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Usa: la politica estera che ha cuore l’ordine liberale

A. Maran, G. Tonini giovedì 7 Gennaio 2016
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Interveniamo in difesa della politica estera del presidente Obama. Si fa un gran parlare, specie dopo gli attentati di Parigi, del «vuoto geopolitico lasciato dall’America di Obama». E buona parte della delusione e dell’insofferenza nei confronti della politica estera di Barack Obama trae origine dall’assunto che, per dirla con il titolo del celebre articolo di Robert Kagan, «Superpowers don’t get to retire». Da qui l’insistenza sul presunto carattere «indecifrabile» della «strategia obamiana». Eppure, non c’è nulla di incomprensibile, se si prende sul serio il punto di vista dell’amministrazione americana. George Bush ha lasciato in eredità ai suoi successori un paese diviso, una catastrofe economica e due guerre in corso. Obama è riuscito a districare il paese da più d’uno dei vecchi problemi, evitando di finire intrappolato in qualcuno di nuovo. Ci sono stati errori e opportunità perdute ma, nel complesso, passerà al suo successore un’agenda di politica estera e una posizione globale degli USA migliore di quella che ha ereditato.

Il punto di partenza è la consapevolezza, da parte di Obama, che il cuore dell’ordine liberale internazionale che gli USA hanno nutrito negli ultimi 70 anni e che è stato la cornice dello sviluppo economico, sociale e politico che si è progressivamente diffuso nel mondo, ha bisogno di essere preservato rinunciando ad avventure fuorvianti nella periferia globale. Obama non è uno sciocco idealista né un incompetente; sente piuttosto, con la stragrande maggioranza degli americani, che dopo un periodo di espansione eccessiva e di un unilateralismo belligerante, gli obiettivi di lungo periodo della politica estera americana possono essere meglio salvaguardati da un consolidamento di breve periodo; e che una volta completata la necessaria marcia indietro, l’Occidente si potrà concentrare di nuovo sul modo migliore per rilanciare l’ordine liberale.

L’amministrazione Obama si è insediata determinata a rovesciare quelli che riteneva fossero gli errori dell’amministrazione Bush, per «riequilibrare – come ha subito indicato nella National Security Strategy – le nostre priorità di lungo periodo in modo da superare con successo le guerre odierne e focalizzare la nostra attenzione e le nostre risorse su un più ampio gruppo di paesi e di sfide». Ha affrontato prioritariamente la crisi finanziaria, riuscendo a domarla con l’aiuto della Federal Reserve. In Iraq ha approfittato della bonaccia prodotta dal «surge» per un ordinato e completo ritiro militare, scommettendo (erroneamente) sul fatto che quelle acquisizioni potessero essere mantenute nel tempo anche senza la presenza e un coinvolgimento significativo degli Stati Uniti. In Afghanistan ha fatto la stessa cosa, definendo un piano di rientro più cauto. Dalla Siria all’Ucraina, dallo Yemen all’Iran, l’amministrazione Obama è stata molto risoluta nell’evitare di farsi risucchiare di nuovo in un altro pantano. Al posto dei «boots on the ground» o dei bombardamenti dall’alto, gli strumenti scelti dal presidente sono stati i droni, le sanzioni e i negoziati.

I critici hanno ragione a lamentare la riduzione del ruolo globale degli Stati Uniti ed il ritiro dalle posizioni più esposte, ma quel che non colgono è che il ritiro non è totale. L’amministrazione USA non ha abbandonato la sua Grand Strategy; cerca piuttosto di metterla al riparo dagli errori dei suoi predecessori. Obama è preparato a difendere il nucleo dell’ordine liberale ma, per far questo, è disposto a sacrificare la sua periferia. Il presidente Obama ha riconosciuto, ad esempio, che l’Ucraina è un interesse centrale per la Russia, ma periferico per l’Occidente. È questa la ragione della saggia reazione al revanscismo russo: né combattimento, né appeasing. Era necessario che la Russia pagasse un prezzo per l’aggressione, ma non era necessario che gli USA entrassero in guerra. I membri della NATO possono contare sulla protezione americana, ma l’Ucraina non è un membro della NATO; è ancora parte della periferia strategica dell’Europa, non del suo centro. Come ha rimarcato Gideon Rose: «Gli USA non sono intervenuti in circostanze simili in Ungheria nel 1956, in Cecoslovacchia nel 1968, o in Polonia nel 1981.

Perché avrebbero dovuto farlo in Ucraina nel 2014? Alla fine, quando le circostanze lo permetteranno, l’Ucraina probabilmente si unirà all’ordine liberale. Come lo hanno fatto quei paesi. Ma non è compito degli Stati Uniti combattere per portarcela anzitempo». In Medio Oriente, allo stesso modo, i falchi rimproverano ad Obama di aver lasciato che conflitti e turbolenze si diffondessero. Ed è vero che il ritiro dell’America dall’Iraq e il non intervento in Siria sono stati seguiti dall’ascesa dello Stato islamico in ampie aree di quei paesi. Ma analizzando la storia recente, Obama ha concluso che i diversi problemi della regione non sono facilmente risolvibili e che non tocca a lui risolverli. Dopotutto, come ha osservato Philip Gordon, un ex funzionario dell’amministrazione: «In Iraq, gli Stati Uniti sono intervenuti e hanno occupato, e il risultato è stato un costoso disastro. In Libia, gli Stati Uniti sono intervenuti e non hanno occupato, e il risultato è stato un costoso disastro. In Siria, gli USA non sono intervenuti e non hanno occupato, e il risultato è stato un costoso disastro». Se il Medio Oriente ha (disgraziatamente) la tendenza ad intrappolarsi in dispendiosi disastri, cercare di esercitare un ruolo costruttivo dai margini, anziché farsi coinvolge direttamente, non rappresenta debolezza ma solo prudenza.

In Siria, ad esempio, qualcosa si può fare solo se si prende atto di come stanno le cose. Il nostro interesse è quello di eliminare (o contenere) i due pericoli che stanno diventando metastasi: l’ISIS, la cui crescita minaccia la regione e ora le nostre città, e la tragedia dei rifugiati siriani che stanno inondando il Libano e la Giordania e che, di questo passo, possono destabilizzare l’Unione europea. Ma non c’è ragione di credere che l’approccio di chi in ogni occasione non fa che urlare «Puntare, mirare, fuoco!» possa funzionare meglio di quanto abbia funzionato in Iraq o in Libia. Senza contare che un’alleanza contro l’ISIS è più facile a dirsi che a farsi. Come Kerry ha dovuto constatare (e come prova lo scontro diretto tra Russia e Turchia), ad eccezione della Francia e degli Stati Uniti, nessuno dei diversi attori coinvolti (oltre all’Iran, all’Iraq e alla Russia, che sembra più incline a preservare Assad che a combattere il terrorismo, ci sono anche la Turchia e l’Arabia Saudita che lo vogliono rimuovere) ritiene che la priorità sia quella di occuparsi dell’ISIS. Senza contare che i sunniti, la maggioranza dei musulmani, non vogliono finire sotto il dominio degli sciiti appoggiati da Mosca. Anche dopo il terribile attacco terroristico a Parigi, Obama è rimasto pertanto della convinzione che quel che davvero farà la differenza (oltre naturalmente agli sforzi per bloccare la capacità di finanziarsi dello Stato islamico, le sue linee di rifornimento ed i rinforzi e rendergli più difficile conservare il controllo del territorio) sarà solo la soluzione diplomatica della guerra civile siriana (che ha creato il vuoto riempito dallo Stato Islamico) e che mandare un significativo contingente di truppe di terra a combattere lo Stato islamico non farebbe che ripetere quel che egli considera l’errore dell’invasione dell’Iraq nel 2003, senza risolvere il problema che abbiamo di fronte. «Ciò sarebbe un errore, non perchè il nostro esercito non sarebbe in grado di entrare a Mosul o a Raqqa o a Ramadi e sloggiare l’ISIS, ma perché vedremo una replica di quel che abbiamo già visto», ha detto Obama ad Antalia. La vittoria sui gruppi terroristi, ha rimarcato, richiede che siano le popolazioni locali a respingere l’ideologia dell’estremismo «a meno che non pensiamo di occupare questi paesi permanentemente». «Supponiamo – ha aggiunto – di mandare 50000 uominiin Siria. Che succede se ci dovesse essere un attacco terroristico concepito dallo Yemen? Mandiamo più soldati anche lì? O li mandiamo in Libia? E se c’è una rete terroristica che opera da qualche altra parte in Nord Africa o in Asia sudorientale?».

L’accordo con l’Iran esemplifica l’approccio di Obama alla politica estera: nessuna guerra, niente appeasement, uno sforzo di squadra con altre grandi potenze per cercare di realizzare una soluzione pratica ad un problema significativo ma limitato, e la creazione di condizioni in cui il progresso, nel tempo, possa avvenire su questioni più ampie. In Asia, dov’è in atto una corsa agli armamenti, la situazione è più instabile e più complessa degli anni successivi alla seconda guerra mondiale. Per molto tempo, gli Stati Uniti hanno assicurato la sicurezza regionale e la stabilità creando un ambiente nel quale Giappone, Corea del Sud, Taiwan, Filippine, ecc., hanno potuto ottenere enormi vantaggi economici, politici e sociali. La spettacolare ascesa della Cina crea oggi opportunità e rischi per questo sistema: la sua ulteriore pacifica integrazione nell’ordine liberale porterebbe molti vantaggi, il conflitto militare con la Repubblica popolare cinese potrebbe portare costi altrettanto grandi. Perciò Obama ha rivolto alla Cina un benvenuto e un monito, invitandola a rispettare le regole; ha rassicurato gli alleati che Washington manterrà l’impegno di proteggerli; ha speso sforzi e capitale politico per negoziare la Trans-Pacific Partnership, un accordo commerciale, concluso proprio nei mesi scorsi, che non solo approfondirà l’ordine liberale, ma rilancerà e rafforzerà le relazioni tra i paesi coinvolti e che rimarrà aperto alla partecipazione cinese quando la Cina sarà in grado di soddisfare i criteri per accedervi. Se questo delicato intreccio di incentivi e disincentivi riesca, nel lungo periodo, a mantenere la condotta cinese all’interno di un percorso costruttivo non è chiaro, ma non c’è nessun altro approccio che lo possa garantire.

Gli errori ci sono stati, ma non possiamo nasconderci che la posizione globale degli Stati Uniti sia migliorata. Rifiutare di accettare responsabilità per gli esiti politici interni in paesi alle prese con difficoltà, è (comprensibilmente) una scelta controversa, ma è un passo necessario per ridurre le perdite e riportare gli impegni americani in linea con le possibilità americane. Usare la diplomazia per ristabilire in modo soddisfacente relazioni con paesi come l’Iran e Cuba e prospettare loro una sorta di «percorso verso la cittadinanza» nell’ordine liberale, aiuta a consolidare l’ordine, non ad indebolirlo. E la consapevolezza che, nel lungo periodo, le società aperte sono in grado di sconfiggere quelle chiuse (se riusciremo a tenere la posizione, Russia, Cina e Iran vedranno alla fine la loro posizione indebolirsi anziché rafforzarsi) rappresenta una riscoperta della miglior lezione della diplomazia americana. Del resto, Obama lo aveva chiarito nel suo discorso all’assemblea generale dell’Onu nel 2013, parlando in particolare del Medio Oriente: «Gli USA sono preparati ad usare tutti i mezzi a loro disposizione, inclusa la forza militare, per garantire i nostri interessi fondamentali (…) affronteremo le aggressioni contro i nostri alleati e partner (…) assicureremo il libero accesso alle risorse energetiche (…) distruggeremo le reti terroristiche che minacciano il nostro popolo (…) E se dico che questi sono i nostri interessi fondamentali, non vuol dire che sono i nostri unici interessi. Altri obiettivi, come la pace nella regione, prosperità, democrazia e diritti umani, sono altrettanto importanti». Ma, aveva rimarcato, «difficilmente raggiungeremo questi obiettivi attraverso l’azione unilaterale americana, in particolare attraverso l’azione militare».

Si tratta di obiettivi che, invece, possono e devono essere perseguiti attraverso un più ampio e prolungato sforzo di gruppo e politiche in grado di costruire un’accettabile struttura di incentivi per mandare avanti le cose nel tempo. Non viene meno la Grand Strategy. Per mantenere un’influenza mondiale indiretta la strategia americana ha bisogno di creare un’area di libero scambio atlantica e una pacifica standone al centro; ha bisogno cioè di includere l’Europa (Ttip) e le altre democrazie asiatiche (Tpp) in un’alleanza, anche economica, grande abbastanza per imporre standard occidentali ad un sistema globale dove emergono nuovi poteri globali e regionali. Inoltre, imporre alla Cina il rispetto di standard di non aggressività esterna e di ordine democratico interno non è solo un obiettivo morale; serve anche ad evitare che l’Impero di Mezzo finisca per implodere, con un impatto globale devastante. Ovviamente, c’è dell’altro. E Obama non c’entra. Gli Stati Uniti, per dirla con Michael Mandelbaum, sono diventati una «Frugal Superpower». Poco importa, infatti, se la politica estera degli Stati Uniti ci piace o meno, quel che davvero conta è che la loro capacità finanziaria di perseguirla va scemando. Anche il governo degli Stati Uniti è alle prese con l’invecchiamento della popolazione, un debito enorme, sanità, pensioni e diritti crescenti intestati a baby boomers incanutiti. Entro vent’anni il servizio al debito pubblico, tanto per fare un esempio, supererà l’intero budget della difesa. Il risultato sarà una leadership con mezzi molto limitati. Anche dopo Obama. La penuria porterà dei vantaggi agli Stati Uniti e agli altri paesi, poiché un’era di risorse scarse renderà il paese meno incline a commettere errori: dall’espansione della Nato troppo ad est (una politica che ha portato alla crisi georgiana), alla disastrosa occupazione dell’Iraq. Quel che i due fallimenti hanno in comune è bene espresso dalla voce narrante del Grande Gatsby, che dice di Tom e Daisy Buchanan: «Erano gente sbadata … Sfracellavano cose e persone e poi si ritiravano nel loro denaro o nella loro ampia sbadataggine…». Senza contare che l’estrazione di idrocarburi non convenzionali (shale gas e shale oil) condurrà ad un cambiamento decisivo nei mercati energetici globali e una politica centrata sulla riduzione della dipendenza nazionale dal petrolio estero può fare per l’America e per il mondo odierni quel che fece il contenimento dell’Unione Sovietica nel XX secolo.

Naturalmente, meno politica estera degli Stati Uniti implica anche una perdita per i non americani. Quando il mondo lamenta: «Qualcuno deve fare qualcosa!», la reazione più immediata e disinteressata non può più venire da Washington. E anche altre politiche di interesse internazionale, come garantire l’accesso globale al petrolio, possono soffrirne. Basterebbe chiedersi: che cosa ci facevano due nostri marò in India? Semplice: scortavano una petroliera. E seguendo a ritroso questo filo rosso, ci sarebbero parecchie cose da dire sul nostro Paese (che non vuole il nucleare e neppure i rigassificatori, le trivellazioni, ecc.).

Ovviamente, ci saranno dei limiti al ritiro dal mondo dell’America. Ma se gli USA, che hanno agito per anni come il governo di fatto del mondo, ora si comportano come un paese qualunque, il mondo avrà meno governo. Anche perché se gli Stati Uniti avranno meno risorse di politica estera, non è detto che la Cina ed «il resto» abbiano i soldi e l’inclinazione per rilevare le responsabilità americane. E, diciamoci la verità, l’arrivo della superpotenza europea è probabile che coincida con quello di Godot. Anzi, come ha scritto su Twitter Ian Bremmer, il presidente di Eurasia Group, mentre si stava consumando l’attacco a Parigi:«At a time when European solidarity is most urgent, the nations of Europe stand critically divided». Non è forse questo il vero «vuoto geopolitico»? Adesso che gli europei riconoscono «l’aggressione armata» al territorio di uno dei loro paesi, ora che Parigi è «in guerra» (e con la Francia, anche l’Unione europea), non sarebbe ora di andare oltre l’aumento dello scambio di intelligence e della cooperazione di polizia, oltre lo sforzo congiunto per il controllo delle frontiere europee? Tutte cose necessarie, per carità. Ma possiamo considerare la sicurezza come un problema (ed una scelta) comune? Possiamo pensare ad una FBI europea? Ad una CIA europea? Insomma, se, come sembra, il mondo sta andando verso la formazione di blocchi regionali che svolgeranno il ruolo degli Stati nel sistema vestafaliano, se strutture continentali come l’America, la Cina e forse l’India e il Brasile hanno già raggiunto la massa critica, l’Europa vuole darsi una mossa? Non è venuto il momento di provare davvero a realizzare un’unità significativa? Se lo è chiesto Henry Kissinger e dovremmo farlo anche noi. Specie di fronte ad una guerra civile interna al mondo musulmano (fatta di scontri tra sciiti e sunniti, di competizione tra potenze regionali, di guerre per procura) che ricorda la «Guerra dei trent’anni» e che richiede una politica «europea» nel Mediterraneo.

Detto altrimenti, per un pezzo, gli americani hanno portato il mondo sulle loro spalle. Si può comprenderli se oggi vogliono metterlo giù. Ma gli alleati dell’America non possono portare un po’ più di questo peso? Non sarebbe ora che gli europei smettessero di eludere il problema delle politiche di difesa (Obama lo ha ripetuto fino alla noia)? Non sarebbe ora che il negoziato transatlantico su commercio e investimenti venisse condotto con piena coscienza della posta in gioco? E quel che dovrebbe farsi strada é proprio la consapevolezza che in assenza di una nazione democratica sufficientemente forte da essere un punto di riferimento e contrastare le potenze emergenti del capitalismo autoritario, allora un nuovo centro capace di esercitare una funzione ordinatrice può emergere soltanto come alleanza globale tra democrazie, cementata da un mercato comune. L’ampiezza del negoziato mira infatti a costruire una relazione più strutturale e soprattutto più politica con l’Europa (che oltretutto colpirebbe il disegno degli anti-europei britannici secondo il quale, dopo l’abbandono dell’Europa, il Regno Unito avrebbe come alternativa il rafforzamento della tradizionale relazione con l’America). Come si fa a non vedere che l’importanza strategica di un accordo per la liberalizzazione degli scambi e degli investimenti tra le due aree economiche più avanzate del pianeta va molto oltre la sua valenza economica?

Quanto all’Italia, la sua condizione di vulnerabilità e insicurezza (verso l’esterno, a causa dell’instabilità dei due versanti obbligati della politica estera italiana, i Balcani e la sponda sud del Mediterraneo, e verso l’interno, col riemergere delle nostre debolezze politiche e istituzionali) è una costante storica. E la risposta a questa condizione è stata l’ancoraggio a sistemi di alleanza con attori più forti in grado di colmare il deficit di sicurezza internazionale ed interno del paese (Nato, Unione Europea, ecc.).

Il guaio è che oggi l’America non ha più la scala, la forza e neppure il consenso interno per agire come Atlante che regge sulle spalle il mondo, fungendo al contempo da locomotiva economica e garante della sicurezza militare. E una crisi di coesione ancora più preoccupante continua a gravare sull’architrave stessa dell’opzione multilaterale dell’Italia: l’Europa. Il che ci obbligherà a fare di più. Di più per la stabilità dei nostri confini; di più per rilanciare il processo di unificazione europea e di più per rilanciare il negoziato transatlantico – forse l’ultima grande occasione politica per l’Occidente per riuscire a influenzare in modo determinante, attraverso un accordo che interessa quasi la metà del pilmondiale, regole e principi di funzionamento dell’economia globale. È finito il tempo in cui ci si poteva dire al sicuro sotto l’ombrello della NATO e poi manifestare contro i missili a Comiso. E senza la disponibilità ad assumere rischi e ad investire (se basta il Tar a mettere in discussione il sistema di comunicazioni satellitari militari Muos, stiamo davvero freschi!), ci resta solo quell’idea stantia dei rapporti internazionali in cui la chiave era il grado di intimità che il Premier riusciva a stabilire con i leader stranieri. Una strategia (che il Financial Times, vedendo Berlusconi sbucare dalla fontana dietro la Merkel, ha definito la «peekaboo politics», la politica del «cucù») che con Putin ha suscitato forti riserve presso i nostri alleati e con Gheddafi ha prodotto risultati grotteschi. C’è però un detto americano che dice: «never let a serious crisis to go waste». Perché è un’occasione per fare cose che prima non si pensava di poter fare.

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