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Diaspora dei cattolici in politica: non serve un nuovo partito

Giovanni Cominelli mercoledì 28 Giugno 2023
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di Giovanni Cominelli

 

Quello del rapporto tra Cattolici e Politica è un tormentone che dura almeno dal “Non expedit”, 30 gennaio 1868.

Ad oggi, la diaspora della rappresentanza politica cattolica è assai simile a quella ebraica: va da Art.1, passa per il PD, in modalità Schlein e in modalità “riformista”, attraversa Renzi e Calenda, si insinua in Forza Italia, si presenta vivace nella Lega e in Fratelli d’Italia nonché nel M5S. Vedasi alla voce Marco Tarquinio, ex-Direttore dell’Avvenire, pronto a candidarsi alle Elezioni europee con Conte.

La realtà di oggi è questa: i credenti cattolici sono uniti (?) nella Chiesa, ma sono dispersi su tutti i fronti dello schieramento politico. Ne consegue che nessun partito può rivendicarne la rappresentanza e che non hanno molto senso le accuse che spesso si incrociano tra loro di tradire il Vangelo, se uno vota l’avversario politico dell’altro.

Si può ricostruire uno spazio politico unitario? Non più! Per un intreccio di cause oggettive/soggettive, nel quale i deficit culturali soggettivi si sono rappresi, sedimentandosi come cause oggettive lungo l’arco del tempo. La “causa causarum” è il processo di secolarizzazione/decristianizzazione della società civile, che ha provocato la crisi attuale della Chiesa italiana e della Chiesa universale, forse la più grave dall’epoca della Riforma, come sostiene in una recente intervista lo storico polacco Adam Michnik.

D’altronde, “la cristianità” di J. Maritain, rispetto alla quale egli aveva costruito la distinzione tra l’azione en tant que chrétien e l’azione laico-autonoma en chrétien di “Umanesimo integrale”, che ha illuminato la strada di molti politici cattolici, ha incominciato a finire nel secondo dopoguerra. Di spazi per “il partito cattolico” di De Gasperi o per “il partito di cattolici” di Sturzo non ce ne sono più.

D’altronde, chi è cattolico oggi? Se poco più della metà degli Italiani si definisce cattolico – ma un Roberto Formigoni decisamente ottimista ha dichiarato che Silvio Berlusconi, al netto di qualche Comandamento, era naturaliter cristiano, come gli altri 59 milioni di Italiani, osserviamo noi! – in realtà solo il 20% (?) è praticante. Forse meno. Uno dei criteri è quello dei ritmi di frequenza ai Sacramenti, alla Messa ecc… Sempre più basso. Poi ci sono “i cattolici culturali” e gli atei devoti. In ogni caso, qual è il tratto distintivo di tutti questi “cattolici” in politica? Nessuno. Perciò nessuno può parlare a nome di nessuna interpretazione ufficiale del Vangelo.

Non spetta certo a noi dire che cosa i cattolici devono fare per l’Italia. Siamo solo autorizzati ad esprimere attese, speranze, desideri, guardando alle necessità/domande del Paese.

Benché si debba constatare la debolezza crescente della sfera religiosa nella società civile italiana, l’universo cristiano, con il suo variegato e ricco associazionismo culturale e sociale, con i suoi movimenti carismatici interni, con i suoi preti, le sue parrocchie, i suoi Oratori  – basterà pensare all’esperienza dei CRE, che coinvolgono nel corso dell’estate decine di migliaia di adolescenti – sembra essere rimasto quasi l’unica fonte di cultura civica, di educazione dei giovani, di cultura politica, dopo la débâcle dei partiti, della sinistra marxista, ormai in versione armocromica neo-radicale.

Persino la pianticella stentata del pensiero liberale italiano può attingere linfa su quel terreno. La Chiesa resta una “Maestra di umanità”, carica di sapienza, di visione globale e di storia, come spiegò un giorno Paolo VI a tutti noi.

Che cosa si attende il Bene comune del Paese dai cattolici?  Nessun nuovo partito. Servono altri impegni.

Primo: l’attenzione alla questione antropologica. Detto più pianamente: scienza, culture, comunicazione, tecnologie, biotecnologie, relazioni sessuali di tipo nuovo stanno mettendo in discussione i capisaldi di ciò che viene convenzionalmente chiamata “natura umana”.

L’evoluzione della specie umana sta diventando sempre più autopoietica, non è più il prodotto del caso. Da quando siamo entrati nel campo minato della manipolabilità tecno-scientifica da parte degli uomini dei meccanismi genetici umani, non è facile trarre automaticamente precetti etici dalla pura fede nell’Incarnazione, nella Resurrezione, nel Giudizio finale.

L’ingresso sulla scena umana dell’Intelligenza artificiale è destinato ad aggiungere ulteriori dilemmi. Elaborare un’etica all’altezza del presente – “un’etica per giorni difficili” – è un’impresa impegnativa. Ogni epoca presenta delle questioni cruciali, che non è facile dirimere, semplicemente esercitandosi nell’esegesi biblica. Oggi sono le questioni bioetiche a stare al centro della tensione.

” La natura umana” è un campo di battaglia mobile e incerta, dentro il quale si decide l’umano dell’uomo. Stare ai margini a ripetere stancamente il mito creazionistico e lamarckiano del Libro della Genesi non aiuterà a preservarlo.

Secondo: i cattolici hanno una teoria dello Stato? Il dubbio fu sollevato alla fine degli anni ’70 nei confronti del marxismo. Lo stesso si può avanzare oggi a proposito del pensiero politico dei cattolici, sparsi ai quattro venti.

Dopo il neo-guelfismo di Gioberti e lo Stato cattolico-liberale di Antonio Rosmini, dopo lo Stato delle regioni e dei Comuni di don Sturzo, dopo il costituzionalismo di Giuseppe Dossetti e di Costantino Mortati, dopo “La repubblica dei partiti” di Pietro Scoppola, dopo il “Partito-Stato” di Baget Bozzo, dopo Ruffilli, qual è il pensiero dello Stato dei cattolici che aspirano o a rifare un partito cattolico o, più modestamente, a operare nei partiti esistenti? Una Seconda repubblica è una necessità storica oppure no?

Don Giuseppe Dossetti paventava che l’Italia sarebbe diventata un “paese levantino”, se non si fosse posto mano al rinnovamento profondo del sistema politico. È ciò che è accaduto. Uscire dalla retorica della Costituzione più bella del mondo e porre mano alla costruzione dello Stato del XXI secolo: questa la necessità e la sfida.

Stato e Nazione stanno insieme: se il primo si sfrangia, la seconda non regge, la società si decompone nei conflitti. Occuparsi di leggi elettorali e di premierato basterà?

Terzo: il lavoro non è una maledizione post-paradiso terrestre né il luogo privilegiato dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo né dell’alienazione esistenziale né la terra del precariato. Le 5 grandi Encicliche dedicate alla Dottrina sociale della Chiesa lo descrivono come il contributo del singolo alla creazione della storia del mondo.

È certamente autorealizzazione delle potenzialità umane, che passano all’atto solo misurandosi con il mondo.  Non basta la fede, servono le opere. Viceversa, si sta diffondendo tra le giovani generazioni una concezione narcisistica del lavoro e, pertanto, delle scelte che lo precedono, come momentanea e casuale realizzazione del sé.

La “Great resignation” non è solo la reazione allo sfruttamento – che c’è – e al precariato – che c’è; è anche fuga dal mondo, dalle responsabilità che esso comporta. Tutto ciò solo in Occidente, si intende. Perché in giro per il pianeta ci sono centinaia di milioni di persone che si muovono alla ricerca del lavoro che realizza e che salva. Potrà resistere l’Occidente, senza il ritorno all’”Ora et labora” benedettino?

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