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Stabilità: puntare sulla cultura per far crescere il paese

Laura Landolfi venerdì 30 Ottobre 2015
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Troppo spesso il patrimonio artistico nel nostro paese è stato vissuto come un fardello capace solo di succhiare soldi, una visione cui se ne contrappone un’altra non meno preoccupante: quella  denominata da Pier Luigi Sacco in un suo articolo sul Domenicale del Sole24ore come “petrolifera”, tesa cioè a sfruttare lo sfruttabile senza una strategia di sistema  a lungo termine. Insomma  se non siamo al livello di affermazioni come “con la cultura non si mangia” di tremontiana memoria, ci manca poco. Vive infatti l’Italia il suo rapporto con i beni culturali con muta rassegnazione quando non fastidio nei confronti delle masse di turisti che affollano le città.

Ora la tendenza pare essersi invertita e anche noi ricominciamo, poco e lentamente, a reinvestire  nei nostri beni culturali. Un segnale in questo senso  viene dalla legge di stabilità con misure come la stabilizzazione dell’Art bonus al 65% per le erogazioni a favore della cultura, un incremento di 30 milioni per archivi, biblioteche e istituti culturali, un concorso per 500 nuovi funzionari e un incremento della tax credit per il cinema grazie a un investimento che passa da 115 milioni a 140. Se affermare, come fa il ministro Franceschini, che finalmente si è riconosciuto alla cultura un ruolo nella crescita del paese è forse troppo, effettivamente il cambiamento è tangibile. A partire dalla riforma dei beni culturali (di Franceschini appunto) che ha potenziato i collegamenti tra settore culturale e turismo, ridimensionato le sovrintendenze grazie a un rafforzamento del livello regionale e reso autonomi 20 musei i cui direttori sono stati eletti con bando internazionale, cosa che tanto clamore ha suscitato nel provincialismo di casa nostra.

Anche perché, diciamocelo, di cultura si parla solo quando ci sono in gioco le poltrone o quando crolla un muro a pompei. Per il resto tutto tace. Non c’è da stupirsi se i nostri imprenditori, a differenza di quanto avviene ad esempio negli Stati Uniti dove vige un sistema di defiscalizzazione che incentiva a investire, abbiano faticato finora a mettere i loro soldi in un museo; ed ecco che l’Art bonus, appunto un sistema di defiscalizzazione o meglio una tassa di scopo, aiuta chi ha deciso di investire in quel patrimonio artistico che di molto denaro ha bisogno, non solo per essere conservato ma per consentire di puntare al futuro (lode a Salvatore Ferragamo che ha investito nella Galleria degli Uffizi e a Diego della Valle che ha puntato sul Colosseo, cosa che fra l’altro fece gridare allo scandalo).

Qualcosa si è mosso davvero se oggi l’intervento dei privati non fa più clamore, se si è arrivati a discutere su quale forme di partecipazione adottare per rendere più partecipi i privati all’interno di musei e gallerie, come avvenuto in questi giorni agli annuali Stati generali della Cultura organizzati dal Sole24ore o se il Miur è arrivato a collaborare con il Mibact lanciando un progetto di formazione, dal nome “Sistema Pompei”, che permetterà a più di mille allievi di acquisire competenze architettoniche, artistiche e territoriali. Tutti elementi messi in gioco proprio dal Sole24ore che nel 2012 lanciò il suo Manifesto della cultura in cinque punti:

1) creare una costituente per la cultura, senza cultura non c’è sviluppo: cultura e ricerca, secondo l’art.9 della Costituzione, sono i capisaldi che vanno salvaguardati e procedono insieme;

2) per ritornare a crescere, se vogliamo ricominciare a costruire un’idea di cultura sopra le macerie che somigliano assai da vicino a quelle da cui è iniziato il risveglio dell’Italia nel secondo dopoguerra, dobbiamo pensare a un’ottica di medio-lungo periodo

3) cooperazione tra ministeri. La funzione dello sviluppo sia al centro dell’azione di governo

4)l’arte a scuola e la cultura scientifica. Siano fondanti a tutti i livelli educativi

5) pubblico-privato, sgravi ed equità fiscale. Pratica e cultura del merito, intervento dei privati nel patrimonio per una cultura diffusa

In quattro anni alcuni di questi punti sono stati toccati, manca ancora però una visione di sistema, come sottolineato anche da Dario Nardella, basata su regole incisive; serve superare il dualismo pubblico-privato ad esempio offrendo ai mecenati (quanto ne abbiamo ancora bisogno!) di partecipare alla governance dei musei dove hanno scelto di investire a lungo termine, serve coniugare competenze culturali e capacità gestionali (in questo senso un grande passo avanti è stato fatto con la riforma Franceschini); serve una sinergia con il settore del turismo, con le istituzioni e gli enti locali perché se mancano i turisti mancano anche i visitatori dei musei. E ancora, serve comunicazione tra i diversi settori della cultura; a questo proposito è un’occasione persa la mancanza di un qualsiasi rappresentante del mondo del teatro, della musica (compresa la lirica) e della danza agli Stati generali della cultura. Come se esistesse una cultura di serie A (patrimonio artistico e scuola-formazione) e una di serie B sotto forma di “spettacolo”. Un mondo quest’ultimo, penalizzato dalla meno riuscita riforma del teatro e dagli ingenti tagli al Fondo unico per lo spettacolo, che sconta il suo corporativismo e l’incapacità di unire le forze ma che sta cercando di riorganizzarsi, come i recenti incontri avvenuti al Teatro Vascello e al Teatro Quirino (anche qui separati) testimoniano.

Un errore, quello della sua esclusione, che sta, tra l’altro, a testimoniare una mentalità volta ancora alla conservazione del bene artistico e non all’investimento nella contemporaneità, a differenza di quello che avviene nelle grandi città europee.

Insomma, più di tutto, serve un drastico cambiamento di mentalità.

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