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18 anni di Libertà Eguale/1 Meriti e bisogni, i socialisti per le riforme

Luigi Covatta lunedì 27 Novembre 2017
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di Luigi Covatta

 

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Quando Luciano Cafagna partecipò alla fondazione di Libertà eguale eravamo entrambi reduci da una delusione: il fallimento di quella che per Luciano avrebbe dovuto essere una “Cosa grande” per cui valeva la pena impegnarsi, e che invece D’Alema, con burocratica serialità, aveva classificato soltanto come una “Cosa due”: un percorso politico che dopo le elezioni del 1996 era stato avviato da D’Alema ed Amato e che aveva suscitato non poche speranze fra i socialisti della diaspora, per poi sfociare nell’annessione al supermercato dei Democratici di sinistra di oves et boves et universa pecora.

 

La ‘Cosa due’: che delusione!

Di che si trattava, del resto, lo avevamo già capito all’ultimo congresso del Pds: quello in cui D’Alema, nella relazione, aveva esposto un coraggioso programma “blairiano”, per poi rimangiarselo nella replica dopo un paio di strilli di Sergio Cofferati. Ed avremmo potuto capirlo anche prima, se solo avessimo dato retta ad Emanuele Macaluso, che all’epoca ci ospitava nella ridotta delle Ragioni del socialismo, e che ci aveva avvertito per tempo che “da Cosa non nasce Cosa”[1].

Eravamo comunque socialisti senza tessera. Io, in particolare, ero stato dichiarato “indegno di stare nel Partito” nell’ultima riunione del gruppo dei senatori socialisti dell’XI legislatura. A pronunciare la fatwa era stato Lello Russo, ora sindaco di Pomigliano d’Arco per Forza Italia: e la riunione era quella convocata, a Camere sciolte, dal nuovo segretario del Psi Ottaviano Del Turco per insediare come capogruppo Fabrizio Cicchitto in luogo di un esecrando craxiano come Gennaro Acquaviva.

 

Il rassemblement di Romano Prodi

Miserie della diaspora socialista. Ma in quegli anni sperimentammo anche la miseria del centrosinistra. Con Amato, dal giorno dopo le elezioni del 1994, avevamo dato il nostro contributo perché esso nascesse dai rottami della gioiosa macchina da guerra:  e ci eravamo impegnati a costruirne la “seconda gamba”, come si diceva allora. Puntavamo su Romano Prodi come possibile federatore di democristiani, laici e socialisti. Ma non avevamo considerato, come scrisse poi Peppino Caldarola, che Prodi perseguiva “una formazione il più lontano possibile dall’idea di un partito, un rassemblement poco strutturato, leggerissimo, in cui i gruppi di pressione, fondamentalmente espressione di catene editoriali e di poteri forti avversi alla destra, concorrono a nominare il leader”[2]: con buona pace di quanti oggi impugnano robusti tronchi d’Ulivo per bastonare i riformisti del Pd.   

 

L’incontro con Enrico Morando

E’ in questo clima, quindi, che ci incontrammo con Enrico Morando e gli altri compagni che diedero vita a Libertà eguale: i quali pure erano reduci da una delusione. Non bisogna dimenticare, infatti, che mentre noi ci facevamo prendere in giro da D’Alema molti di loro militavano nel fronte opposto, con Cofferati oltre che con Veltroni. E che anche loro avevano maneggiato tronchi d’Ulivo per ostruire una delle possibili vie d’uscita dalla crisi della sinistra seguita all’indimenticabile 1989.

Queste considerazioni, tuttavia, non impedirono a Cafagna di assumere la presidenza dell’associazione. Né impedirono a me, quando lui si ammalò, di accettare di buon grado il ruolo di vicepresidente che mi venne offerto da Morando. In fondo ci univano due esperienze. Innanzitutto quella della sconfitta. Ma anche quella di non avere atteso che l’edificio in cui eravamo cresciuti ci crollasse addosso per denunciarne la fragilità: per cui non era illogico che il giovane comunista che si era proclamato socialdemocratico di fronte a Pajetta si incontrasse con l’autore della Grande slavina.

Per noi comunque fu utilissimo partecipare alla vita dell’associazione: se non altro per evitare – al contrario di altri nostri compagni – sia malinconiche nostalgie che esuberanti  ripartenze. E forse neanche il nostro contributo è stato inutile: se non altro per avere messo a disposizione di tutti un punto di vista non troppo condizionato dalle contingenze della politique politicienne, e per nulla corrivo rispetto al “nuovo” che avanzava.

 

Il contributo dei socialisti

Non va dimenticato, peraltro, che la presenza dei socialisti nella vita di Libertà eguale non si riduce al ruolo di Cafagna e degli altri compagni che lo hanno seguito. Forse casualmente, del resto, proprio l’assemblea annuale di Orvieto è stata il teatro di due episodi cruciali nel percorso dei socialisti della seconda Repubblica: mettendone in luce sia gli eccessi di supponenza che gli eccessi di condiscendenza.

Fu ad Orvieto infatti che Giuliano Amato, alla vigilia delle elezioni del 2001, ci fece sapere che non intendeva battersi per ottenere la candidatura che gli spettava in quanto presidente del Consiglio uscente, e che avrebbe invece ceduto il passo al candidato scelto da Veltroni e da Parisi. E fu sempre ad Orvieto, dieci anni fa, che Roberto Villetti rifiutò l’alleanza che gli aveva appena offerto Veltroni quando dichiarò chiusa l’esperienza dell’Unione: col risultato di escludere i socialisti dal Parlamento eletto nel 2008.

Anche per questo – nel riprendere nel 2009 la pubblicazione di Mondoperaio – ho cercato di stare alla larga – oltre che dal parrocchialismo – tanto dalla condiscendenza che dalla supponenza. E comunque mi sono sforzato di usare la rivista anche per riannodare legami che la politique politicienne aveva spezzato. Non a caso, del resto, nei primi due numeri che firmai chiesi a Michele Salvati di commentare il saggio di Bobbio sul riformismo e ad Enrico Morando il discorso di Martelli su meriti e bisogni.

Heri dicebamus era il titolo di quella rubrica: l’espressione con la quale esordì Benedetto Croce nel suo primo discorso parlamentare dopo la caduta del fascismo. Noi alle spalle non avevamo vent’anni di dittatura, e comunque né il ventennio fascista né quello della seconda Repubblica possono essere messi fra parentesi. Ma riprendere il filo di un discorso riformista che non è cominciato dieci anni fa può essere utile a tutti: specialmente ora che la “vocazione maggioritaria” del Pd viene messa in discussione dalle condizioni oggettive del nostro sistema di partiti e va recuperata lungo le nuove faglie della politica.

 

Riprendere il filo del discorso riformista

Noi su quel terreno ci avventurammo più di trent’anni fa, con la Conferenza di Rimini. Allora un osservatore che non ci aveva in simpatia come Giuseppe Turani ci diede atto di avere proposto “minor costo del denaro, flessibilità del fattore lavoro, spesa pubblica e assistenziale meno dispendiosa per consentire al sistema economico di correre più in fretta e meglio verso la sfida elettronica e verso la Grande Competizione”[3]. E Miriam Mafai notava che “la forte carica programmatoria che nel primo centrosinistra era indirizzata sul sistema economico si trasferisce oggi sul problema delle istituzioni”[4].

Sull’Unità, invece, Antonio Caprarica ironizzava su Martelli che spiegava “che le classi non esistono” e su Alberoni che (“fresco di un’intervista ad Amica corredata dalle foto di modelli del noto stilista Versace”) aveva “riscoperto la forza dello sviluppo dell’individuo in società che si avviano lungo la strada della de-massificazione”[5].

Ora l’Unità non c’è più, e La Repubblica ha cambiato look: ma i pregiudizi di Caprarica sono ancora vivi (e lottano contro di noi), mentre la lucidità di Turani e della Mafai sono solo un ricordo. L’auspicio è che, anche col contributo della nostra associazione, il centrosinistra che di nuovo va costruito si lasci alle spalle i pregiudizi e si misuri con l’analisi lucida della realtà.      

 

 

[1] P. FRANCHI, E. MACALUSO, Da cosa non nasce cosa, Rizzoli, 1997.

[2] P. CALDAROLA, Radicali e riformisti, Dedalo, 2004, p. 148.

[3] La Repubblica del 3 aprile 1982.

[4] La Repubblica del 6 aprile 1982.

[5] L’Unità del 4 aprile 1982.

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