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Calenda e Letta, se due torti non fanno una ragione

Vittorio Ferla martedì 9 Agosto 2022
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di Vittorio Ferla

 

L’annuncio in diretta tv con il quale Carlo Calenda ha stracciato il patto con Enrico Letta è la deflagrazione che segnerà certamente la campagna elettorale del 2023. E per chi è chiamato ad analizzare i fatti della politica italiana diventa sempre più complicato trovare un senso compiuto nelle scelte dei singoli protagonisti che spesso appaiono irrazionali ai più.

In sostanza, Carlo Calenda imputa ad Enrico Letta di aver annacquato il patto sottoscritto il 2 agosto scorso per aver stipulato un’alleanza elettorale con quelle forze alla sinistra del Pd che si ispirano ad un programma opposto a quello indicato nel patto. Sinistra Italiana e Verdi, infatti, “hanno votato 55 volte la sfiducia a Draghi”, contrastando quel governo che Pd e Azione hanno sempre sostenuto. Negano perfino l’esistenza di un’Agenda Draghi. Si oppongono all’uso dei rigassificatori e degli inceneritori, che il patto invece ammette esplicitamente. Si oppongono alla revisione del reddito di cittadinanza, che Draghi voleva correggere e migliorare. Infine, vedono con sospetto l’adesione dell’Italia alla Nato, sono contrari all’invio di aiuti militari all’Ucraina, hanno votato no alla ratifica dell’ingresso di Svezia e Finlandia nell’Alleanza atlantica.

Tutto vero, in effetti. E tuttavia Carlo Calenda ha torto, almeno per due motivi.

Il primo è spiegato da un dato politico lampante e insuperabile: il Partito Democratico ha fatto da tempo una scelta politica molto chiara in funzione antipopulista e riformista. Prima, nel corso degli ultimi due anni, ha sempre garantito il suo pieno e incondizionato sostegno al governo guidato da Mario Draghi, risultando il perno fondamentale della maggioranza di unità nazionale. Poi, ha cercato in tutti i modi di governare gli smottamenti provocati dal M5s. Quando Giuseppe Conte ha aperto le prime crepe nella maggioranza di unità nazionale, Forza Italia e Lega si sono subito fiondate per ritirare la fiducia a Draghi. Viceversa, il Pd ha continuato a sostenerlo diventando l’unico pilastro del governo ormai dimissionario. Questa frattura non è stata sanata. Enrico Letta ha sanzionato il comportamento irresponsabile del M5s negando loro ogni possibilità di accordo elettorale e chiudendo una volta per tutte l’ipotesi del campo largo tanto cara alla sinistra interna. Questa decisione ha un solo significato: il Pd si sgancia definitivamente dalle sirene del populismo di sinistra incarnato ormai esplicitamente da Giuseppe Conte e dalla sua ciurma di bucanieri sfascisti. Il famigerato patto del 2 agosto completa l’opera: il Pd accetta tutte le condizioni poste da Azione e +Europa per definire l’accordo di programma – redatto di suo pugno da Calenda – nel nome dell’Agenda Draghi e della scelta atlantista e riformista. Addirittura, Letta e Calenda si riconoscono reciprocamente come i due front-runner paritari della coalizione riformista, nonostante le diverse dimensioni dei partiti da loro guidati. Alla luce di tutto questo, appare obiettivamente infondato attribuire al Partito democratico una mancanza di apertura e, men che meno, una tentazione populista.

Successivamente, Enrico Letta ha definito anche un accordo elettorale (ma non di programma) con Sinistra italiana e Verdi: quello che poi è diventato il pomo della discordia con Carlo Calenda. Ma il leader di Azione ha torto anche su questo punto. Il primo motivo è che l’accordo sottoscritto il 2 agosto non escludeva affatto che il Pd potesse sottoscrivere delle altre intese elettorali senza che queste minassero la solidità del programma concordato con Azione e +Europa. Se il punto rappresentava un problema andava segnalato prima della firma e delle strette di mano in favore di telecamera, non cinque giorni dopo. Ma la cosa più grave è che l’unità del centrosinistra verso il centro era la condizione di base per rendere contendibile la posta del 25 settembre. Così, come raccontano ogni giorno le rilevazioni dell’Istituto Cattaneo, sembra aprirsi un varco incolmabile tra i due poli principali a tutto vantaggio del centrodestra.

Ecco perché Calenda riemerge da questa vicenda non certo sotto l’aureola dell’audace condottiero ma nei panni bracaleoneschi dell’inaffidabile mattacchione. In più, appare abbastanza evidente che il fine dell’intesa con Fratoianni e Bonelli fosse sostanzialmente tattico e speculativo: aumentare la massa dei consensi del centrosinistra nella logica maggioritaria imposta dalla legge elettorale, niente a che vedere con l’idea di governare insieme. E poi – diciamola tutta – quanto avrebbero mai pesato questi minuscoli partner in prospettiva futura? Davvero poco o nulla. Senza i tweet di Calenda sarebbero spariti nell’ombra, probabilmente sotto la soglia del 3%.

Ma il paradosso di questo pazzo colpo di scena agostano è che, al netto delle mattane di Calenda, anche il Pd ha la sua buona dose di torto.

Il patto del 2 agosto avrebbe potuto rappresentare la scelta finalmente compiuta di abbandonare le “catene” della sinistra tradizionale novecentesca, liberandosi di tutte quelle zavorre prima di tutto mentali e ideologiche che hanno impedito finora al Partito democratico di passare finalmente il guado per approdare alla modernità liberaldemocratica. Si è ripetuto, invece, l’eterno ritorno dell’eguale. Letta ha avuto la forza di rinunciare al M5s potendo opporre ai desideri della sinistra interna l’inaffidabilità del populismo grillino. In cambio, però, doveva rispettare l’identità sentimentale dello zoccolo duro del suo ceto politico e della sua base. Il rapporto preferenziale con tutto ciò che sa di vecchia sinistra resta una catena indistruttibile: dirigenti e militanti sono ancora ipersensibili verso le accuse di tradimento dei valori della sinistra e si abbeverano ancora alle parole d’ordine più logore di una tradizione che mantiene un valore emotivo e che marca un senso di appartenenza a una comunità ideale che trascende i cambiamenti della storia. La raccolta delle frattaglie della sinistra – da Speranza a Bersani, da Fratoianni a Bonelli – è un modo per tranquillizzare il nucleo storico del partito contro i rischi di snaturare l’identità primigenia e per digerire alleanze con personaggi – come Calenda e Bonino – che sono percepiti come intrusi, nel migliore dei casi, e come “di destra”, nei peggiori.

L’accordo con Sinistra italiana e Verdi, ancor più che da ragioni numeriche è un atto liturgico per rinsaldare l’appartenenza alla comunità originaria. Fin quando resisterà questo blocco, il Pd sarà condannato all’ambiguità strutturale e alla paralisi programmatica. Un partito incapace di scegliere con convinzione una agenda riformista propria per via della sua resistenza identitaria e passatista, ma che si regge solo se governa, accettando le agende altrui, in un rapporto di osmosi con la classe dirigente che amministra il Deep State. Altro che Agenda Draghi.

Non a caso la base dell’accordino elettoralistico con Fratoianni e Bonelli è basato sulla difesa della Costituzione, una coazione a ripetere proprio mentre il centrodestra mette al centro del programma le riforme costituzionali (presidenzialismo e federalismo): la dimostrazione plastica di un conservatorismo inossidabile, prima ideologico e poi istituzionale, che getta sabbia nel motore riformista del Pd fin dalla sua fondazione. Difficile spiegare tutto questo agli elettori di Calenda.

Ecco perché, forse, in definitiva, l’unione di due torti – quello di Calenda e quello del Pd – non poteva fare una ragione.

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