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Le riforme e il loro partito

Claudio Petruccioli sabato 26 Settembre 2015
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Intervento di apertura della XVI Assemblea di Libertàeguale

Per parlare di partito, oggi, in Italia, è obbligatorio prendere le mosse dal PD; non solo per chi, come noi, lo fa collocandosi a sinistra. Il PD è l’esito dell’unico tentativo consapevole e motivato che si sia consolidato in Italia da quando è esplosa la crisi della politica e dei soggetti politici che avevano tenuto il campo nella seconda metà del secolo scorso.

Ci sono stati anche altri tentativi; nessuno, però presenta la continuità e la leggibilità dell’itinerario che ha condotto al Partito Democratico. Con i suoi limiti e le sue incompiutezze, il PD fa intravedere i caratteri e le modalità di funzionamento di un partito nuovo, inedito, capace di agire in una nuova fase della politica, più matura e produttiva. Se gli altri soggetti politici presenti in Italia, si trovassero ad un livello di evoluzione e definizione paragonabile a quello del Pd, la complessiva situazione nazionale sarebbe senza dubbio migliore.

 La stampa offre, per lo più, altri panorami. L’informazione politica in Italia è oggi uno degli ostacoli maggiori per il formarsi di una opinione pubblica consapevole e responsabile. La cosa più grave è che si  continua a considerare “politica” solo ciò che la politica è stata nella prima repubblica (uso questa espressione solo per definire un periodo di tempo, che va dal 1948, varo della Costituzione, al 1993, referendum che archivia il sistema proporzionale puro): gli occhiali con i quali tanti guardano, sono restati quelli di venti o trent’anni fa. Prendo due articoli usciti sul Corriere della sera in questo mese di settembre, dedicati alla non brillante situazione della sinistra nei vari Paesi d’Europa. In uno ho letto: “Merkel e Renzi, due democristiani” e nell’altro “con la pallidissima eccezione di Parigi e quella, tutta da verificare di Atene (era prima del voto di domenica scorsa), la sinistra non è al governo in nessuna capitale importante” . Eppure i due autori qualcosa sanno della sinistra, visto che sono, nell’ordine Antonio Polito e Paolo Franchi. Mi verrebbe da chiedere al primo se ha mai visto un democristiano che appena diventa segretario di un partito lo fa aderire al PSE, interrompendo uno stucchevole tiro alla fune che durava da anni; e al secondo se per caso non ha ritenuto di lasciar perdere Roma perché non la considera una capitale abbastanza importante, nonostante la squadra di calcio che ne porta il nome.

 Non so quante volte ho letto in articoli di Alfredo Reichlin la frase: Il PD ha bisogno della sinistra; senza la sinistra il PD non può esistere; non ha senso, non ha anima”. Ovvio, si dirà. Ma che cosa intende Reichlin con “sinistra”? Alla lettura non ci sono dubbi: intende la attuale minoranza del PD, cioè quella parte che l’8 dicembre del 2013 ha raccolto il 18% dei voti, andati al candidato Cuperlo. Anche io penso che sia una parte essenziale del PD.

Ma può essere ridotta a questo la sinistra italiana? In quel 18% c’è l’alfa e l’omega, c’è l’anima della sinistra? Può sostenerlo solo chi identifica ancora la sinistra con quel che è stato il Pci, anzi con il nucleo centrale storico del gruppo dirigente del Pci e con i suoi eredi cresimati. Può rispondere sì chi pensa che i parametri di riferimento essenziali, il modo di guardare la realtà, le persone, le cose, la cultura politica che autorizzano a definirsi “sinistra” siano sempre e comunque quelli.

Buona parte del 67% che l’8 dicembre 2013 hanno votato Renzi vengono dalla tradizione del Pci; lo sa benissimo anche Reichlin. Con quel voto cosa sono diventati? Centristi, destri, traditori?

Con questi paraocchi – scusate se sono brusco – non si capisce nulla del PD e di quanto è accaduto nella sinistra italiana nell’ultimo quarto di secolo, di tutto quel che ha preceduto il PD e che ha portato al PD; perché impediscono di percepire l’innovazione politica. Emanuele Fedele, un giovane e valente studioso che Michele Salvati mi ha fatto apprezzare, si è chiesto recentemente sulla Stampa quale sia la narrazione e l’orizzonte in cui si colloca Renzi. Io provo, intanto, a narrare come e perché – secondo me – siamo arrivati dove siamo.

Il PD nasce dal tentativo di rispondere alla crisi della vecchia politica e delle sue forme, di creare le condizioni e trovare le categorie, il pensiero per una politica nuova. Soprattutto esprime l’impegno consapevole per costruire un soggetto politico che in Italia non c’è mai stato: una sinistra di governo.

Con “sinistra di governo” intendo una forza politica che, in una competizione elettorale aperta, riesca a prevalere; che sia capace di governare fino alle successive elezioni; e, di ottenere nella azione di governo risultati tali da rendere possibile la conferma di un mandato popolare maggioritario.

Nella prima repubblica di partiti così non ce ne sono stati. Il Psi dagli anni ’60 ha potuto accedere al governo, ha potuto far parte di coalizioni governative; il Pci si è proposto costantemente lo stesso obiettivo; a metà degli anni ’70 ha compiuto lo sforzo maggiore per raggiungerlo, senza tuttavia riuscirci. Né il Psi né il Pci, però – per motivi che andavano dai loro orientamenti strategici ai limiti del consenso che erano capaci di raccogliere – hanno mai assunto i caratteri di una sinistra di governo nel senso che ho precisato. Anche a causa della situazione internazionale e del modo in cui le forze politiche italiane del tempo si riferivano ad essa; il che è tanto noto e chiaro che posso limitarmi a un semplice appunto promemoria.  Il lavoro per mettere a disposizione dell’Italia e della sua democrazia una sinistra di governo ha preso avvio con la fine della storia politica del Pci. Già prima della caduta del muro, nel novembre del 1987, il proposito fu esplicitamente enunciato. Tale prospettiva comportava necessariamente una riforma del sistema politico-istituzionale; infatti, coloro che la propugnavano con maggior decisione e consapevolezza aderirono al movimento referendario.

Il secondo, importantissimo passo fu compiuto qualche anno dopo, con l’Ulivo. Avrebbe potuto essere il passo decisivo per costruire una nuova forza politica capace di unificare tutti i riformismi e di proporsi come sinistra in grado di raccogliere un consenso maggioritario.

Quel passo fu contrastato e, in sostanza, bloccato; prevalsero quelli secondo cui la politica non poteva avere radici diverse da quelle offerte dai partiti della prima repubblica.

La triste illusione della “seconda vittoria” del 2006 non consentì certo di recuperare il ritardo, anzi accelerò la crisi. I numeri usciti dalle urne erano quelli che erano, e l’Unione non aveva politicamente niente a che fare con l’Ulivo. Da quel fallimento, riprese però forza la spinta per varare il PD.

 Il varo del PD nella forma che conosciamo non fu una scelta scontata. Molti volevano un PD che nascesse con la nomina di un segretario o “reggente” scelto dagli organismi dirigenti dei partiti confluenti o da una assemblea nazionale. Fu la batosta nel turno amministrativo di maggio-giugno 2007 a far accantonare prudenze meschine e preoccupazioni bizantine: il PD doveva nascere subito, e con la più ampia partecipazione e legittimazione popolare. Si andò, così, al voto del 14 ottobre 2007, al quale parteciparono 3.400.000 cittadini e che elesse segretario Veltroni. Il PD, dunque, si costituisce in partito, attraverso la scelta della leadership in un voto aperto a tutti i cittadini interessati.

Dopo la sinistra di governo ecco il secondo asse che sorregge e definisce il  PD: la scelta democratica e diretta della leadership.

 La importanza e il peso decisivo della leadership si manifesta in Italia immediatamente con la crisi della prima repubblica e con  il passaggio ad un sistema elettorale sia pur parzialmente maggioritario; la questione irrompe sulla scena con Berlusconi. Al di fuori delle risorse aziendali (disponibilità finanziarie e organizzative, potenza di comunicazione) sul terreno strettamente politico la leadership è l’unica risorsa di cui egli dispone e che padroneggia.

In due occasioni ne fa un uso spregiudicato ed efficacissimo. La prima, quando “scende in campo” e riesce a unificare due alleanze asimmetriche con la Lega e con AN. Utilizza, così, al meglio le nuove regole elettorali e riesce a prevalere nel voto del 1994. La seconda volta è nel novembre 2007, quando, sul predellino di un’auto a San Babila, nel centro di Milano, proclama la nascita di “un nuovo grande partito: il Popolo delle Libertà”.

In ambedue i casi, ottiene risultati che però non si  consolidano. Il successo elettorale del 1994 sconta, dopo un semestre, la separazione della Lega che sarà, poi, causa della sconfitta del 1996. La invenzione del PDL in risposta al PD agevola, sì, la vittoria del 2008 ma non regge alla prova. Alla separazione immediata di Casini si aggiunge la violenta rottura con Fini nel 2010.

Tali esperienze dimostrano la forza e i limiti della leadership nel rinnovamento della politica. Senza una leadership visibile e capace non si ottengono risultati; ma se si punta solo sulla leadership non si risolvono i problemi aperti in modo stabile e durevole, in particolare quelli che riguardano la struttura delle organizzazioni politiche. A sinistra, inizialmente, il tema della leadership non è stato coltivato, ed è stato perfino demonizzato; non vuol dire, però, che non sia stato avvertito e non abbia prodotto conseguenze. Potremmo risalire perfino al duello D’Alema- Veltroni per la successione a Occhetto. Già in quella occasione  ci furono alcuni – uno è chi vi parla – che ipotizzarono una elezione diretta da parte di tutti gli iscritti.

La questione della leadership ha poi influenzato tutta la vicenda dell’Ulivo; in particolare la fine del governo Prodi nell’ottobre 1998, con tutto quel che ne è seguito: il governo D’Alema, poi quello Amato, infine la decisione di accantonare, per le elezioni del 2001 tutti e tre i premier della “legislatura dell’Ulivo”. Un vero e proprio harakiri. L’opzione “ulivista” e l’opzione “partitica” comportarono un duro scontro per la leadership, che finì con l’essere distruttivo per tutti coloro che vi furono coinvolti. Accade così quando non si riconosce la portata politica e strategica di una questione e ci si rifiuta – o non si è capaci – di affrontarla in modo aperto.

 Nel 2007, l’investitura del segretario del PD avvenne con la stessa modalità che, due anni prima, aveva sancito la candidatura di Prodi a premier. Anche il numero dei partecipanti al voto non fu molto diverso. Da questa “pari dignità” derivava (e derivò) una inevitabile diarchia. La convulsa fase finale di quella legislatura, interrotta dopo appena due anni, non fu dovuta solo a questa irrisolta questione; ma se ne avvertì il peso.

Penso che anche per questo motivo – oltre che per la consapevole riflessione di alcuni, fra i quali noi possiamo tranquillamente annoverarci – al momento di elaborare lo Statuto si affermò la coincidenza fra segretario del partito e candidato premier.

La leadership non è più uno degli argomenti estranei ai compiti e ai caratteri della sinistra.

 

*** “Verum et factum convertuntur” dice Giovan Battista Vico. Il momento nel quale il PD ha reso evidente la sua novità è stato l’8 dicembre 2013. Non perché abbia vinto Renzi, ma perché in quella occasione la leadership non è stata investita più o meno plebiscitariamente, come era avvenuto fin lì, dopo essere stata decisa dall’accordo nella oligarchia. Si è trattato, invece, di una scelta davvero aperta, non predeterminata, di una competizione effettiva fra candidati ai quali corrispondevano diverse posizioni politiche, culturali, perfino psicologiche, ben comprensibili perché ben delineate e ben interpretate dai due competitori.

Sia pure in ritardo, e dopo rovesci e traversie, è stato messo alla prova dei fatti il nucleo della costituzione del PD, che non è solo la scelta democratica della leadership ma il fatto che essa sia l’esito di una contesa vera e aperta, che sia cioè davvero contendibile.

Solo un partito che ponga la democrazia a fondamento della sua esistenza, che veda nella democrazia la risorsa essenziale cui far ricorso per trovare risposta ai problemi di ogni tipo che deve affrontare, può dare alla questione cruciale della leadership la soluzione basata sulla contendibilità.

 

*** Lo Statuto del PD stabilisce principi chiari e precisi: la scelta del segretario riassume la scelta della linea politica che sarà seguita fino al congresso successivo; il segretario è candidato premier nella competizione elettorale per il governo, gli iscritti hanno il potere di “legittimare” le candidature a segretario attraverso la raccolta delle firme, e poi nella prima selezione a loro riservata, dalla quale usciranno i tre candidati che si confronteranno nella fase finale. Nel round decisivo il potere di elezione del segretario e della Assemblea nazionale passa a tutti coloro “che dichiarino di riconoscersi nella proposta politica del partito, di sostenerlo alle elezioni, e accettino di essere registrati nell’albo pubblico delle elettrici e degli elettori”.

Questi principi non determinano solo la scelta del segretario; indicano con sufficiente precisione tanto il modello di partito quanto le coordinate essenziali del sistema politico istituzionale nel quale un partito con questi caratteri si propone di agire. Se si avesse la buona fede di riconoscerlo, gran parte delle dispute odierne si scioglierebbero come neve al sole.

Quando mi imbatto in polemiche e recriminazioni, denunce più o meno esasperate, mi domando dove stavano coloro che le esprimono quando lo Statuto è stato elaborato, discusso, infine approvato. Non penso che non capissero; penso, invece, fossero convinti che poco o nulla, comunque, sarebbe cambiato; per presunzione burocratica e per l’antico vizio sostanzialistico secondo cui le norme, alla fine, non sono mai decisive.

 

*** Negli ultimi venticinque anni, da quando il Pci ha ufficialmente  concluso la sua vicenda, di strada ne è stata fatta, di innovazione a sinistra se n’è prodotta. Non è stato un brancolar nel buio, un buio sempre più fitto man mano che ci allontanava dalla sorgente della luce. Il PD non è un’invenzione, e neppure un caso: è l’esito di una dura, durissima lotta politica, culturale e ideale che ha impegnato negli ultimi venti anni tutta la sinistra italiana. C’è stato un pensiero che ha dato senso alla ricerca, che non ha avuto paura di riconoscere e dire che la sinistra deve essere diversa da quella storicamente conosciuta nel secolo scorso.

Io penso che il PD sia il partito della sinistra di oggi e di domani :

una sinistra diversa da quella di cinquant’anni fa; perché agisce in una realtà diversa, perché ha a che fare con problemi diversi e – anche – perché si propone di svolgere una funzione essenziale per la democrazia e la nazione, che l’altra sinistra, quella della tradizione, non ha mai esercitato e neppure tentato: governare raccogliendo il consenso della maggioranza dei cittadini elettori, con quella che abbiamo chiamato “vocazione maggioritaria”.

 

*** Un partito del genere non coltiva, anzi rifiuta una visione di antagonismo e contrapposizione sistemica, per cui governare in questo “sistema “ sarebbe  un inganno, una illusione, infine un tradimento delle ragioni stesse della sinistra. Non abbandona certo l’orizzonte, la speranza della libertà, dell’eguaglianza della solidarietà che milioni e milioni per generazioni hanno fatto coincidere con  un futuro sistema definito “socialismo”;  e neppure si adatta al sistema attuale definito “capitalismo”. Il rifiuto di cui parlo riguarda la logica stessa che si attarda a ragionare e catalogare in termini di sistema  sia la realtà attuale sia le mete di miglioramento e di emancipazione che la sinistra si propone. La logica sistemica ingessa la sinistra (e, ne sono convinto, anche il pensiero in generale) la blocca entro aporie che la storia ha dimostrato senza uscita e catastrofiche. Il rifiuto della logica sistemica, di una logica chiusa, non solo non attenua, ma acuisce le capacità critiche  nei confronti della realtà data; alimenta e rafforza la responsabilità di perseguire e realizzare cambiamenti, miglioramenti, riforme

 

Il PD è oggi il luogo, la sede, il territorio della sinistra di governo; vale a dire di tutta la sinistra tranne quella che – finché c’è un “sistema” capitalistico – considera il governare incompatibile con la funzione storica della sinistra stessa. Tutte, tutte le posizioni culturali e politiche della sinistra che non si chiudano in questa insensata pregiudiziale, hanno la loro casa naturale nel PD. Nessuna può considerarsi sacrificata, esclusa o emarginata; in quanto, come si è statuito e come si è dimostrato nei fatti, in questo partito la leadership, e con la leadership il programma e la linea politica sono effettivamente contendibili, e sono affidati alla decisione libera di milioni di persone. Penso, dunque, che da questo luogo, da questo territorio, nessuno che  abbia in testa una sinistra di governo recederà. E saranno invece molti quelli che, oggi incerti e perplessi, potranno entrarvi.

Si possono considerare una data leadership e la sua politica le peggiori possibili. Ma se chi lo pensa sta nel PD perché convinto che la sinistra debba essere “sinistra di governo” ha una sola cosa da fare; cercare di conquistare – con le attuali procedure democratiche – la guida del partito e – nel caso di vittoria elettorale – la leadership del governo.  Tirando il filo del partito, arriviamo a una matassa che bisogna considerare e sbrogliare tutta insieme. Non si definirà mai con chiarezza un partito se non in riferimento a un preciso quadro politico istituzionale, ad un assetto complessivo.

Abbiamo visto l’importanza che ha la questione della leadership, almeno nel periodo che stiamo vivendo. C’è un’altra scelta strategica alla quale è impossibile sfuggire: si ritiene preferibile, più produttivo, un quadro politico-istituzionale modellato sulla democrazia competitiva o è migliore quello modellato sulla democrazia consociativa?

  Se guardiamo all’intera storia dell’Italia Unita solo nell’ultimo ventennio la democrazia competitiva si è manifestata, sia pure in forme imperfette e nevrotiche; e sono cinque anni che i governi non si formano e non si reggono sui principi che la caratterizzano.

Certo, c’è stata e perdura la grande crisi economica esplosa nel 2008 e si è dovuto fronteggiarla.. Ma non è questo il motivo essenziale per cui abbiamo avuto maggioranze bipartisan. Il motivo vero è che i due poli non hanno retto alla prova del governo quando questa si è fatta stringente. Il problema italiano non è una presunta incompatibilità della realtà sociale e culturale o l’idiosincrasia dell’elettorato per il bipolarismo. Il problema vero è la difficoltà politica di costruire due poli sufficientemente coesi e sufficientemente capienti da poter raccogliere un consenso maggioritario e da reggere alla responsabilità del governare.

Il successo di M5S non modifica di per sé il quadro. Il M5S raccoglie infatti esattamente gli elettori insoddisfatti dei due soggetti che dovrebbero sostenere la competizione per il governo e assicurare che sia virtuosa. M5S non è un “terzo polo” che rompe il bipolarismo: sarebbe così  se oltre al consenso consistente avesse un potere di coalizione e lo esercitasse nei confronti di almeno uno se non di entrambi gli altri soggetti politici presenti. Ma il M5S non vuole fare alcuna alleanza; pensa di governare quando avrà una maggioranza assoluta e gli altri saranno sprofondati nella rovina. Come tutti i partiti “antisistema” si può dire che abbia una “vocazione totalitaria”. Non è detto che resti sempre così, ma per ora è così.

E’ nella logica della democrazia competitiva che si dia vita – in casi eccezionali – a convergenze generali o a “grandi coalizioni”. Accade quando si devono fare cose che ambedue gli schieramenti considerano necessarie, per cui uniscono le forze. In Italia, invece (vedi l’esperienza del governo Monti) le “larghe intese” si manifestano quando si devono fare cose che i due protagonisti non sono capaci di fare da soli o che non vogliono davvero fare. Solo una sana distinzione, propria della democrazia competitiva, consente  periodi eccezionali di collaborazione senza che le “larghe intese” rischino di diventare un nuovo tipo di sistema politico ripetitivo e asfittico. Popper diceva che la democrazia è il modo per sostituire i governanti senza far ricorso alla violenza. Con le larghe intese elevate a sistema – e anche con la democrazia consociativa – i governanti non si sostituiscono. L’affermazione di Popper verrebbe, così, falsificata. Si eliminerebbero i rischi di violenza; ma anche la democrazia non ne uscirebbe bene.

 

*** La democrazia competitiva induce a politiche coerenti e dinamiche, mentre la democrazia consociativa produce composizioni degli interessi che hanno come esito la staticità di stampo corporativo.

E’ la democrazia competitiva che consente al riformismo di vivere, di avere coscienza di sé. Non dico che se non c’è democrazia competitiva non può esserci riformismo. Ma in una democrazia consociativa il riformismo sarà sempre in sedicesimo. Un riformismo  è adulto se c’è la possibilità di misurare la realizzazione dei suoi impegni, degli obiettivi che ha dichiarato. Questo è possibile solo in una democrazia competitiva; in una democrazia consociativa, la giustificazione è sempre a portata di mano: “Volevo, ma gli altri me lo hanno impedito”. Una sinistra che voglia essere maggioritaria in una democrazia competitiva deve acquistare elettori, rappresentare interessi, soddisfare attese che in una democrazia consociativa la sinistra lascia, direi “delega” al centro anche quando se ne riconosce l’importanza e il valore. Per questi motivi, ad esempio il Pci sosteneva la possibilità di una collaborazione di governo con la Dc fino alle soglie del socialismo e anche oltre. Ma è appunto questo il rinnovamento della sinistra che andiamo perseguendo da quando è finita la storia del Pci, ciò che fa nuova la sinistra che tentiamo di costruire; una sinistra che si riappropri di quella delega e di tutte quelle motivate solo da rigidità ideologiche. Forse non è necessario ricorrere al termine centrosinistra che mi sembra mantenga in vita l’idea di una sinistra minoritaria per definizione. Si tratta probabilmente di una mia personale ed eccessiva sensibilità linguistica. Mi perdonerete se non ho resistito alla tentazione di esporla.

 Ho concentrato l’attenzione sulla democrazia competitiva, e posso aver dato l’impressione di ridurre a questo tutto il problema. Non è così. Ho affrontato solo con più attenzione il versante della conquista della maggioranza e dell’esercizio delle funzioni di governo; ma la crisi della politica che stiamo attraversando crea grandi difficoltà su tutti i versanti della politica stessa: senza dubbio su quello della governabilità, ma anche su quello della rappresentanza.

La rappresentanza è in seria sofferenza: sia ai confini superiori dello Stato nazionale, cioè – in Europa – nei rapporti con l’Unione, sia ai confini inferiori, dove lo Stato si innesta nella società civile e incontra tutta la ricchissima realtà delle organizzazioni sociali di ogni tipo, dei “corpi intermedi” per dirla con De Rita.

La politica democratica ha bisogno non solo di istituzioni funzionali, ma anche di questa rete di organizzazioni sociali, che fanno vivere il pluralismo e la partecipazione; che rendono più produttiva la comunicazione e lo scambio fra società e Stato, fra Stato e società. Quando siamo immersi in una crisi e in trasformazioni come quelle attuali, è necessario che la capacità di progettare e mettere in atto l’innovazione si manifesti su tutti i versanti.

Vale per la governabilità, come vale per la rappresentanza. E’ stupido l’atteggiamento di chi, di fronte a una governabilità che cerca di diventare più efficace con nuove procedure e forme istituzionali, si schiera a difesa delle vecchie forme e istituzioni della rappresentanza; se ne devono cercare, invece, di nuove ed efficaci; efficaci perché nuove.

E’ ridicolo e colpevole l’atteggiamento di dirigenti e apparati delle organizzazioni sociali, a cominciare dai sindacati, i quali si rendono conto di perdere seguito e prestigio, nel rapporto con la società prima ancora che con lo Stato; ma non riconoscono che questa è la conseguenza innanzitutto del loro conservatorismo, della loro presunzione burocratica, della loro incapacità a rinnovarsi.

I sindacati, le organizzazioni sociali, i corpi intermedi sono necessari alla democrazia, alla politica democratica; le arricchiscono. Ma anche per loro vale la regola che la crisi della vecchia politica impone a tutti: se vuoi far bene la tua parte, se vuoi rispetto e riconoscimento, devi saperti rinnovare. Da almeno un quarto di secolo, dalla fine della prima repubblica, sono in campo due ipotesi: si confrontano, anzi si combattono in modo anche molto duro. Le riassumo per coppie antitetiche

A – Sinistra di governo (vocazione maggioritaria)    >  Sinistra al governo in coalizioni (una sinistra che punta ad essere maggioritaria si snatura)

B – Leadership contendibile con scelta affidata al voto popolare   >     collegialità oligarchica per garantire la continuità

C – democrazia competitiva con decisione agli elettori     >  democrazia consociativa a intermediazione partitica.

L’allineamento fra sinistra di governo, vocazione maggioritaria, leadership contendibile e democrazia competitiva, configurerebbe in Italia una vera e propria grande riforma della politica e delle istituzioni; aprirebbe le porte alla possibilità di affermarsi, nel nostro Paese di una nuova coscienza e responsabilità civiche. Il partito per le riforme scaturisce e può essere pienamente operativo se si verifica questo allineamento; che, però, in tutto questo tempo, non si è mai verificato; il cerchio non si è mai chiuso; anche se, su questa strada, ci sono state avanzate e perfino vittorie (i referendum, l’Ulivo, la nascita del PD).  Gli avversari, spesso con spirito assolutamente ostile, sono sempre riusciti a impedire l’allineamento. Sono stati favoriti dal fatto che basta loro bloccare l’innovazione e affidarsi all’inerzia; è il vantaggio che sempre i conservatori hanno sui riformisti.

Dobbiamo, però, riconoscere loro determinazione e abilità nello scegliere i punti sui quali aprire o tenere aperte delle brecce; a dimostrazione che anch’essi sono consapevoli della portata e delle conseguenze della contesa. Inizialmente si sono arroccati sulla quota proporzionale; c’è stata poi la caduta di Prodi e l’archiviazione dell’Ulivo in nome  della “padronanza” dei partiti sul governo; seguita dal boicottaggio del referendum del 1999 sulla abolizione della quota proporzionale, decisivo ancorché ottenuto per un pugno di voti e per una opinabile utilizzazione della legge sul voto degli italiani all’estero. Potrei aggiungere altri esempi, ma questi bastano.

 Adesso, dopo l’8 dicembre 2013, la possibilità di raggiungere l’allineamento riformista si è fatta più concreta, per la semplice ragione che la contendibilità della leadership è passata dal cielo delle ipotesi alla realtà dei fatti ed è stata direttamente sperimentata da milioni di persone.

Renzi, da parte sua, ha mostrato fin qui di capire la connessione fra i diversi livelli (partito, governo, sistema istituzionale) ed ha saputo tener fermi i punti sostanziali, sia sulla legge elettorale, sia sul superamento del bicameralismo e la riforma costituzionale. Spero continui così.

Per la prima volta, da vent’anni in qua, è possibile l’allineamento che configura – come ho detto – una grande riforma.

Per questo motivo l’ostilità è senza limiti e l’opposizione senza remore. I gruppi di potere, convinti fino a poco tempo fa di controllare la situazione e, comunque, di poter avere voce in capitolo vita natural durante, si rendono conto che, se si realizza l’allineamento, non potranno più contare su una tranquilla supremazia .

Non so come finirà. Troppe altre volte i paladini del continuismo sono riusciti a prevalere, e oggi sono mossi dalla determinazione assoluta di chi si batte per la sopravvivenza. So, però, che non siamo mai stati così vicini al vedere realizzarsi obiettivi che perseguiamo con tenacia da molto, molto tempo.

Temo, a questo punto, di dovermi scusare con Enrico Morando. Sul sito di LibertàEguale lui ha presentato l’incontro di oggi e ha scritto: “A noi piacciono più le politiche che la politica”. Io, però, fin qui, ho parlato più di “politica” che di “politiche”. Cercherò, in questa ultima parte, di rimediare.

Si può avere della politica una concezione tale per cui solo il partito può elaborarla in modo compiuto e poi farla “calare” sulla società. Solo così, la società, di per sé informe, dispersa, inconsapevole, acquisterebbe coscienza, capirebbe le dinamiche da cui è attraversata, potrebbe proporsi obiettivi e agire per raggiungerli. Nel movimento operaio una corrente ha applicato questa concezione anche al rapporto fra partito e classe operaia, nonostante questa fosse la classe rivoluzionaria per definizione. Anche lì la coscienza arrivava da fuori, altrimenti la povera classe era inchiodata al tradeunionismo.

La questione non riguarda solo la sinistra; nel secolo scorso concezioni dello stesso tipo hanno dominato largamente la cultura e le esperienze se non altro europee; e non solo nelle versioni totalitarie.

Oggi lo sviluppo inaudito dell’informazione e della comunicazione, livelli più alti di istruzione e di reddito, la diffusione di istituzioni e principi democratici e anche il nostro modo di guardare e pensare  rendono possibile una concezione diversa della politica; anziché “inoculare” la politica nella società possiamo proporci di “estrarre” la politica dalla società.

Il 12 novembre 2013, nel corso della campagna congressuale che si sarebbe conclusa l’8 dicembre,  Europa pubblicò uno scritto di Enrico Morando con il titolo “Il nuovo PD in 10 punti” Il primo suona così: “ Il partito è un mezzo, non un fine. Il fine è cambiare l’Italia, secondo i principi di libertà, eguaglianza e solidarietà. Il PD è lo strumento, che va cambiato dalle fondamenta, per renderlo coerente con questo scopo”. Parole diverse, ma il concetto è identico. Alle due concezioni della politica corrispondono modelli di organizzazione molto diversi; nel primo avremo un modello pedagogico, propagandistico, gerarchico e identitario; nel secondo l’organizzazione si proporrà di coltivare, stimolare, raccogliere e valorizzare quel che la società offre.

La concezione della politica cui si ispira il PD deve necessariamente essere del secondo tipo; altrimenti non potrebbe neppure definirsi democratico.

Anche quella del partito deve essere una delle “politiche” seguite in permanenza, elaborate, verificate, attuate, modificate con continuità.

Per quel che riguarda i rami alti, la scelta della leadership o lo svolgimento del congresso che dir si voglia, l’assetto attuale è il migliore; qualunque cambiamento non potrebbe che peggiorare il quadro. Si deve, dunque, vigilare e contrastare tentativi regressivi che non si possono escludere.

 Sul resto, la ricerca è aperta. Ci sono condizioni che consentono di strutturare e far vivere l’organizzazione con una libertà di sperimentazione e di iniziativa preclusa ai modelli tradizionali di partito.

Il fatto stesso che la scelta più importante, quella della leadership e del connesso indirizzo politico, sia affidata ad una platea più ampia e diversa da quella degli iscritti al partito libera l’organizzazione e da un onere fortemente condizionante. Non costituire più la base della piramide di potere che culmina con il vertice (“gruppo dirigente” e/o leadership) permette molta più libertà di iniziativa. Consente, fra l’altro, di prevedere forme di associazione al partito non “convenzionali”; per esempio non solo individuali ma anche collettive, legate a particolari obiettivi o campagne, compatibili anche con l’adesione ad altre realtà organizzate; ecc.  

Insomma, gli iscritti e le organizzazioni non sono vincolati da preoccupazioni di potere che, almeno per quanto riguarda il vertice nazionale, sono affrontate in una dimensione e su scala diverse. Per le scelte locali, come dirò fra poco, è tutt’altra musica.

 Ad accrescere gli spazi di iniziativa e i margini di creatività degli iscritti e delle organizzazioni di base possono contribuire anche le modifiche in corso nelle istituzioni statuali: mi riferisco alla abolizione delle province, alla costituzione delle città metropolitane e alle altre variazioni che potranno seguire. E’ d’obbligo, citare qui le nuove modalità di finanziamento volontario dei partiti, con lo straordinario risultato registrato dal PD; un fatto ricco di insegnamenti.

Non si può affatto escludere che, in base a comuni obiettivi amministrativi, di governo o di riforma, per valorizzare particolari attività o risorse, per tutelare comuni interessi, prendano corpo aggregazioni territoriali subprovinciali o infraprovinciali, stabili o transitorie; che vivono, cioè fino a quando l’obiettivo su cui si costituiscono non sia stato raggiunto o abbia perso di importanza.

E’ anche possibile che aree di iscritti e di organizzazioni di base possano essere interessate a più di una di queste aggregazioni, e decidano perciò coinvolgimenti plurimi.

L’elasticità e varietà delle esperienze non presenta controindicazioni, dal momento che  non c’è da controllare ai fini del congresso nazionale l’esercizio di voto dell’iscritto (ricordo la confusione, e anche le furbate quando, nel passaggio dal Pci al Pds, si costituirono, accanto alle organizzazioni territoriali, le cosiddette “aree tematiche”).

E’ un potenziale  per uno sviluppo ricchissimo della organizzazione che ha indotto a usare l’espressione “partito federale multilivello”.

 L’unificazione politica di questo partito – l’ho detto – è brillantemente risolta a livello nazionale con la elezione popolare diretta della leadership. A livello locale, invece, il problema non è affatto risolto. E’ la carenza più grave con cui il PD deve misurarsi.

L’esperienza insegna che il modello nazionale di unificazione politica non può essere traferito automaticamente a livello regionale; e comunque, a quel livello non funziona, non ha gli stessi effetti virtuosi che si riscontrano nazionalmente.

A livello regionale la conoscenza dei candidati è assai minore, e minore l’interesse e il coinvolgimento dell’opinione pubblica e dell’elettorato. Si supplisce, allora, con i comportamenti di gruppo, con le cordate se non peggio e le logiche di potere prendono il sopravvento.

Ci vuole molta fantasia e anche spregiudicatezza già nel formulare le domande. Per esempio: “La leadership, la cui necessità a livello nazionale è evidente e dimostrata, ha senso a livello regionale e territoriale? La articolazione autonomistico-federale dello Stato italiano prevede un decentramento di poteri tale da giustificare la competizione locale come gara per la leadership o sposta invece l’accento sulla dimensione amministrativa? E la dimensione amministrativa per essere efficace deve avere una traduzione monocratica o spinge invece verso forme plurime, per cui più che un leader è importante una squadra?” Forse ci sono da rivedere anche norme statutarie. Un solo esempio: il comma 6 dell’art.18 prevede che per le primarie a Sindaco, Presidente di Provincia (questo ormai non c’è più) e Presidente di Regione, siano esse di partito o di coalizione valga la maggioranza relativa. Non sarebbe meglio prevedere un ballottaggio risolutivo? Si potrebbe continuare; ma mi fermo. Non risolverò certo io questo problema; lo segnalo come uno dei più difficili e urgenti.

 In una nota su LibertàEguale Alberto Bitonti ripropone una domanda di uno studioso inglese: quali lezioni i partiti politici possono imparare dalle startup? La risposta è: diventare organizzazioni indispensabili. Per un partito non userei questo aggettivo: se qualcosa è indispensabile, risulta anche obbligatorio, vincolante. Il che contrasta, a mio avviso, con il carattere libero e aperto della politica democratica.

Bitonti, però, specifica e parla di “attirare i migliori talenti verso gli incarichi politici e pubblici” di “fare in modo che valori e interessi diversi definiscano le proprie proposte in termini di policy”. Assumo questi stimoli, più che giusti, per concludere con due esempi.

Il primo sul Programma. Nel 7 punto del già citato decalogo morandiano si dice che “la organizzazione del PD a livello nazionale si incentrerà su due strutture essenziali, una delle quali è l’Ufficio del programma, che utilizza le migliori competenze di cui il partito dispone, per studiare la realtà e avanzare proposte”.

Una struttura del genere deve certamente esserci; io credo, però, che l’elaborazione programmatica debba e possa coinvolgere più ampiamente l’organizzazione nel suo complesso.

Se la politica più che inoculare soluzioni e obiettivi nella società deve coltivare la società stessa per estrarne quello che fermenta e matura, allora si dovrà pensare, anche per il Programma, a qualcosa che è soprattutto un sistema di relazioni: fra persone, senza dubbio, ma anche fra nuclei e centri, dove si riflette, si studia, si approfondisce  e anche dove si conducono le esperienze più varie, da quelle lavorative a quelle del volontariato.

Il lavoro  sul Programma deve essere una attività permanente e diffusa che impegna tutta l’organizzazione del PD, ed è capace di coinvolgere persone e strutture che non fanno parte del partito.

Sarebbe sbagliato sottovalutare l’importanza anche di momenti di popolarizzazione e di diffusione; come è stata ad esempio la Leopolda o come possono essere questi nostri appuntamenti. Significano pur qualcosa – oltre l’aspetto promozionale e turistico – i tanti festival (dall’etica all’economia, dalla politica alla letteratura ecc. ecc.) che, in particolare nella stagione estiva raccolgono migliaia di persone. E non sarà un caso se la forma del dibattito di qualità fra personaggi noti, che ha caratterizzato la stagione migliore delle feste de l’Unità, è diventato un format cui, in giro per l’Italia, un giornale come Repubblica affida il proprio prestigio e la propria popolarità.

Ce n’è da fare, su questo fronte. Inutile ricordare come i mezzi e le tecniche di comunicazione oggi disponibili possano agevolare e indirizzare questo lavoro.  Visto il parallelo da cui abbiamo preso le mosse – mi viene da chiedere: qual è il core business, il fatturato di una organizzazione politica, di una organizzazione di partito?

E’, a mio avviso, la promozione, la valorizzazione, l’arricchimento delle relazioni fra le persone. La politica, la politica democratica, nasce e vive innanzitutto di relazioni libere e consapevoli fra persone. Una organizzazione di partito sarà tanto più solida e produttiva quanto più numerose saranno le relazioni che riesce a stimolare e a strutturare, a renderle stabili e permanenti; un partito sarà tanto più utile e influente quanto più ricche saranno le relazioni fra i suoi iscritti, quanto più spesso queste relazioni saranno finalizzate alla promozione di fatti ed eventi o al raggiungimento di risultati e obiettivi che gli iscritti stessi apprezzano, cui attribuiscono valore.

Se posso indicare un motivo per cui ci si debba iscrivere al PD e non accontentarsi di restare elettore delle primarie, è esattamente questa: gli iscritti accedono alla possibilità di “relazioni organizzate e finalizzate”. Il vasto popolo che partecipa alla scelta della leadership può e deve essere coinvolto anche in altre circostanze, ma lo sarà sempre nella forma elettorale. L’iscritto dispone di un di più: la attività attraverso le relazioni organizzate con gli altri iscritti.

 Infine, l’organizzazione e le riforme; nel senso delle cose specifiche che si possono fare per agire direttamente sul terreno delle riforme. Non mi soffermo sull’ovvio: la iniziativa per far conoscere e discutere i contenuti effettivi delle riforme, le motivazioni che le sostengono è un compito essenziale e permanente di un partito “sinistra di governo” e “per le riforme”. E’ una battaglia non solo propagandistica, ma per una corretta informazione, per una libera e documentata discussione, contro la demagogia e l’oscurantismo.

Se misuriamo la capacità attuale delle organizzazioni del PD di agire su questo terreno in base all’ampiezza e all’efficacia con cui si sono mosse  sul jobs act o sulla riforma scolastica, non ne risulta un quadro soddisfacente. Tuttavia, è un ritardo che non sorprende. Le organizzazioni consolidate, che possono farsi sentire su questi temi sono quelle storiche sindacali modellate sulla difesa strenua dello status quo. Per sviluppare un contrasto efficace si deve cumulare una forza e una determinazione che almeno le pareggi.

 L’azione di un governo riformista offre una straordinaria occasione per costruire e radicare forme di organizzazione funzionali alle riforme. Le riforme non si limitano al momento della elaborazione e a quello della approvazione. Il momento più importante e complesso è sempre quello della loro attuazione. Ecco, allora, cosa fare ; per il jobs act, per la riforma scolastica, per quella della Pubblica amministrazione (ma anche per la spending review o la riorganizzazione dei servizi pubblici locali) si devono aggregare gli iscritti che vivono e sperimentano la attuazione di quelle riforme, per difendere e sostenere quanto di buono quelle riforme possono dare, ma anche per segnalare, mettere in luce, loro per primi , quello che eventualmente non funzionasse; per monitorare, implementare e aggiustare le riforme soprattutto in fase di attuazione con la precisione e l’attenzione che solo l’esperienza diretta può dare. Si potrebbero, a tal fine, promuovere vere e proprie campagne; per esempio per raccogliere in questo inizio d’anno nuclei di iscritti PD nelle scuole. Anche forme tradizionali possono tornare in auge.

Alcune organizzazioni possono assumere una particolare responsabilità nella fase di elaborazione e definizione di obiettivi di riforma, siano essi a base territoriale o meno; per metterle a punto nel modo migliore e per sollecitarne l’approvazione.

Sono esempi piuttosto banali. Mi servono soprattutto per formulare un invito: coltivare, sviluppare, non lasciare mai cadere la “immaginazione organizzativa” senza la quale nessuna organizzazione vive e – soprattutto – non si rinnova.

 

*** Non ho parlato dell’Europa, dimensione ineliminabile oggi, si tratti di sinistra, di riforme istituzionali o di innovazioni politiche. Io, qui, non posso affrontare il tema, per deficit di competenza prima ancora che per carenza di tempo.

Basti pensare che Fabbrini ha giustamente lanciato l’allarme per il rischio che proprio a livello Europeo si determini una scissione fra democrazia e statualità, fra democrazia e potere. Aprire il capitolo europeo impone di affrontare la crisi del PSE e di molti partiti che fanno capo all’Internazionale socialista. D’altro canto, anche la realtà del PPE non è certo rosea, come dimostra lo sparpagliamento politico delle formazioni italiane che al PPE fanno capo. Penso che dovremmo arricchire la nostra attività anche con una l’apertura a contatti e confronti internazionali.

Il processo di costruzione dell’Europa è sempre stato faticoso e tortuoso; oggi lo è ancora di più, anche per deficit di leadership. Ma il cammino di un progressivo affermarsi della dimensione politica dell’unione e di un arricchimento della democraticità delle sedi di decisione è tracciato da tempo nella sinistra italiana, da Spinelli, ad Amendola, ad Amato. Non è una “alternativa visionaria” come vorrebbe Folli, ma è un cammino chiaro, sia pure difficilissmo da compiere.

 

*** Il 14 settembre  1998 ci riunivamo per la prima volta a Orvieto, in questa sala, allora da poco restaurata. Lo facevamo sotto la sigla “La Quercia e l’Ulivo”, in quel momento ancora significativa e praticabile; di  lì a non molto la sostituiremo con quella di “LibertàEguale”. Il tema era “Un progetto democratico per la sinistra”. La relazione la feci io: leggo la frase conclusiva:

“Senza alcuna presunzione siamo convinti di poter contribuire alla messa a punto e alla realizzazione di un incisivo e duraturo progetto democratico per la sinistra: una sinistra che affida alla crescita della democrazia, alla diffusione della politica, alla padronanza che ne hanno i cittadini la sua forza e le sue sorti”.

L’ultimo dei comandamenti del “Decalogo per il PD” di Enrico recita: “L’identità democratica è la più forte e inclusiva fra quelle che animano il campo del centrosinistra nel mondo. Essa è autonoma e originale rispetto alle concluse esperienze del riformismo italiano del novecento. Per questo è tempo che i democratici smettano di definirsi in rapporto alle loro precedenti esperienze ed identità politiche. Non sono ex. Semplicemente, sono i Democratici”

E’ il 18° anno che ci ritroviamo qui a Orvieto (2 come “La quercia e l’Ulivo” gli altri come “LibertàEguale”). Siamo diventati maggiorenni. Anche io, adulto nel Pci (nel 1991 al varo del Pds avevo cinquant’anni) sono diventato maggiorenne con voi. Come vedete, adulto più maggiorenne uguale a vecchio. Ma è un buon modo di invecchiare.

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