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Il Pci per immagini visto da Rondolino

Stefano Ceccanti martedì 26 Gennaio 2021
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di Stefano Ceccanti

 

Fabrizio Rondolino ha messo insieme un bel libro “Il nostro Pci. 1921-1991. Un racconto per immagini”, edito da Rizzoli.
La cosa interessante e innovativa sono proprio le immagini, ma quelle ve le dovrete vedere se siete interessati, non si possono purtroppo recensire.

Posso solo dire quello che mi sembra più interessante del testo, che è stimolante perché scritto da un coetaneo.

Rondolino è del 1961 come me e ci racconta che si iscrisse alla Fgci nel 1977 in un liceo classico di Torino. I genitori avevano votato Pci l’anno prima, anche se venivano dalla tradizione socialista. Come sintetizza i motivi dell’adesione? In due verbi e due aggettivi: “sentirsi migliori ed essere moderati”. In effetti la diversità ideologica legata all’Urss si era progressivamente ridotta e riconvertita, nel bene e nel male, in una sorta di diversità morale (nel bene per la conquistata autonomia, nel male perché da solo il convincimento di essere migliori che in forme diverse alberga in ogni opzione impegnativa, senza una precisa prospettiva politica rischia di degenerare in moralismo) e il Pci e la Fgci erano sotto attacco da sinistra, anche per l’appoggio ai Governi di solidarietà nazionale. Uno scontro particolarmente intenso a Torino, dove il Pci scelse in modo intransigente e paradigmatico la lotta al terrorismo. “Ho conosciuto e praticato le virtù del compromesso, del dialogo, della mediazione”: così descrive una delle più importanti lezioni di metodo.

Confermo da un altro liceo classico, quello di Pisa, e da un’altra angolazione politica, quella del cattolicesimo democratico, negli stessi anni, la sostanziale correttezza dell’analisi di Rondolino tant’è che con i comunisti andavamo d’accordissimo, solo che non capivamo perché volessero ancora chiamarsi comunisti, vista la grande autonomia assunta dal movimento storico rispetto all’ideologia di origine. E ci chiedevamo, leggendo Mounier, che parlava della costruzione di una sinistra non comunista, se quella convergenza pratica così forte non dovesse avere esiti ulteriori.

Rondolino passa quindi dal personale alla storia politica complessiva delle varie fasi del Pci sin dal 1921 con ricca presentazione di foto, simboli, immagini.

Ritorna poi sul personale nella fase finale ed esprime la tesi che quello che è venuto dopo, in larga parte deludente, sia stato indebolito dal fatto di non definirsi socialisti, ricomponendo in sostanza la frattura del ’21, invece di lanciarsi in un generico ‘oltrismo’, in un superamento un po’ confuso del passato che può aver contribuito a generare antipolitica o ad alimentare il giustizialismo.

Al netto di tutti problemi reali che esistono, del fatto che il campo di forze europee vede nei partiti socialisti un punto di riferimento necessario, avrei dei dubbi sul fatto che il richiamo al socialismo avrebbe avuto effetti più positivi rispetto a quello della denominazione ‘democratico’, che è più ampia e comprensiva delle culture politiche di provenienza. Quando si tentò di comporre nel Pd i vari filoni riformisti non fu scelta a caso o per esigenze generiche. È vero che tra il 1971 e il 1974 culture politiche ugualmente pluraliste si erano fuse in Francia un partito chiamato ‘socialista’, a cui aderirono tra i principali leader il repubblicano Mitterrand e il cattolico democratico Delors, ma prima di allora il nome socialista non apparteneva a nessuno e si prestava per questo, per tutti ad essere un nuovo inizio.

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