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La centralità delle periferie d’Europa

Elisa Filippi e Piero Messina giovedì 2 Luglio 2015
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margini_bandiera_europa Le cronache di questi questi giorni mostrano in maniera plastica quanto l’Europa di oggi sia ancora il prodotto dello Stato centrale e della sua organizzazione intorno ai principi di potenza e di sovranità. L’Europa appare ancora un’unione imperfetta di soggetti, gli Stati centrali, che rivela la propria inadeguatezza in entrambe le sue dimensioni. Certamente imperfetta ed incompiuta nella sua dimensione federale, dove come ricorda bene Sergio Fabbrini, ad oggi non vi è traccia nel dibattito politico di quel tanto necessario e lungimirante patto costituzionale tra Stati che affronti la prospettiva dell’Unione politica; altrettanto inefficace nell’azione e concezione dello Stato stesso che, fondato in un’epoca in cui informazioni, interconnessioni, progresso tecnologico erano limitati e facilmente controllabili, oggi ha sempre piu difficoltà non tanto a limitare o a rispondere, ma persino a comprendere fenomeni le cui degenerazioni rischiano di minarne la capacità di sopravvivenza.
Le periferie, geografiche e sociali, sono i luoghi dove si gioca la capacità dell’Europa di sopravvivere alle proprie rigidità e alla propria paralisi.
Siano esse le sponde del Mediterraneo o le periferie della legalità’ sospesa di Parigi o di Roma. Siano esse le piane orientali dell’Ucraina o le banche greche. Le crisi letali che deve fronteggiare l’Europa sono il risultato, è vero di fattori esogeni, ma anche, nella loro ampiezza e drammatcità, dell’ incapacità  e dell’impreparazione europea ad assumere interamente il ruolo di potenza regionale che le spetta e compete con gli oneri connessi.
La lezione dei Balcani negli anni 90 non è servita all’Europa a capire che con la caduta del muro di Berlino veniva definitivamente meno un mondo e un modo di intendere le relazioni globali. Ovvero che da una parte la globalizzazione dei sistemi produttivi e della finanza, favorita dalle nuove tecnologie dell’informazione, stava modificando in maniera profonda i sistemi economici europei, e dall’altra il crollo di regimi dispotici e di sistemi di alleanze avrebbe dato luogo a nuove tensioni. Come un movimento tellurico maggiore, il sistema di relazioni globali sta vivendo oggi una fase di drammatica instabilità. E l’Europa vi è al centro: per la sua posizione geografica, per la sua storia, per la sua implicazione recente nell’abbattere sistemi dispotici e paradossalmente per le sue politiche. La sua debolezza, la sua opulenza, la sua titubanza ne fanno un simbolo privilegiato.
Eppure l’Europa resta la depositaria di un arsenale favoloso: i suoi valori ed in particolare i valori che ne hanno ispirato il movimento di integrazione, che hanno guidato l’ultimo rinascimento europeo dalle barbarie totalitariste. Valori che sono patrimonio imprescindibile delle forze progressiste e riformatrici. Sono i valori che hanno fatto sperare gli Ucraini, che alimentano le speranze degli oppressi in Medio Oriente ed in nord Africa. Libertà, uguaglianza delle chances, merito, tolleranza, equità economica e solidarietà sociale, laicità.

Valori che chiamano dei doveri: sistemi istituzionali basati sulla divisione dei poteri e su check and balances, rispetto dell‘altro e delle regole della comunità, legalità e rispetto delle leggi, contribuzione al bene comune.
Ma sono valori che richiedono integrità e ai quali, troppo spesso recentemente, si è abdicato consciamente o incosciamente.
L’Europa deve battersi per quei valori con quei valori senza dimenticare i doveri che quei valori richiamano.
Per farlo l’Europa ha bisogno di una leadership europea che risponda alle titubanze con il coraggio, all’inerzia con  il ritmo e dia il senso profondo alla costruzione di un’alternativa credibile alle risposte semplicistiche della destra o peggio alla pericolosa reazione dei partiti cosidetti populisti che aizzano i timori, legittimi, di chi si sente minacciato dalla violenza dei nuovi fenomeni.
Per farlo l’Europa, oggi come non mani, ha bisogno di gettare il cuore oltre l’ostacolo, nella consapevolezza che a stare fermi si torna indietro. E in un mondo sempre più globale ed interconnesso, tanto più si arretra e ci si divide, tanto più si è soli e deboli.

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