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Con burocrazia e giustizialismo rischiamo di sprecare questa crisi

Alessandro Maran domenica 3 Maggio 2020
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di Alessandro Maran

 

Si dice che non bisogna mai lasciare che una buona crisi vada sprecata. Una crisi, per quanto spiacevole, è spesso l’occasione per realizzare cambiamenti altrimenti impensabili e porta con sé lopportunità di una risposta creativa. Non per caso, il New York Times riserva, in questi giorni, la pagina delle opinioni al tentativo di immaginare come la società americana possa alla fine riemergere da questa dura prova «più forte, più giusta e più libera». La pandemia, scrive James Bennet, offre agli americani l’opportunità di mettere da parte le differenze di poco conto, individuare le priorità nazionali e mettersi al lavoro di nuovo per creare «a more perfect union». LAmerica è lAmerica, si dirà. Ma dovremmo fare altrettanto.

 

Trasformare la crisi in un’opportunità

Per noi, trasformare la crisi in un’opportunità significa abbandonare molte delle posizioni sbagliate e pericolose che circolano nella maggioranza che sostiene il governo, ma vuol dire anche fare i conti con un problema che il direttore del Foglio ha riassunto magnificamente: «Uno dei virus economici dellItalia coincide con laver trasformato limmobilismo nellunica forma di legalità consentita. E fino a quando le leve delleconomia saranno nelle mani della repubblica giudiziaria lItalia continuerà a essere un paese destinato a castrare la libertà di impresa e semplicemente incapace di costruire il suo futuro». Quella che a Trieste viene definita la cultura del «No se pol» è, tuttavia, una mentalità diffusa e molto difficile da sconfiggere (Andrej Praselj, un giovane del posto, ha sviluppato un videogioco in cui bisogna schivare degli zombie che, al grido di «no se pol», inseguono chiunque abbia una buona idea).

Dal crollo della mediazione politica tradizionale, da quando il vecchio sistema ha cominciato a sgretolarsi e molte altre trasformazioni sociali hanno generato insicurezza e spaesamento, il nostro paese è pieno di Savonarola che tuonano dal pulpito con toni apocalittici e invitano al pentimento e alla conversione; e da allora, il «popolo» invoca la moralizzazione (e il castigo) dalle piazze virtuali. Insomma, il populismo ha trionfato sulle rovine del sistema politico tradizionale e antiche e radicate concezioni del mondo hanno rialzato la testa inscenando un copione che, in ogni tempo e in ogni luogo, è sempre lo stesso: cera una volta un popolo puro; la modernità (la secolarizzazione, il liberalismo, il capitalismo, il profitto, ecc.), lo ha corrotto; finché un profeta verrà a redimere il popolo predestinato, a cacciare i peccatori e ad aprire le porte della terra promessa.

 

Una strana idea della funzione giudiziaria

Non esiste, del resto, un dittatore che governi «solo» con la forza. La legittimità è determinante perfino nella dittatura più ingiusta e sanguinaria. Perfino il più modesto capo-mafia non potrebbe essere un «capo» se la sua «famiglia» non accettasse per un qualche motivo la sua legittimità. Se l’Italia continua, per dirla con Domenico Marafioti, a muoversi «a passo di giudice», se la «explosion juidiciaire» ha assunto in Italia tratti che non hanno riscontro in altri ordinamenti; se alcune correnti della magistratura proclamano da tempo lidea di una funzione giudiziaria non solo di tutela dellindividuo, ma anche di «garantismo collettivo», quasi contrapposta ad altri poteri dello Stato (con effetti di delegittimazione sia della funzione legislativa che di quella di governo), è perché per la maggioranza degli italiani tutto ciò è giustificato e legittimato dalla necessità di «salvare» il paese (dalla corruzione dilagante, dalla criminalità diffusa e ora dalla «disuguaglianza»).

Che poi, in realtà, le cose non stiano così e che, per esempio, ci sia uno scarto assai significativo tra corruzione percepita e corruzione reale (come rivela il Rapporto Eurobarometro, gli italiani si autorappresentano come corrotti pur essendo invece nella media europea quanto ad esperienza diretta di fenomeni corruttivi), non importa a nessuno. E non fa niente se non c’è più un funzionario pubblico disposto a firmare un’autorizzazione, al punto che la ricostruzione del ponte di Genova non sarebbe stata possibile se il Decreto Genova, non avesse assegnato alla gestione commissariale poteri senza precedenti, mettendola nella condizione di operare in deroga non solo al codice degli appalti, ma addirittura a tutte le norme extrapenali.

 

L’ipertrofia di norme e lo Stato paternalista

Come ricorda Tyrion nel finale di «Trono di Spade», «non c’è niente di più potente al mondo di una buona storia. Niente può fermarla. Nessun nemico può sconfiggerla». Alla base dellipertrofia di norme e regole che governano la nostra società, dell’enorme quantità di inchieste e dell’appoggio entusiastico dei media e di alcuni partiti, c’è infatti una visione del mondo. Una visione agli antipodi della società aperta. Non per caso, sono in molti a pensare che lo Stato (uno Stato etico che vigila e dirige, paterno con i sudditi, spietato con gli eretici) abbia il dovere di moralizzare e omogeneizzare il popolo e che adesso sia venuto il momento dell’espiazione. Per molti il coronavirus annuncia la rivincita dello stato sul mercato, della natura sull’uomo, del popolo sul neoliberismo.

 

La ricerca del capro espiatorio

Ovviamente, se c’è «colpa» ci deve essere «colpevole». In questo senso, la vicenda del Pio Albergo Trivulzio è emblematica del clima di caccia alle streghe che si è sviluppato. La scelta del capro espiatorio da sacrificare perché si plachino gli dei (o la natura) non è mai accidentale e dipende, come ha chiarito Loris Zanatta in uno splendido articolo sul quotidiano argentino Clarin, dalla nostra «cultura», dalla scala dei valori della nostra società. «Non vedo Angela Merkel che da del “miserabile” ad un imprenditore», spiega Zanatta. «In una società in cui l’etica del lavoro è sacra, ci rimetterebbe. Perché denigrare coloro che producono ricchezza, creano posti di lavoro, pagano le tasse? Perché mordere la mano che ci può aiutare? Ma non mi sorprende che lo abbia fatto il presidente argentino, né che i sondaggi lo premino: se il benessere è un peccato e la povertà una virtù, se fare affari significa “adorare il vitello d’oro”, insultarlo tira l’acqua al suo mulino: c’è un capro espiatorio migliore?». Dunque non sorprende neppure, aggiungo, l’uscita di Michele Serra, per il quale i lombardi «hanno sempre ignorato ogni correzione alla religione del profitto», né sorprendono episodi come quello di Monfalcone, in cui i Nas (in nome del monopolio pubblico in materia) hanno sequestrato i tamponi a un’impresa che stava facendo i test ai suoi lavoratori.

 

Il disprezzo nei confronti delle imprese

Come ricorda Friedrich Hayek, in Italia e in Germania fu l’insegnamento dei socialisti a spianare la strada ai fascisti; e uno degli effetti dell’insegnamento socialista fu proprio «il deliberato disprezzo per tutte le attività che implicassero il rischio economico e l’obbrobrio morale gettato sui guadagni che compensano i rischi, ma che solo in pochi possono realizzare». «Non possiamo biasimare i nostri giovani – scrive nella «Via della schiavitù» – quando preferiscono una posizione sicura, stipendiata, al rischio di impresa, dopo che fin dalla loro adolescenza hanno sentito descrivere la prima come una posizione di ordine superiore, più altruista e disinteressata. Le giovani generazioni del giorno d’oggi sono cresciute in un mondo nel quale, a scuola o sulla stampa, lo spirito dell’impresa commerciale è apparso come cosa riprovevole e il fare profitto come cosa immorale, in un mondo nel quale dare lavoro ad un centinaio di persone è presentato come sfruttamento, ma, comandare lo stesso numero di persone dall’alto come un fatto onorevole».

Non si può fermare la corrida mediatico-giudiziaria, tagliare le unghie ai burosauri e rimettere in sesto il paese se non si combatte questa mentalità. Non sarà l’intervento massiccio dello Stato invocato dal segretario della Cgil Maurizio Landini per garantire non più profitto ma sicurezza, qualità della vita e del lavoro e giustizia sociale, a sistemare le cose. La ricchezza si crea nel settore privato e si crea nell’impresa. Dipenderà come sempre dai «miserabili» che scommettono sul futuro, puntano sul quel che credono di vedere e altri non vedono, investono, rischiano e producono, riuscendo a sfuggire agli zombie del «No se pol». Dipenderà dal loro entusiasmo e dal loro ottimismo. Aiutiamoli.

 

(Pubblicato sul Foglio del 27 aprile 2020)

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