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Social media, la politica del pensiero veloce

Antonio Preiti venerdì 30 Novembre 2018
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di Antonio Preiti

 

Non ne sappiamo abbastanza. Il mondo ci ha trasformato sotto i nostri stessi occhi, ma stentiamo a capire il senso dei cambiamenti e le loro conseguenze. La digitalizzazione delle nostre vite ha cambiato il modo in cui si formano le idee e, soprattutto, si distribuiscono tra gli altri. Quelle politiche, innanzitutto. Non abbiamo una guida, una comprensione di come il mezzo (i social media) abbiano cambiato, per sempre, il messaggio. Siamo con gli occhi sgranati, stupiti e spesso indignati o rassegnati, ma senza capire l’essenza di quel che sta accadendo.

Tutti sappiamo, tutti diciamo che i social media hanno cambiato tutto, e che per vincere oggi, sia che vendi un prodotto, sia che vendi una proposta politica, non se ne possa fare a meno. E perciò via di twitter, di post e quant’altro. Senza però una base analitica di comprensione di come le cose siano cambiate.

 

La prima Repubblica: il dibattito di idee

Facciamo due passi indietro. Siamo nel mondo che per convenzione definiamo della Prima Repubblica. Come si formavano e si diffondevano le idee in quel periodo?

Intanto la battaglia era culturale, quella che un tempo si definiva conquista dell’egemonia. In quel tempo vinceva chi dimostrava di avere ideologicamente le idee migliori.

Gioco di parole, ma nemmeno tanto: vinceva chi riusciva a sostenere la superiorità della sua visione del mondo, quasi a prescindere dai risultati. Chi si ricorda il socialismo ideale contrapposto a quello reale? Le idee nascevano dai libri, poi venivano decodificate dalle riviste e dai quotidiani e poi popolarizzate nel dibattito politico. Le idee liberali e quelle socialiste, quelle comuniste e quelle cattolico-sociali. Un dibattito di idee, dentro il mondo delle idee. La politica, anzi le politiche erano una conseguenza. Una proposta aveva senso se era inscritta dentro un corpus di idee dichiarato, che comunque era il driver di tutto il dibattito politico. La politica era pedagogia.

 

La seconda Repubblica: a ciascuno il suo messaggio

Un passo in avanti per arrivare ad anni più prossimi. Siamo alla Seconda Repubblica.

I cittadini adesso hanno “potere”, sono audience: scelgono con il telecomando, sia i prodotti che le idee. Vince chi ha il maggiore potere seduttivo. Cominciano le segmentazioni di mercato. Ogni rete televisiva si dà un profilo (Berlusconi docet) e così attrae una parte della popolazione. Il contenuto politico si mescola alla piacevolezza del messaggio. A ciascuno il suo messaggio. Mentre prima non leggere impediva di fatto di incidere sulla formazione delle idee, adesso questa barriera non c’è più: basta vedere. E scegliere.

Nella Prima Repubblica la battaglia delle idee era condotta tra élite contrapposte: il pubblico doveva essere convinto, ma nulla più. Appunto pedagogia. Con la televisione è diverso: ognuno segue il suo piacere, o almeno le sue preferenze. Il messaggio politico viene ibridato dal non politico. L’audience si raggiunge come identificazione con l’eco-sistema preferito (Rai Tre, Rete Quattro, ecc.). La comunicazione resta comunque da uno a tutti.

 

Un fiume di informazioni

Arriviamo a noi.

Adesso non riusciamo a comprendere pienamente la natura fondamentale delle reti virtuali, anzi non riusciamo a comprendere l’integrazione tra gli esseri umani e le macchine. Perché l’essenza di oggi è proprio la novità della interazione tra le persone e le macchine. Oggi, come un tempo, come sempre, le persone esprimono opinioni e realizzano comportamenti. Non è questa la novità. Certo oggi le opinioni sono amplificate e chiunque può avere una sua piccola audience. Ma l’essenza sta nel ruolo delle macchine, nella combinazione inedita di uomini e algoritmi. Sembrano neutre, le macchine, ma non lo sono. Vediamo perché.

Oggi siamo dentro un fiume di informazioni, anzi di una molteplicità di torrenti, fiumane e cascate di informazione che trovano il loro punto d’approdo nell’unico elemento fisico di questa storia, che è il telefono che teniamo costantemente in mano. L’avvento dell’intelligenza artificiale, prima blando e poi corposo, è il modo attraverso il quale la tecnologia rende “umani”, cioè alla portata della capienza intellettiva e temporale di ciascuno di noi, i flussi di dati che ci arrivano. Perciò la mia ricerca su Google di un termine viene “filtrato” dal motore di ricerca secondo la storia delle mie preferenze. Quello che sembrerebbe un risultato oggettivo: scrivo “Roma” e i primi dieci risultati sembrano i più importanti, ma non lo sono affatto, perché quei primi dieci risultati sono i più importanti per me, o meglio sono quelli che più probabilmente io vorrei trovare, data la storia delle mie ricerche precedenti, il mio profilo e tutte le tracce digitali che ho finora lasciato.

 

Idee che diventano abitudini

È una nuova fisica sociale, che ci insegna che il risultato delle idee della mia mente non è quello di un individuo singolo che pondera le varie alternative e poi prende la sua posizione, ma il frutto di un apprendimento sociale che arriva dal mix di quello che mi restituisce Google, quello che leggo nei commenti da parte dei miei amici di Facebook, quello che trovo nella time-line di Twitter e così via.

Le “nuove” idee diventano abitudini, flusso familiare, parole note, il cui significato semantico è quello che otteniamo proprio grazie alla nostra esposizione. Le nostre idee, e i nostri comportamenti, sono ottenuti sotto la spinta dello scambio di idee che arriva da ogni dove. Ma questo “ogni dove” non è infinito, ma è ciò che viene determinato dalla mia stessa profilazione. L’autoreferenza è alle porte.

Piccola digressione, prima di arrivare alla conclusione. Kahneman, Nobel per l’Economia nel 2002, ha coniato i due concetti formidabili di “pensiero lento” e “pensiero veloce”. Per mille motivi ciascuno di noi usa e cerca di usare quanto più possibile il pensiero veloce, quello immediato, che non ha bisogno di riflessione; che ci induce a spostarci se avvertiamo un pericolo; a prendere quasi a occhi chiusi un prodotto sullo scaffale senza nemmeno chiederci il perché; che disegna un’espressione del viso non appena ci compare o viene citata una persona. Pensiero veloce.

Il pensiero lento è quando soppesiamo le diverse ipotesi; quando ci fermiamo prima di prendere una decisione; quando sentiamo più campane prima di decidere cosa pensiamo. Questo è il pensare lento.

 

Dal computer ai telefoni

Seconda digressione brevissima. Tutto è cambiato quando internet è passato dai computer ai telefoni, ed è successo meno di cinque anni fa. È evidente che lo stato di chi è seduto ad un tavolo mentre usa un computer è diverso da chi scorre il telefono, magari compulsivamente, mentre è sull’autobus o in situazioni analoghe. Inutile dire che gran parte della consultazione dei social media passa dai telefoni, in Italia più che in ogni altro Paese del mondo. I social media sono perciò pensiero veloce. La politica è pensiero veloce. Tutto è pensiero veloce.

Come passa allora oggi la comunicazione politica? O forse bisogna dire della politica tutta intera? Non c’è dubbio che passi dentro i fiumi e i torrenti di informazione che si distribuiscono sui social media. Anche gli articoli dei giornali e le trasmissioni televisive hanno vita e impatto dentro la rete, non a prescindere dalla rete. Il punto è che, per vincere, bisogna fluire dentro questo flusso. Ecco allora che il problema non è “scrivere il tweet divertente” (un po’ lo è anche, ma non è questo), perché se il “tweet divertente” non arriva alla persona che probabilmente lo troverà davvero divertente, sarà inefficace. Tecnicamente, senza intelligenza artificiale i messaggi in gran parte vanno nel vuoto e, soprattutto, non generano addensamento di opinioni.

 

La logica delle macchine

Non è ancora questo, però.

Proviamo a immaginare la società, non come intendevano i marxisti, cioè blocchi sociali inamovibili; non come intendevano i vecchi liberali, come ruoli sociali cristallizzati, con l’ideale borghese come ideale assoluto; meno che mai come la intendevano gli aristocratici, come ossificazione della realtà racchiusa nei nomi. Intendiamola come un incessante flusso di interazioni, di connessioni e di scambi. Intendiamola come sciami che si formano e si riformano, producono un’intelligenza sociale fluida, continuamente in via di ridefinizione, come le onde del mare definiscono il profilo delle acque. Incessante. Ma non è un flusso caotico o anarchico: è regolato dalle macchine e le macchine hanno una logica (gli algoritmi di prossimità) e diventano una guida, o nei casi peggiori una manipolazione.

Se la intendiamo così, allora abbiamo due strumenti fondamentali.

Il primo è quello di “leggere” questo magma continuamente in movimento, composto da vortici parziali che si formano (le tribù che si riconoscono nella rete), e da idee che si affermano e che bisogna intercettare prima che diventino massa, o saper distinguere quell’idea che si perderà nell’oblio della rete infinita da quella che aggancerà sempre più persone. Ma questo semplicemente non è un compito a misura umana, data la mole di informazioni da analizzare: c’è bisogno, anche in questo caso, delle macchine, cioè dell’intelligenza artificiale. Vedere la società così com’è – un mare attraversato da ogni vento e ogni marea, e non come un acquario – permetterà di capire il sentimento popolare come si forma, come evolve, le sue contraddizioni, la sua inafferrabilità profonda e quali conseguenze comporta.

 

Cambiare i comportamenti dall’interno

L’altro strumento è quello di essere propositivi intrecciando le idee nella corrente. Capendo che non funziona l’ipse dixit, ma il giudizio tra pari, il peer-to-peer; che non funziona dettare i comportamenti, ma cambiarli dall’interno, che la “verità” è più spaziale (credo a chi mi è più vicino) che verticale (credo a chi mi parla dall’alto). Le idee non sono statement da affermare in astratto, ma insinuazioni, ancoraggi, riferimenti da calare dentro il flusso delle cose, dei fatti e delle opinioni.

Prima definivamo le persone secondo parametri come l’età, il sesso, la residenza, il reddito, la professione, ma questi elementi oggi servono meno, quello che conta è quello in cui crediamo, chi ci è vicino, come viviamo, con chi parliamo, cosa ci piace e cosa non ci piace. Sono queste le cose che ci definiscono meglio. È questa la nuova sintassi su cui oggi si formano i comportamenti politici. Se non si capisce questo, è tutto guardare al passato. Ma il passato non c’è più.

 

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