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Referendum: atto di responsabilità dire SI

Federico Bindi lunedì 28 Novembre 2016
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 referendumCi avviciniamo alla fatidica data del 4 dicembre, giorno del referendum attraverso il quale decideremo se approvare o meno la riforma costituzionale votata dal Parlamento in via definitiva lo scorso 12 aprile.Per certi versi, possiamo dire che i dieci giorni che ci separano dal voto siano i più importanti da settant’anni a questa parte, ossia dal referendum monarchia/repubblica del 1946: mai da allora il Paese si è trovato a un bivio così importante, in cui la scelta non riguardi solo l’assetto istituzionale che ci si vuole dare, ma anche lo spirito e l’attitudine con cui si vogliono affrontare le sfide della modernità.In entrambi i casi, da un lato la scelta è stata (ed è) tra il mantenere un sistema acquisito da tempo, spesso fonte di insoddisfazione e inefficienza ma improvvisamente “riabilitato” al momento di staccarsene, e un sistema radicalmente nuovo, auspicato da tempo ma improvvisamente “screditato” al momento di acquisirlo.

Nel 1946 i nostri connazionali, usciti dal periodo sicuramente più buio della nostra storia, fecero una scelta coraggiosa ma non inconsapevole: decisero che rifugiarsi nel passato per non affrontare il futuro era una mancata presa di responsabilità verso il Paese, verso chi aveva combattuto per esso e verso i propri figli.

La responsabilità è uno dei principi cardine del pensiero liberale. Fingere che nessuno debba essere responsabile di nulla e difendere un sistema che, seppur nato per nobili motivi e da un compromesso difficile tra forze estremamente eterogenee, crei appunto irresponsabilità perenne attraverso un’instabilità e un’inefficienza perpetue è un tradimento di tale principio.

Fa specie il fatto che i sostenitori del No affermino che un Parlamento inefficiente e indecisivo possa essere un utile argine ai populismi, senza rendersi conto che è proprio questo che li crea: una democrazia “bloccata” dove la classe dirigente non può (e spesso non vuole) decidere e prendersi la responsabilità delle proprie decisioni. Basti pensare alle dittature nazista e fascista, nate entrambe a causa di una profonda sfiducia da parte dei cittadini verso un sistema che percepivano come bloccato e inconclusivo (ovviamente considerando anche gli altri fattori contingenti). Questo sistema poi, che garantiva in entrambi i casi scarsa governabilità, non fu di ostacolo a Hitler e Mussolini nella loro scalata al potere: il primo semplicemente vinse le elezioni, il secondo “corresse” la sua minoranza parlamentare con un colpo di Stato.

Entrando nel merito della questione, nella riforma troviamo soluzioni a problemi pluridecennali del nostro Paese (alcuni di essi eredità diretta della stesura originale della Costituzione). Il potenziamento degli istituti di democrazia diretta, di cui poco si discute, forse perché è difficile crearci polemica, ne è un esempio: il quorum ridotto per i referendum al raggiungimento delle 800.000 firme e la garanzia che il Parlamento discuta le leggi di iniziativa popolare che gli vengono sottoposte sono degli strumenti potentissimi al servizio dei cittadini. Permetteranno loro di andare a incidere in maniera veramente efficace sulla vita del Paese; ciò contribuirà senz’altro a risanare la frattura, così dolorosa per la nostra democrazia, tra politica e cittadini comuni.

La riforma del titolo V (rapporto Stato-Regioni), che andrà a correggere le storture della riforma del 2001, buona nelle intenzioni ma scadente nei risultati, dimostrerà che il Paese è in grado di imparare dai propri errori e di non trascinarseli dietro indefinitamente. Inoltre riporterà all’ordine le Regioni che avevano approfittato dell’ubriacatura federalista di quindici anni fa per realizzare investimenti scoordinati e alle volte ridicoli (si pensi al fatto che in alcune città estere si possono trovare uffici di promozione del turismo diversi per Regioni diverse).

Come contrappeso, gli enti territoriali avranno una rappresentanza molto forte nelle istituzioni statali con il nuovo Senato delle autonomie, auspicato da politici di ogni schieramento da decenni (compresi molti di coloro che oggi si oppongono alla riforma, dimentichi dei propri programmi elettorali o addirittura di averla scritta insieme al Partito Democratico nel 2014).

Noi di PEL (politica, economia e libertà) non siamo catastrofisti, cioè non riteniamo che una vittoria del No segni la fine di ogni speranza di migliorare l’Italia (anche perché la speranza dev’essere tenuta in vita sempre); siamo consapevoli anche di alcuni limiti della riforma, e ci sono passaggi che avremmo formulato diversamente. Ma al di là della banale considerazione dell’impossibilità di soddisfare contemporaneamente sessanta milioni di persone, sentiamo che questa occasione, per il Paese, sia unica e, per molti anni se la riforma venisse bocciata, irripetibile.

Vogliamo tutelare e migliorare la nostra democrazia,  vogliamo tutelare e accrescere la nostra libertà e vogliamo garantire ai nostri figli un futuro che non sia segnato in partenza dai nostri errori, per quel principio di responsabilità che gli italiani fecero proprio nel 1946 e speriamo facciano proprio nel 2016.

 

 

 

 

 

 

 

 

 
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