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Convenzione di Istanbul e Sofagate: la Turchia dei diritti è sempre più lontana

Rosario Sapienza mercoledì 14 Aprile 2021
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di Rosario Sapienza

Non si è ancora spenta l’eco del cosiddetto Sofagate dei primi giorni di aprile. Tutti sanno che Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea in visita presso il presidente turco Erdogan, ha dovuto accomodarsi sul sofa, mentre il presidente del Consiglio europeo Charles Michel trovava posto alla destra del presidente turco nell’unica poltrona preparata al suo fianco.

Si è detto di tutto, e può anche darsi che la questione abbia origini interne all’Unione, data la sua complessa struttura istituzionale e la nota competizione interna tra le istituzioni europee. Certo nessuno ci ha fatto una bella figura. Men che meno il presidente turco. Tanto più che, anche questo è abbastanza noto, dal 1° luglio di quest’anno la Turchia non sarà più parte della Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e repressione della violenza contro le donne e la violenza domestica.

La dichiarazione del 22 marzo 2021, anticipata due giorni prima da un comunicato sulla gazzetta ufficiale turca, infatti non spiega effetto immediato, ma, come disposto dall’articolo 80 della Convenzione stessa, a partire dal primo giorno del mese successivo a un periodo di tre mesi da quello della notifica del ritiro.
Tra l’altro, la Convenzione venne aperta alla firma l’11 maggio del 2011 proprio a Istanbul (è infatti comunemente indicata come la Convenzione di Istanbul) e questa circostanza venne salutata come la prova della possibilità di un Islam europeo, aperto ai valori della tolleranza e della uguaglianza di genere, che la Turchia poteva rappresentare.

La decisione di ritiro ha suscitato in Turchia e anche in Europa e nel mondo grandi proteste e polemiche.
E comprensibilmente. La Convenzione infatti non è un trattato qualunque, ma un documento di alto valore simbolico, aperto all’adesione di tutti gli Stati del mondo, con l’intento dichiarato di affermare uno standard internazionalmente valido in materia di violenza di genere.

Quasi a voler attizzare il fuoco delle polemiche, poi, nello stesso giorno della notifica del ritiro al Consiglio d’Europa, un comunicato ufficiale del governo turco precisava che il ritiro era dovuto non alla scarsa attenzione della Turchia per la condizione femminile, ma al fatto che la Convenzione, originariamente stipulata per la promozione e protezione dei diritti della donna, sarebbe stata stravolta dall’azione di gruppi di pressione LGBT, volta ad accreditarla come strumento di tutela contro la violenza di genere comunque e verso chiunque perpetrata.

Ora, anche se è vero che nella comunità internazionale si tende a concepire la violenza di genere in maniera ampia, includendo qualunque forma di violenza ispirata da questioni di genere, sembra però che alla base della decisione turca ci siano altre considerazioni.

Oggi, infatti, il quadro politico è cambiato rispetto al 2011 e la Turchia sembra muoversi in una direzione diversa. E ciò certamente per ragioni di politica interna che, come molti osservano, possono avere spinto Erdogan ad appoggiarsi sulle forze più conservatrici.

Ma possono esserci anche ragioni di politica internazionale, e cioè la volontà della Turchia di candidarsi ad una posizione di leadership tra i Paesi islamici, quantomeno nell’area geografica e geopolitica di riferimento. Un elemento di questa strategia è rappresentato indubbiamente dalla politica della Turchia nei confronti dell’Europa.

Ciò, in primo luogo, nei confronti dell’Unione europea, tenuta sotto scacco con la gestione dell’infausto accordo del 2016 secondo il quale la Turchia si è impegnata a trattenere i migranti che cercano di raggiungere i Paesi dell’Unione. Migranti che già più volte Erdogan ha minacciato di non voler trattenere ad oltranza.

Ma la decisione di ritirarsi dalla convenzione di Istanbul potrebbe essere l’avvio di una strategia di confronto duro anche con il Consiglio d’Europa che, tra l’altro, è l’organizzazione che gestisce la Convenzione europea dei diritti dell’uomo, la cui Corte di Strasburgo non è mai stata tenera con i bassi standard di tutela dei diritti umani in Turchia.

Si configura dunque un dossier politico-diplomatico di rango accanto ai problemi giuridici di questo ritiro dalla Convenzione di Istanbul. Non è la prima volta che la protezione dei diritti umani diventa uno strumento della politica internazionale. Certo, la delicatezza del momento avrebbe forse richiesto un poco di tatto in più. Ed anche una sedia in più.

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