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Caro Reichlin, l’identità del Pd è definita dalle sue azioni

Dario Parrini venerdì 25 Settembre 2015
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Alla base del corrente dibattito  sull’identità del Pd ci sono domande che non possono essere eluse. Ad esempio: come stabiliamo se, e quanto, un partito esprime un’identità di sinistra? Contano soprattutto i propositi che esso enuncia? O contano soprattutto gli effetti concreti delle azioni che mette in campo?

Io penso che essere di sinistra voglia dire “fare” cose che incrementino la crescita economica e le condizioni di vita di una larga maggioranza di cittadini; “fare” cose capaci di diminuire le disuguaglianze e la povertà e tali da incentivare le imprese a investire di più e ad accrescere l’occupazione.

Non è molto di sinistra formulare progetti altisonanti senza riuscire a raccogliere i consensi sufficienti a concretizzarli. Né è molto di sinistra arrivare al governo con un programma che, sottoposto alla prova dei fatti, si rivela non attuabile o controproducente. Dovremmo essere orgogliosi di dire chiaro e forte, senza fumosità, che il realismo è una virtù, e che per “fare” cose di sinistra è indispensabile vincere le elezioni e conquistare una solida e stabile posizione di governo. Dovremmo francamente ricordare che un programma entusiasmante ma elettoralmente perdente non fa diventare più di sinistra la nostra società.

Se è vero che un partito è definito non tanto dalla magniloquenza dei suoi dirigenti, quanto dai risultati effettivi delle sue politiche, è difficile non condividere il saggio di Michele Salvati sul Pd criticato nei giorni scorsi da Alfredo Reichlin.  Da un punto di vista di sinistra, le riforme del governo Renzi sono giuste perché misure come gli 80 euro, il taglia-Irap e il Jobs Act stanno stimolando la crescita, l’occupazione e la riduzione delle disuguaglianze nel mercato del lavoro.

Certo, ci vorrà un po’ di tempo perché dispieghino in pieno i loro effetti. Ma rappresentano una svolta importante. Di riforme così l’Italia ha un vitale bisogno. Pertanto guai ad abbandonarsi a tentazioni compromissorie o difensivistiche. Fermarsi sulla strada del cambiamento sarebbe sbagliato. Un lungo periodo di riforme, aggiunge Salvati, può essere solo il frutto dell’iniziativa di un partito aperto, fondato su un pluralismo interno non consociativo ma competitivo. Un partito di governo che sia dotato, nella sua azione, della forza che gli deriva dalla capacità di essere riferimento coerente e credibile per una maggioranza necessariamente variegata di elettori. Un partito siffatto è un partito a vocazione maggioritaria. È la forza politica che realizza l’unità dei riformismi italiani e “fa” l’interesse generale del Paese orientandosi nel senso dell’equità, dell’efficienza e dello sviluppo.

Vorrei rassicurare Alfredo Reichlin: un partito riformista a vocazione maggioritaria non ha niente a che vedere con un partito trasformista. Senz’altro è incompatibile con il massimalismo e il minoritarismo. Ma del pari è un partito in cui, come ha più volte ricordato Pietro Reichlin, può e deve realizzarsi la convivenza, a un tempo dialettica e unitaria, tra i due maggiori filoni della sinistra riformista europea: quello laburista e quello liberale.

 

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