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Quel “Sì” nella vittoria dei Cinquestelle

Marco Martorelli lunedì 20 Giugno 2016
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Il M5S ha vinto. Poche storie, queste elezioni “di midterm” le ha vinte il Movimento 5 Stelle. Se la vittoria di Virginia Raggi a Roma era messa nel novero delle probabilità, il significato dell’affermazione politica dei cinquestelle sta nella vittoria di Chiara Appendino a Torino e nel complesso dei diciannove ballottaggi vinti sui venti a cui hanno partecipato. Nonostante la morte dell’ispiratore Gianroberto Casaleggio ed il defilarsi del frontman Beppe Grillo, i M5S sono stati in grado di proporsi come nuova e competitiva alternativa al Partito democratico, monopolizzando o quasi il voto degli elettori di centrodestra “in libera uscita” al secondo turno. Le urne del 19 giugno hanno portato alla ribalta un elemento che mancava alla politica italiana fin dalla nascita del governo Renzi: un soggetto politico potenzialmente in grado – in un meccanismo elettorale a doppio turno – di contendere al Pd i voti della maggioranza degli italiani. Il M5S sembra essere, in sintesi, l’alternativa a vocazione maggioritaria che mancava al nostro sistema politico e – a guardar bene, e con la dovuta cautela – si tratta tutt’altro di una cattiva notizia.

Il centrodestra ha perso due volte. A differenza del M5S, il centrodestra non è stato in grado di emanciparsi dalla dipendenza dal proprio fondatore Silvio Berlusconi e le sconfitte di Stefano Parisi a Milano e di Lucia Borgonzoni a Bologna rappresentano una seria ipoteca su entrambe le opzioni possibili per la coalizione: quella “di governo” incarnata appunto da Parisi (come anche da Gianni Lettieri a Napoli) e quella “di destra” sostenuta dai grandi sconfitti Matteo Salvini e Giorgia Meloni (sconfitti anche a Varese e Latina, per intenderci). In assenza di una leadership condivisa, sarà complicato tenere assieme Forza Italia, Lega e Fratelli d’Italia, e, nonostante un radicamento nelle amministrazioni locali secondo solo a quello del Pd, è probabile che il centrodestra non sia in grado nel medio termine di arrestare il declino in corso da almeno il 2012.

È a Torino che il Partito democratico ha perso. È a Torino che il Pd ha perso questo turno di “midterm” sul piano nazionale. Archiviata Napoli, anche la sconfitta di Roma era prevedibile,  come conseguenza della “vicenda Marino” e della incerta gestione successiva – riscattata solo in parte dalla dignità e dal valore di Roberto Giachetti – mentre a Milano la solidità di un gruppo dirigente competente, giovane ed innovativo, ha costruito attorno a Beppe Sala una squadra in grado di vincere una sfida non semplice contro Stefano Parisi. A Torino, invece, Piero Fassino, uno dei migliori dirigenti politici che la sinistra abbia conosciuto negli ultimi anni, nonché un bravo amministratore, ha finito col rappresentare il bersaglio grosso e facile del M5S: nella sfida vecchio contro nuovo in Italia – ma non solo – è evidente come non esista partita.

Quale strategia per il Pd di governo. Il dato di partenza è che il Partito democratico assume responsabilità di governo a partire dalla grande coalizione di fine 2011, governo Monti. Quasi cinque anni, mica un giorno. Ed è dal febbraio 2014 che il segretario del Partito democratico Matteo Renzi è presidente del Consiglio: il compimento dell’identificazione tra partito di maggioranza e governo del Paese, come avviene in tutte le nazioni avanzate.  Ora, essendo semplicemente impraticabile la strada di chi pensa di cambiare le regole del sistema (separare la leadership del partito dalla leadership di governo o rivedere l’Italicum) a meno di un salto nel buio del passato, è chiaro che il punto sta nel come gestire l’identificazione tra Pd e governo, senza timori né infingimenti. Il governo continui a fare bene il governo, intensificando la propria agenda riformista, mentre il partito si rinnovi radicalmente, a partire dalle “grandi città perdute” ed a partire dalla sfida del referendum di ottobre, laddove è indubbio che il Sì rappresenta un “nuovo” ragionevole e moderno  mentre il No è la summa del “vecchio” e della conservazione. Alle dovute condizioni, nella sfida tra un vecchio No ed un nuovo Sì è evidente come non esista partita: lo capirà il Pd?

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