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di Marco Leonardi

 

Ad ogni rilascio dei dati sull’occupazione, inizia un dibattito se sia più o meno opportuno porre un limite all’utilizzo dei contratti a termine. Prima di rispondere a questa domanda, anche sulla base dei contributi raccolti dal quaderno AREL, è opportuna una riflessione più ampia sull’occupazione e la crescita italiana degli ultimi anni.

 

Se rapportato al PIL l’andamento dell’occupazione è positivo

La prima cosa da dire a riguardo è che l’andamento dell’occupazione negli ultimi 10 anni a partire dall’inizio della crisi è un andamento positivo se preso in confronto all’andamento del PIL, della produzione industriale o degli investimenti che sono tutti caduti a livelli tuttora inferiori di 5 (o più) punti percentuali rispetto all’inizio della crisi. Il livello dell’occupazione invece è tornato al livello pre-crisi.

Nei manuali di economia del primo anno si studia la legge di Okun che stabilisce una relazione tra la crescita del PIL e la crescita dell’occupazione: quest’ultima di regola cresce meno del PIL con un coefficiente che varia a seconda dei periodi storici.

La Figura 1 mostra che questa legge vale per tutti i paesi europei (si veda per esempio la Spagna) tranne che per l’Italia in cui l’occupazione è cresciuta più del PIL (purtroppo nei dati comparabili dell’OECD manca ancora il valore relativo al 2017). Nei primi anni dopo la crisi del 2008 l’occupazione ha tenuto grazie alla CIG in deroga, ma dal 2014 in poi è presumibile che sia il decreto Poletti sui contratti a termine sia gli incentivi e le nuove norme del Jobs Act abbiano avuto un effetto sulla crescita dell’occupazione totale e sulla sua composizione in termini di tipi di contratto (a termine o indeterminato).

 

 

Il Jobs Act ha aumentato l’occupazione a tempo indeterminato

Anche negli anni 2000 l’occupazione italiana aveva mostrato un’alta elasticità al PIL, ma in quel periodo la crescita era dovuta esclusivamente alla liberalizzazione dei contratti a termine e di altri tipi di contratti in seguito al “pacchetto Treu” e alla “legge Biagi”.

Mentre oggi il Jobs Act ha inciso volutamente sulla convenienza dei contratti a tempo indeterminato e di conseguenza una buona parte dell’aumento dell’occupazione dal 2014 ad oggi è dovuta a contratti a tempo indeterminato (all’incirca la metà se prendiamo i dati ISTAT sugli occupati dipendenti dal 2014 al 2017 – fra febbraio 2014 e dicembre 2017 gli occupati dipendenti sono cresciuti di 1,079 milioni di unità, di cui il 44,76% a tempo indeterminato e il 55,23% a tempo determinato. Fonte ISTAT, 2018).

Due recenti articoli scientifici su micro dati, uno di Sestito e Viviano (2016) e uno di Boeri e Garibaldi (2018), hanno stimato l’effetto positivo del Jobs Act sull’occupazione a tempo indeterminato, sottolineando che il previsto aumento delle assunzioni è stato superiore all’aumento dei licenziamenti (come è noto dalla teoria economica, una riduzione dei costi di licenziamento aumenta sia i flussi in entrata che quelli in uscita ed ha un effetto totale ambiguo).

 

Scende il tasso di licenziamento

In particolare l’effetto temuto sui licenziamenti non c’è stato come si può vedere anche dai dati aggregati in Tabella 1.

 

Tabella 1: Tasso di licenziamento pre e post Jobs Act. Fonte: INPS

2014 2015 2016 2017
A.    Licenziamenti di contratti a tempo indeterminato 670.735 623.767 659.777 615.708
B.    Rapporti di lavoro a tempo indeterminato a inizio anno, al lordo delle trasformazioni a tempo indeterminato. 10.063.939 10.181.392 10.752.551 10.559.498
Rapporto (A/B) 6,7% 6,1% 6,1% 5,8%

 

Il numero dei licenziamenti da contratto a tempo indeterminato è aumentato meno del numero dei contratti stessi per cui il tasso di licenziamento è (pur leggermente) sceso. Di conseguenza circa metà della crescita degli occupati dal febbraio 2014 al dicembre 2017 è a tempo indeterminato (circa 483mila) mentre il resto è a tempo determinato (circa 596mila).

Accertato che l’occupazione è cresciuta più del PIL e che tale crescita è in parte a tempo indeterminato (come nelle intenzioni della riforma del 2015), la domanda è se la crescita dei tempi determinati (comunque molto elevata) sia dovuta ad altre cause o sia comunque dovuta alle norme sui contratti a termine del decreto Poletti.

 

La crescita dei contratti a termine

Ricordiamo che il Decreto Poletti del 2014 aumentò il numero di proroghe da 3 a 5 nel corso dei tre anni, cancellò la causale e introdusse un limite del 20% della forza lavoro derogabile per contratto e la cui violazione dà luogo solo ad una sanzione amministrativa monetaria.

L’articolo di Anastasia (sempre nel quaderno AREL) mostra che l’incidenza dei contratti a termine è aumentata dal 13 al 15% del lavoro dipendente privato escluso i pubblici dipendenti nel corso dell’anno 2017. L’articolo di Dell’Aringa e De Novellis mostra che non esiste nessuna spiegazione esaustiva di questo fenomeno. La ripresa economica (che è di regola correlata ad un aumento dei contratti a termine) non è una spiegazione sufficiente dell’aumento dei contratti a termine di questo ultimo anno. E non lo sono neppure la variazione della composizione industriale a favore del commercio e del turismo (attività prevalentemente a termine) né il travaso dei co.co.co e dei voucher verso il contratto a termine.

 

Tabella 2: Full-Time Equivalent dei Vouchers. Fonte: INPS, 2018.

 
  Numero di voucher venduti Percettori Full Time Equivalent ISTAT (FTE = 1.879 ore) Importo medio lordo voucher riscossi (euro)
2013 38.539.563 617.418 19.339 624,2
2014 68.332.398 1.024.146 33.996 667,2
2015 108.111.376 1.495.745 46.824 722,8
2016 134.065.536 1.765.810 71.349 759,2
2017 (luglio/dicembre su somma dati CPO + Libretto Famiglia) 1.623.837 38.323 864 570

Secondo l’ultima nota trimestrale ISTAT un lavoratore full time (FTE) lavora 1.879 ore in un anno.

 

L’influenza dei voucher

A proposito di voucher, la Tabella 2 mostra il numero di Full Time Equivalent (FTE – le ore lavorate a voucher sono trasformate in giornate di lavoro annue) impiegati a voucher nel vecchio regime e nel nuovo regime (dopo il marzo 2017), la perdita è stata di circa 70mila FTE. L’aumento del numero di contratti di somministrazione e a chiamata nell’ultimo anno è stato rispettivamente del 21,5% e del 120% (INPS, 2018).

La cancellazione dei voucher non spiega certo da sola l’aumento dell’utilizzo dei contratti a termine (soprattutto quelli di breve durata che dall’articolo di Dell’Aringa e De Novellis sono aumentati in maniera più rilevante) tuttavia è una chiara correlazione tra i voucher e questi due tipi di contratto. Del resto era proprio chi aveva promosso il referendum contro l’utilizzo dei voucher aveva dichiarato l’intenzione di promuovere l’utilizzo di contratti invece di voucher.

 

La composizione settoriale e i contratti a termine

Una spiegazione che andrebbe approfondita ulteriormente è quella che attiene alla “teoria” secondo cui il mondo del lavoro sarebbe inerentemente più “a termine” (cioè più adatto al contratto a termine) oggi rispetto ad anni fa.

Questa teoria – per cui si giustificherebbe un incidenza molto maggiore dei contratti a termine – non trova riscontro, tuttavia, in altri paesi in cui la ripresa occupazionale è molto più bilanciata tra il contratto a termine contratto a tempo indeterminato.

Se infatti guardiamo al Grafico 2, vediamo che in Francia e Germania la ripresa occupazionale è a tempo indeterminato mentre in Spagna e Italia è più a termine (la qual cosa fa pensare ad un ruolo delle regole piuttosto che ad un trend che in un economia interconnessa dovrebbe incidere su tutti i paesi).

È vero che in Italia la ripresa occupazionale è concentrata nel settore del turismo e del commercio, ma sappiamo già da dell’Aringa e De Novellis che la composizione settoriale non spiega integralmente l’aumento dei contratti a termine.

 

 

Crescita dei contratti a termine e liberalità delle regole

Se la crescita dei contratti a termine fosse anche dovuta alla liberalità delle regole, dovremmo preoccuparci?

Nella letteratura economica il contratto a termine ha una valenza negativa solo quando si tratta di permanenze lunghe nelle quali si è “intrappolati” senza mai arrivare ad una stabilizzazione.

L’Italia è diversa dalla media europea non tanto nell’incidenza dei contratti a termine (il 15% è comunque ormai sopra la media se si tiene conto del settore pubblico) ma nella lunghezza delle transizioni cioè la lunghezza del periodo in cui mediamente una persona rimane in contratti a termine. In Italia è maggiore che negli altri paesi europei, lo era prima del Jobs Act ed è tornato ad esserlo oggi (il tasso di transizione è diventato più favorevole ma limitatamente all’anno 2015 quando ci sono state tante stabilizzazioni di contratti a termine per via della decontribuzione totale).

 

 

Il grafico 3 mostra l’incidenza dei contratti a termine sull’occupazione dipendente e il tasso di uscita dal contratto a termine in tempo indeterminato ad un anno: in Italia meno del 20% dei contratti a termine si stabilizza dopo un anno. Il grafico si riferisce al 2014 e mostra che già prima del Jobs Act la lunga permanenza nei contratti ai termine era il problema dell’Italia. Tale fenomeno è confermato anche dai dati sulle transizioni (da contratto a termine a indeterminato) a tre anni e sul tempo medio di permanenza sui contratti a tempo determinato.

 

Limiti al contratto a termine

Vi sono tre modi di mettere dei limiti al contratto a termine:

  1. ridurre le proroghe e/o ridurre la durata massima dei contratti
  2. rimettere le causali per l’utilizzo dei contratti a termine
  3. aumentare i costi relativi del tempo determinato rispetto al tempo indeterminato.

Tutti e tre hanno pro e contro.

1. Se il problema è la lunghezza delle transizioni da contratto a termine e contratto a tempo indeterminato, sembra essere opportuno ridurre la durata massima dei contratti e/o il numero di proroghe e allinearci agli altri paesi europei dove il massimo numero di mesi di contratto a termine è 24 e non 36 mesi (in Europa solo Belgio e Italia hanno un numero massimo di 36 mesi) e il numero delle proroghe è inferiore (di solito 3).

Una riduzione della durata massima e/o delle proroghe eviterebbe i contratti a termine più lunghi (solo circa il 10% dei contratti a termine supera i 2 anni ma essi corrispondono a circa il 20% delle ore lavorate a termine) o reiterati per un periodo lungo di tempo e poi magari anche ripetuti dopo i 3 anni. Già oggi si vede che i contratti destinati ad essere stabilizzati sono quelli che arrivano alla quinta proroga. Ridurre le proroghe a 3 avrebbe solo l’effetto di accelerare questa transizione.

2. Nei principali paesi europei (Francia, Germania e Spagna) esiste anche l’obbligo di indicare una causa per l’utilizzo del contratto a termine. Noi lo abbiamo sostituito con un vincolo “sostanziale”: un tetto del massimo del 20% di contratti a termine sul totale degli occupati in azienda. Aver eliminato il vincolo formale della causale ha avuto il vantaggio di aver drasticamente ridotto le cause di lavoro che avevano come oggetto la “temporaneità” dei contratti. Mi sembra difficile tornare indietro su una scelta così qualificante, si può certamente rendere più stringente il vincolo del 20%.

3. L’alternativa di agire sui costi (in particolare il costo aggiuntivo dell’1.4% per tutti i contratti a termine non stagionali) avrebbe il vantaggio di far percepire immediatamente il differenziale di costo con il contratto a tempo indeterminato (e di poter destinare il gettito aggiuntivo a servizi specifici come sussidi per la disoccupazione o contributi pensionistici). Tuttavia l’articolo di Olini nel quaderno AREL ci mostra che il differenziale già esistente del 4/5% non è stato sufficiente a scoraggiare l’uso del contratto a termine.  Il costo aggiuntivo avrebbe inoltre lo svantaggio di colpire anche quei contratti molto brevi che sono probabilmente “veri” contratti a termine e non contratti a termine ripetuti che invece nascondono un contratto fisso. Lo studio di Bruno Anastasia (su lavoce.info) mostra che un terzo delle unità di lavoro effettivo in Veneto nasconderebbe posti fissi (i.e. sono contratti a termine sempre rinnovati per la medesima mansione in una stessa azienda). Esiste anche la possibilità di imporre un differenziale di costo attraverso una buona uscita (che in questo caso non va nelle casse dello Stato ma in quelle del lavoratore) per tutti i contratti a termine non stabilizzati. Tuttavia questa soluzione (che pure esiste in Spagna e Portogallo) si presta ad una traslazione del costo aggiuntivo in un minore salario per il lavoratore stesso.

 

La limitazione dei contratti a termine è un naturale complemento del Jobs Act

In conclusione, la limitazione dei contratti a termine è un naturale complemento del Jobs Act.

Facendo una riforma tesa ad incentivare l’uso del contratto a tempo indeterminato nessuno pensava che avrebbero assunto un ragazzo al primo lavoro con contratto a tempo indeterminato, ma si pensava di accelerare le stabilizzazioni.

Evidentemente ci siamo riusciti per un periodo di tempo, ma ora è necessario metterci in linea con gli standard europei perché l’emergenza occupazione è finita e la liberalizzazione del contratto a termine ha fatto il suo lavoro di dare una spinta alla crescita rapida degli occupati.

Come mostra la differenza tra il numero degli occupati e le ore lavorate (tuttora inferiori del 5% rispetto al 2008) abbiamo ottenuto di più in termini di quantità piuttosto che di qualità.

Occorre migliorare la qualità del lavoro e insistere sul contratto a tempo indeterminato, non dimenticandosi però che il vero problema non sta nelle regole sui contratti di lavoro (che pure aiutano) ma in quel PIL ancora inferiore del 5% rispetto al 2008.

 

 

Articolo già pubblicato sul quaderno dell’AREL dal titolo L’esplosione dei lavori temporanei: fattori ciclici o strutturali? a cura di Carlo Dell’Aringa

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