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di Matteo Anatra

 

In Italia, in Europa e nel Mondo,  si sta sviluppando un acceso confronto sul futuro dell’auto elettrica. I più riconoscono che siamo di fronte ad una trasformazione epocale del settore automotive. Diverse forze sono in azione: il cambiamento nelle preferenze dei consumatori, la spinta legislativa verso modelli di sostenibilità di lungo termine, l’evoluzione tecnologica a favore di modelli di trazione green, la crescente digitalizzazione e nuovi sviluppi nell’ambito delle filiere di approvvigionamento internazionali. Nelle ultime settimane prima l’Europarlamento e poi il Consiglio dei ministri dell’Ambiente della UE hanno confermato l’impianto sull’azzeramento delle emissioni auto che era stato stabilito già nel luglio 2021: tra meno di 13 anni, nel 2035 potranno essere immatricolati nella UE solo veicoli a impatto climatico zero. La vendita di nuovi veicoli a combustione interna sarà vietata in Europa ma non sarà bloccata la loro produzione o vendita in altri mercati. Inoltre nel 2026 ci sarà una verifica  sulla possibilità di alimentarli con  combustibili a zero emissioni.

L’approvazione definitiva del pacchetto che vede coinvolti Parlamento, Consiglio e Commissione è previsto per l ’autunno. La presa di posizione delle Istituzioni Europee ha dato luogo in Italia a numerose critiche e discussioni. La disputa  volendo schematizzare è tra chi (come il governo italiano) vorrebbe un passaggio più morbido e quindi un orizzonte più lungo ( ad esempio il 2040) e chi invece è favorevole allo stop al 2035 e  tra chi (come il governo italiano) in base al principio della neutralità tecnologica prevede per la riduzione delle emissioni di CO2 un   percorso con tante strade (elettrico, biocarburanti, idrogeno) e una qualche salvaguardia per il motore endotermico  e chi invece  al momento sponsorizza sostanzialmente l’elettrico come soluzione tecnologicamente disponibile e compatibile con l’ambiente.

Il dibattito in Italia e in Europa è così acceso perché si paventano problemi seri per l’industria, con una filiera che si troverà a dover cambiare struttura in poco tempo, per gli utenti, dato che le auto elettriche per diversi anni potranno essere più care delle analoghe con motore a scoppio e per i lavoratori che saranno posti di fronte a rischi di licenziamento e quanto meno a una impegnativa fase di reskilling.

L’industria automotive in Italia

Il dibattito si sta sviluppando in una fase congiunturale in cui il settore automotive sta soffrendo, non solo in Italia, per ragioni legate prima alla pandemia e alla carenza di semiconduttori (continui colli di bottiglia nella fornitura) e ora alla guerra (per l’impatto sulle catene di approvvigionamento, sulla disponibilità di materie prime e la crescita dei prezzi dell’energia).

La filiera industriale italiana è molto eterogenea: racchiude i migliori car designer del mondo (Torino, Motor Valley) e imprese che in Italia producono ogni tipo di veicolo (autovetture, autobus, camion, rimorchi) con la supremazia incontrastata di un operatore (Stellantis) e vede una presenza importante (2.200 aziende per oltre 160.000 addetti) della componentistica.

Se si sofferma l’attenzione sulle immatricolazioni si osserva che il mercato italiano ha avuto un picco positivo nel 2017 con quasi 2,2 milioni di immatricolazioni di autoveicoli. Da allora i volumi sono costantemente calati. Nel primo semestre del 2022 le auto immatricolate ammontano infatti a 684.228 unità e quindi con livelli previsti per fine anno assai lontani da quelli del 2017. Un fatto nuovo di grande interesse è che nel 2021 si è assistito in Italia e in altri paesi europei a un aumento delle quote delle auto elettriche e non sono pochi quelli che ritengono che siamo agli inizi della definitiva transizione all’elettrico. Al 31 dicembre 2021 le autovetture elettrificate rappresentavano in Italia il 42,6 % delle nuove immatricolazioni.

Passando alla produzione e agli elementi strutturali il  dato da osservare è che nel 2000 la produzione di auto in Italia superava i 2 milioni di unità prodotte, mentre nel 2021 non si è toccato nemmeno un quarto di questi volumi (440.000 unità, la metà della produzione della Gran Bretagna e un quarto di quella spagnola).Nel 2000 eravamo in Europa il quinto Paese per produzione di autovetture, oggi siamo settimi, sorpassati da Paesi come Repubblica Ceca e Slovacchia, che hanno una storia produttiva automotive più recente rispetto a noi.

Ci troviamo quindi ad affrontare le sfide della transizione in assenza di un grande produttore nazionale (il cervello industriale di Stellantis è in Francia) e con livelli di produzione degli stabilimenti nazionali piuttosto bassi (da più parti si ritiene che il livello indispensabile a cui ritornare è la produzione di almeno 1.000.000 di vetture all’anno anche per fornire alla componentistica italiana uno sbocco interno adeguato alla propria produzione). La mancanza di un grande player nazionale è particolarmente grave. Gli investimenti richiesti dalla transizione sono affrontabili adeguatamente da grandi aziende che hanno unità di progettazione, ricerca e sviluppo e che possono spesare l’ammontare degli investimenti sugli elevati cashflow. In Italia come si diceva un ruolo importante è giocato dalla componentistica, caratterizzata da una frammentazione più ampia rispetto a quella di altri paesi europei e composta in prevalenza da aziende di piccole dimensioni. Proprio la piccola dimensione aziendale determina una minore propensione agli investimenti in R&D, che invece in momenti di cambiamento sono centrali. La filiera italiana secondo diversi osservatori è concentrata su quei trend che non sono particolarmente vincenti (un conto è fare componenti per motore a scoppio e un conto è fare sensoristica) e inoltre risente della dipendenza storica da FCA (oggi Stellantis).

Alle possibili carenze nella risposta competitiva delle aziende italiane (produttori e componentistica) si devono aggiungere gli impatti della transizione sulla occupazione. La produzione del motore elettrico è assai diversa da quella del motore tradizionale. Se si pensa che il motore tradizionale è costituito da ca. 1400 pezzi mentre quello elettrico, molto più semplice, da ca. 200 e per di più componibili con un processo che è in larga parte automatizzabile, si capisce perché si prevede, coeteris paribus, un calo di lavoratori del 30% ca. passando dalla produzione ad esempio di un motore diesel a uno elettrico. Anfia e Clepa hanno stimato per quanto riguarda l’Italia che la transizione all’elettrico potrebbe mettere a rischio ca. 70.000 posti. Questa è la ragione per cui durante la transizione si porrà (ma già si pone oggi in alcune realtà) un problema di riconversione dell’eccesso di manodopera che andrà dirottata verso nuove produzioni, ad esempio di batterie.

Che fare?  Quale ruolo per le politiche di sviluppo?

Le difficoltà dell’automotive a cui abbiamo accennato sopra hanno messo in evidenza le debolezze della filiera italiana la cui crisi affonda le radici purtroppo in processi di lunga durata (nanismo delle imprese etc.) che esistono almeno dalla metà degli anni 80 del secolo scorso. Che fare?

Nell’analisi strategica di un settore è opportuno partire con realismo da cosa fanno le aziende leader. I grandi car producer una scelta verso l’auto elettrica sembra che l’abbiano già fatta. Anche a prescindere dai nuovi entranti “completamente elettrici” (Tesla,BYD) che stanno raggiungendo la produzione di  oltre 1.000.000 di auto elettriche all’anno , basta  leggere  i piani strategici di General Motor, Ford, Volkswagen, Mercedes-Benz, Audi, Stellantis e Renault (solo per citarne alcuni) per vedere che i  grandi produttori si stanno organizzando per un passaggio più o meno integrale all’elettrico nell’intervallo di tempo 2030 – 2035. Secondo un articolo di Bloomberg apparso nei giorni scorsi si calcola in 526 miliardi di dollari l’ammontare degli investimenti pianificati dalle case auto sui veicoli elettrici. L’imponente cifra è più del doppio dell’importo che era stato mappato circa due anni fa. Ovviamente si tratta di scelte imprenditoriali rischiose, in un certo senso di scommesse: nessuno può predire con certezza quali saranno le traiettorie tecnologiche ed economiche del settore. Al momento i produttori stanno sviluppando due aree di affari distinte: quella per i motori termici (che consentiranno ancora per diverso tempo di fare profitti, ma che sono in tendenziale esaurimento) e quella per le auto elettriche.

Tale processo di investimento dal punto di vista finanziario è assistito e favorito da banche e mercati. Per citare dei recenti episodi italiani, Unicredit si è rivolta a Milano, ca. un mese fa, a una platea di grandi produttori europei e mondiali comunicando di aver costituito una unità di consulenza ad hoc per sostenere l’emissione di bond a lungo termine connessi all’elettrico e alla transizione ESG. Intesa San Paolo invece ha organizzato un incontro con i vari attori della filiera italiana, promettendo il sostegno della Divisione Corporate & Investment Banking alle aziende.

Questo attivismo del privato, delle banche e dei mercati, ben si concilia con il quadro della finanza sostenibile auspicato dall’Europa al momento del lancio del Green Deal: infatti un’obiettivo importante del quadro della finanza sostenibile Europea è quello di indirizzare i flussi finanziari privati nelle attività economiche “green”.

Cosa dire della politica industriale del governo? Il governo come noto ha istituito a Marzo di quest’anno un Fondo “al fine di favorire la transizione verde, la ricerca, la riconversione e riqualificazione dell’industria del settore automotive, nonché per il riconoscimento di incentivi all’acquisto di veicoli non inquinanti”. Il Fondo in questione prevede finanziamenti fino al 2030: si parte nel 2022 con 700 milioni di euro e poi verranno destinati al fondo 1 miliardo di euro per ciascuno degli anni successivi per un totale di 8,7 miliardi di euro a cui si aggiungono, sempre al 2030, 4 miliardi di euro a sostegno del settore dei microchip.

Sulle vetture di nuova gamma “elettrica” pesa il prezzo. Gli aiuti prevedono così agevolazioni sul lato della domanda per chi acquista o prende in locazione finanziaria un’autovettura nuova con diversi livelli di incentivo in base alle emissioni di CO2 e alla presenza o meno di un veicolo da rottamare. Sul punto occorre chiedersi della effettiva opportunità di continuare ad erogare incentivi (o garantire riduzioni/esenzioni fiscali) per l’acquisto di auto elettriche. Sicuramente gli incentivi possono dare un po’ di ossigeno, ma non sono funzionali al riposizionamento della filiera che potrebbe essere favorito maggiormente da incentivi alla ricerca e sviluppo e alla formazione. Visto che in Italia – vedi Motor Valley – esistono bravi ingegneri, operai e tecnici forse questa è l’area che lo Stato deve principalmente aiutare.

Sul piano pratico e per la gestione delle situazioni di crisi si è predisposto un tavolo di lavoro sul settore auto al Ministero dello sviluppo economico al quale partecipano il ministro dello sviluppo economico Giorgetti, il ministro per la transizione ecologica Cingolani, il ministro dell’economia e finanze Franco, il ministro delle infrastrutture e della mobilità sostenibili Giovannini ed il ministro del lavoro e delle politiche sociali Orlando. Presenti altresì ANFIA con tutte le Associazioni della filiera dell’automotive ed i rappresentanti dei sindacati. In più occasioni Giorgetti, il titolare del Mise ha preso le distanze dalla linea dell’Europa: “Dobbiamo accettare i target internazionali che ci siamo dati – ha spiegato il titolare del Mise – ma questi vanno calati nella realtà dell’industria, perché non possiamo accettare che venga colpita da conseguenze sociali devastanti”.

Sicuramente la preoccupazione per gli impatti sociali della transizione, espressa non solo da Giorgetti ma anche in documenti congiunti, da Federmeccanica e dai Sindacati, è positiva e importante. Appare altresì di buon senso la posizione sulla neutralità tecnologica fatta propria dal governo italiano (tema che a ben vedere si ritrova nei primi documenti Europei sul Green Deal) così come potrebbero apparire drastici e stringenti alcuni obiettivi temporali di Bruxelles. Probabilmente però , più di discutere del se e quando, sarebbe meglio discutere del come la transizione vada affrontata.

Lasciando a Orlando  l’attenzione agli impatti sociali del cambiamento  il Mise deve capire che da un punto di vista di economia industriale la sfida dell’automotive va ben al di là della discussione sulla neutralità tecnologica (su quali trazioni privilegiare) e sull’ottenere più tempo (5 o 10 anni ) per l’azzeramento delle emissioni. Con realismo bisogna focalizzare l’attenzione sugli aspetti economici e industriali della transizione, riconoscendo la velocità di un cambiamento che si sta imponendo e col quale bisogna confrontarsi. Mentre i nuovi entranti come Tesla e BYD allargano le quote di mercato, mentre le grandi marche presentano obiettivi estremamente ambiziosi di mobilità elettrica e mentre importanti marchi italiani come Magneti Marelli sono stati venduti a investitori esteri bisogna trovare soprattutto il modo  per aiutare l’offerta e cioè la risposta degli imprenditori al nuovo ambiente competitivo. Nel caso specifico della Magneti Marelli non sarebbe stato possibile studiare un intervento della Cassa Depositi e Prestiti?

Il  Mise ha prodotto  un documento a circolazione ristretta sulla mappatura delle situazioni di crisi. Nel nostro Paese ci sono 101 aziende ad alto rischio di chiusura perché specializzate nel powertrain, il modulo dell’auto con la combustione interna destinato a sparire. Valgono 8,5 miliardi e 26 mila addetti, in bilico perché mancano soldi e capacità per riconvertirsi. Al contrario, segnala il ministero, esistono imprese ad alto potenziale dal momento che lavorano con batterie, connettività, guida autonoma, ma sono solo 40.

Visto che produzione di conoscenza, avanzamento tecnico e know-how sono aspetti fondamentali della transizione, sul lato dell’offerta potrebbe essere utile avere un piano di politica industriale con un focus sugli ambiti della ricerca di base, di quella applicata e della formazione  da sviluppare nelle aree territoriali con le maggiori presenze e potenzialità della componentistica. Ovviamente l’impatto delle politiche industriali non è scontato. A fare la differenza, infatti, sembra essere più la destinazione e la modalità di impiego delle risorse messe a disposizione che la mera possibilità di accedere agli strumenti. I finanziamenti a pioggia non funzionano. Potrebbe essere utile (ispirandosi alla best practice della Motor Valley emiliana)  promuovere investimenti finalizzati a realizzare poli di innovazione, hub di eccellenza per la ricerca, l’innovazione e il trasferimento tecnologico.

Se ci muovessimo male e tardi non resterebbe poi che concentrarsi  sugli impatti occupazionali e sulle politiche passive del lavoro. Tenendo conto che  l’età media dei lavoratori dell’automotive è di ca 50 anni si potrebbero favorire di qua al 2040 ad esempio pensionamenti anticipati  per gli esuberi della transizione : ma con ciò diminuirebbe ulteriormente l’importanza del settore automotive italiano. Un settore i cui ricavi al momento rappresentano il 5,2% del PIL Italiano, il 9,3 % del fatturato manifatturiero e con oltre 262.000 addetti alla produzione.

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1 Commenti

  1. Paolo Ferioli mercoledì 27 Luglio 2022

    E il motore endotermico a idrogeno? Elettricità con fotovoltaico + acqua > idrogeno

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