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No primarie, no party!

Luciano Fasano mercoledì 24 Giugno 2015
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cocktail  Sembra curioso ma è così: ogni volta che il Pd subisce una battuta di arresto elettorale, oppure è attraversato da qualche polemica interna sul proprio destino, le primarie vengono messe in discussione. Talvolta gli accenti della stampa sono fin troppo eccessivi rispetto ai toni reali della discussione. Come probabilmente è accaduto all’indomani dei ballottaggi del 14 giugno, quando due giorni dopo le sconfitte di Venezia, Arezzo e altri non meno importanti comuni italiani, la Repubblica ha titolato “Renzi: farò un partito modello USA ma basta primarie”. Ma non deve essere proprio un caso se di fronte a ogni difficoltà si caschi sempre lì: “la lingua batte dove il dente duole, dice un antico adagio popolare. E non si riesce a capire perché il dente dolente del Pd debbano proprio essere le primarie. Anzitutto non è chiaro per quale motivo, a distanza di ormai otto anni dalla loro introduzione per la scelta del segretario nazionale – e di ben dieci anni dal loro utilizzo per la scelta di Prodi come candidato Premier del centrosinistra – i dirigenti del Partito democratico non abbiano ancora maturato la piena consapevolezza che per il loro partito non si tratta di un semplice strumento, ma di un elemento costitutivo della propria anima. Le primarie hanno permesso la nascita del Pd, così come ne hanno permesso il rinnovamento del gruppo dirigente, a partire dal party leader. E ciò è avvenuto non per un mero incidente della storia, ma perché un partito ha deciso di mettersi alla prova dei propri elettori, rimettendo loro lo scettro delle scelte più importanti: candidati e leader, a diversi livelli. Non un dato di poco conto, se si pensa che non vi è un solo partito italiano che abbia deciso di sottrarre il primato di quelle scelte ai propri gruppi dirigenti, sottoponendoli al verdetto inappellabile dei cittadini. Questo argomento, politico più che politologico o sociologico, varrebbe da solo a chiudere questa discussione una volta per tutte. Perché una scelta politica – che si ritiene sia il prodotto di una valutazione approfondita e di una consapevolezza che chi fa politica non può non avere – non può essere difesa o abbandonata a se stessa a seconda della convenienza. Almeno per il rispetto che si deve ai cittadini e ai propri elettori, che forse non a caso in questa fase politica hanno deciso di premiare il Pd, per la capacità mostrata nell’adattarsi alle sfide del momento, a partire dalla selezione di una leadership in discontinuità con il passato, mettendosi con coraggio alla prova del consenso.

Certo, qualcuno obietterà che qui non sono in discussione le primarie tout court, ma le primarie in alcune particolari condizioni. Di male in peggio. Come dire: le primarie à la carte, quelle che facciamo solo quando ci conviene, dove peraltro neppure la determinazione delle condizioni di convenienza appare essere così fondata e consapevole. Ma allora di cosa stiamo parlando? Del fatto, come si è sentito dire in questi giorni, che in Liguria e a Venezia avremmo vinto senza i gazebo? In Liguria e a Venezia – gazebo o no – le divisioni nel fronte del centrosinistra erano probabilmente tali da favorire una sconfitta sul campo in ogni caso. Ed è difficile immaginare che gruppi dirigenti incapaci di trovare una soluzione politica a quelle divisioni in occasione delle primarie, avrebbero avuto la bacchetta magica per trovarla se la scelta del candidato fosse dipesa esclusivamente da loro. Viene dunque da chiedersi: quale valore aggiunto può venire da una procedura di selezione appaltata al gruppo dirigente locale, se le condizioni politiche di contorno sono quelle tipiche di una rottura? Il Pd nasce come partito delle primarie, assunte non soltanto come metodo, ma come aspetto costitutivo della propria identità di partito aperto. Immaginare di fare le primarie per la scelta del segretario di partito e per la selezione del candidato premier, ma non per la individuazione dei candidati alle altre cariche monocratiche istituzionali (a cominciare da quella di sindaco, che poi è anche la figura di per sé più vicina ai cittadini) è insensato. E pensare di ragionare su questo punto come gattini ciechi che si muovono in uno spazio inesplorato, dopo che dieci anni di primarie in Italia consentono di fare ragionamenti fondati sulla realtà, rischia di prospettare per il Pd più che un futuro di partito all’americana, per sua stessa ragione pragmatico e aperto al nuovo, un destino da partito alla bulgara, chiuso nelle sue (erronee) convinzioni e autoreferenziale nel rapporto con la società che lo circonda.

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