.
Sono più che d’accordo con l’introduzione di un diritto “del suolo”, temperato e non automatico (come invece avviene negli USA), considerata la posizione geografica dell’Italia quale approdo, ormai costante, di tanti migranti con e senza diritto a permanere. D’altronde, tanti paesi europei, anche molto lontani dalle coste del mediterraneo, adottano più o meno lo stesso meccanismo. In sostanza, un minimo di verifica sulla intenzione o meno di stabilirsi in questo Paese (5 anni di percorso scolastico per chi arriva prima dei 12 anni o 5 anni di permanenza del genitore, per chi vi nasce) pare più che condivisibile. Ovviamente, non mi sento di condividere la posizione di quella parte dell’opinione pubblica, spesso manipolata da una certa politica per meri fini elettorali, che reagisce fomentando la paura, senza conoscere e senza entrare nel merito della riforma.
Di questa riforma beneficeranno soltanto 800 mila minori: e si tratta evidentemente di un riconoscimento a ragazzi che, purtroppo, si considerano “stranieri” in Italia e “stranieri” nel paese d’origine dei loro genitori (dove nella maggior parte dei casi non hanno mai vissuto). Questi giovani vivono in un limbo doloroso e umiliante (un piccolo esempio di disagio, il non poter viaggiare all’estero con i propri compagni di classe).
Invece, la propaganda contro la riforma abusa dei reali disagi dell’opinione pubblica associando lo ius soli al pericolo terrorismo o alla criminalità. È superfluo ribadire che, anche negando il diritto alla cittadinanza, non avremo allontanato i potenziali terroristi o criminali. Al contrario, con l’attribuzione della vera ‘identità’ a questi ragazzi, daremo loro un messaggio positivo di integrazione ed inclusione per il futuro. Invero, per dirla brutalmente, non possiamo continuare a pensare alla popolazione migrante secondo schemi semplicistici e manichei: in termini negativi, come pericolo; o al contrario, in termini positivi, come quella massa di persone che serve a pagare le pensioni ai nostri nonni (peraltro, i più recenti dati INPS confermano che “gli immigrati offrono un contributo molto importante al finanziamento del nostro sistema di protezione sociale e questa funzione è destinata a crescere nei prossimi decenni”).
Insomma, non possiamo ragionare come 20 anni fa, ma dobbiamo guardare con una visione intelligente ai prossimi 20 anni.   
Che piaccia o no, la natura multietnica e multiculturale delle società occidentali, che risulta ben visibile nelle grandi aree urbane d’Europa, si viene affermando anche nei nostri centri urbani, sempre meno chiusi nel recinto delle proprie mura, sempre più coinvolti nei generali fenomeni di trasformazione. La spinta in senso contrario, che provenga dalla Lega o dai 5 Stelle, è antistorica, velleitaria e dannosa, soprattutto quando basata sulla diffusione dell’odio e della paura.
Occorre invece puntare sull’inclusione e sul trasferimento dei valori fondanti della tradizione italiana ai nuovi arrivati e alle nuove generazioni. La via maestra per includere passa soprattutto attraverso le politiche di sviluppo dell’occupazione, essendo il lavoro la condizione per una vita dignitosa, autosufficiente e alimentata dalle relazioni umane e civili. Il punto non è negare i diritti di cittadinanza, ma potenziare i servizi all’inclusione e la mediazione culturale, a partire dalle scuole fino a coinvolgere tutti gli enti professionalmente idonei sul territorio.
Infine, sarebbe opportuno un intervento del Parlamento Europeo per far adottare norme omogenee in tutti i Paesi dell’UE per l’ottenimento della cittadinanza del paese che si sceglie ricordando sempre che si acquisisce contestualmente anche quella europea“

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