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La (non) guerra da combattere

Marco Martorelli giovedì 12 Febbraio 2015
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I tre giorni di sangue che ha vissuto la Francia non rappresentano un nuovo undici settembre, né l’inizio di una guerra, ma qualcosa di diverso e – potenzialmente – di peggiore, a cui è necessario che l’Europa si attrezzi rapidamente a far fronte dopo essere stata colpita in due pilastri che la fondano: la libertà di espressione (essere Charlie) e la libertà di religione (essere ebreo). Gli aspetti che rendono inedita questa insidia – a cui l’Europa, nella oceanica dimostrazione di piazza di domenica scorsa a Parigi,ha dato una prima, decisiva,risposta di unità e serena determinazione – sono due, sintetizzabili nel come e nel perché i terroristi ci hanno colpito.

1.Cominciamo dal come.

Le stragi nella redazione di Charlie Hebdo e nel market ebraico di Porte de Vincennes,unite all’uccisione a freddo di una vigilessa, non hanno alla base una pianificazione criminale complessa, come è invece accaduto per l’attacco alle Torri gemelle e gli attentati di Madrid nel 2004 e Londra nel 2005. Tre “terroristi di banlieue” hanno dimostrato che un addestramento ed un equipaggiamento militari adeguati ed una buona conoscenza del territorio possono bastare – nonostante un’organizzazione piuttosto rozza – a mettere a segno anche in Europa azioni omicide di alto impatto in termini simbolici e di vite umane. Le azioni più o meno coordinate di Cherif e Said Kouachi da un lato e di AmedyCoulibaly dall’altro sono quindi segnate da una tragica semplicità: e ciò che è semplice – o almeno tale appare – è per sua natura replicabile. Purtroppo, i fatti di Parigi dimostrano che all’interno del mondo jihadista sono più che mai attive reti di reclutamento degli emarginati e sbandati in grado di trasformare il loro malessere e rancore sociale in micidiale – e potenzialmente seriale – follia omicida e suicida.

2.E qui veniamo al perché i terroristi ci hanno colpito.

Tra tante incognite è indubbio, questa volta, che i terroristi jihadisti ci hanno colpito per quel che siamo, per la nostra libertà, la libertà di essere Charlie come di non esserlo e di essere ebrei come di essere cristiani o musulmani o atei. Cade così definitivamente quella interpretazione – in voga in particolare a sinistra – secondo cui massacri come quello dell’11 settembre o gli attentati di Madrid e Londra fossero,almeno in parte, ascrivibili ad una vera o presunta ingerenza oppressiva occidentale nei Paesi dell’area mediorientale: insomma, l’illusione per cui ci attaccavano per quel che facevamo e che per farli smettere di ucciderci sarebbe bastato smettere di comandare a casa loro. Trucidare dei vignettisti – perché irriverenti – e degli avventori di un negozio – perché ebrei – è la tragica dimostrazione di come adesso, anche nel cuore dell’Europa, gli jihadisti cerchino di attuare il proprio folle disegno di eliminazione dell’altro-perché-diverso, ammantandolo sotto la falsa coltre ideologica di una “vendetta”.

3. Che fare, le responsabilità dell’Europa e delle comunità islamiche europee.

Se, dunque, è fuorviante parlare di guerra – almeno nell’accezione classica e “simmetrica” del termine – è tuttavia necessario che l’Unione Europea coordini e razionalizzi i propri servizi di intelligence e sicurezza e non esiti ad elaborare con gli Usa una strategia di contrasto alle reti jihadiste che non escluda azioni incisive sul terreno, ovunque si annidino i centri di reclutamento ed addestramento di nuovi potenziali Kouachi e Coulibaly. Dal lato della promozione di una convivenza più pacifica all’interno delle nostre città, bene ha fatto il presidente Matteo Renzi a ricordare come “identità” non sia il contrario di “integrazione”: l’identità dell’Europa è fatta di libertà ed integrazione e per il bene delle future generazioni nessuna doverosa attenzione alla tenuta dei bilanci comunitari può cadere nella miopia di non investire in politiche sociali solidali che promuovano il benessere di tutti e le pari opportunità.

Per quel che riguarda le comunità islamiche europee è necessario andare oltre la scontata dichiarazione di estraneità rispetto ai jihadisti, impegnandosi in una battaglia culturale per estirpare dal proprio interno il germe del fanatismo. Inoltre, di fondamentale importanza è la discussione sul significato della distinzione tra cittadinanza politica e cittadinanza religiosa perché serve sul punto un cambio di rotta. Quel che è necessario è che l’Islam europeo e mediterraneo torni ad esercitare la propria leadership culturale e spirituale sulla generalità delle comunità islamiche, marginalizzando fino ad estromettere le tendenze “rurali” jihadiste che solo la congiuntura degli ultimi decenni – tra accresciute risorse economiche e di disponibilità di “carne da cannone” – ha fatto tragicamente giungere alla ribalta.