LibertàEguale

Digita parola chiave

La spartizione della Bosnia: la minaccia nazionalista nel cuore dell’Europa

Paolo Segatti lunedì 10 Maggio 2021
Condividi

di Paolo Segatti e Ravel Kodrič*

 

Non è ancora dato di sapere chi, e quando per la precisione, abbia deciso di ridar fuoco alle polveri al di là dell’Adriatico. Da qualche giorno si rincorrono voci e smentite su una serie di non-paper che “ipotizzano” riassetti territoriali degli stati residuati dallo scioglimento della federazione jugoslava. L’ipotesi più temeraria prospetta la spartizione della Bosnia ed Erzegovina fra la Croazia e la Serbia – appetito sopravvissuto a Tudjman e Milošević, defunti cofirmatari obtorto collo degli accordi di Dayton (1995) – e l’annessione del Kosovo all’Albania.

Al di là di chi realmente aspiri all’ennesima semplificazione etno-territoriale, rimane il fatto che la situazione tra le repubbliche ex-jugoslave, e a volte al loro interno stesso, risente, a distanza di un quarto di secolo, dell’equilibrio precario imposto dal Consiglio di sicurezza dell’ONU per far cessare i conflitti armati. La Bosnia ed Erzegovina è il caso paradigmatico. Gli accordi di Dayton hanno congelato la situazione sul campo. La stabilizzazione ha retto grazie anche alla presenza militare dell’Onu e all’auspicio che l’assetto istituzionale fissato a Dayton riuscisse gradualmente a trasformarsi, da mera presa d’atto di quanto la pulizia etnica aveva determinato sul terreno, in un ordinamento federale capace di trascendere l’impianto etnico, assegnando preminenza ai diritti di cittadinanza individuali, pur senza pregiudicare quelli delle libertà collettive inerenti alla sfera linguistico-culturale e confessionale.

Ma non è andata così. Oggi le due entità che compongono la Bosnia ed Erzegovina, quella serba e quella composita dei cantoni bosniaci e croati, sono in realtà, come del resto altri stati dell’area, degli etno-stati nei quali i diritti individuali sono garantiti prevalentemente entro l’alveo del gruppo etnico di cui si è – volenti o nolenti – parte. In questi anni la Corte Europea dei Diritti Umani ha sancito, con diverse sentenze – a partire dalla causa Sejdić-Finci della fine del 2009 – la parità di diritti, in Bosnia ed Erzegovina, di ogni singolo cittadino, a prescindere dalla sua appartenenza etnico-religiosa. La loro applicazione è stata, ad oggi, sconfortante, stante la caparbia ostilità dei tre partiti di raccolta etnica dominanti ad ogni modifica costituzionale in tal senso.

In definitiva, i Balcani occidentali continuano ad essere percepiti come una fonte di instabilità politica perché le diversità e le rivalità etnico-religiose appaiono non conciliabili e accomodabili. In questo quadro, ipotesi di semplificazione etno-territoriale come quelle adombrate dai “non-paper” sono destinate a rigenerarsi ogni qualvolta in questa o quella capitale riprenda fiato l’illusione che al dunque non ci sia altra strada che quella di separare i contendenti, di spostare le genti e costituire istituzioni politiche il più omogenee possibili sotto il profilo linguistico, culturale o confessionale.

Ma dovrebbe essere ormai evidente che dalla fine della Prima guerra mondiale in qua, percorrere questa strada, nell’Europa di Mezzo, non ha risolto il problema di accomodare le diversità. Ha lasciato solo un accumulo stratificato di reciproci risentimenti che ha sempre dato adito a nuovi conflitti.

Né li sta risolvendo in molte altre parti del mondo. A distanza di un secolo la comunità internazionale accusa clamorosi ritardi nella capacità di immaginare e formare istituzioni in grado di garantire, specie in aree spiccatamente plurali, il pieno rispetto dei diritti individuali. Cittadino è ancora troppo spesso inteso come uno status definito esclusivamente dalla condivisione di una identità etno-culturale.

Allora non basta che l’Unione Europea e le cancellerie occidentali ribadiscano che la Bosnia non si tocca, dopo che, per altro, si è chiuso più di un occhio in altre spartizioni. Oppure che i diritti delle minoranze vadano rispettati. È necessario porre in discussione la pretesa di tante classi dirigenti est europee di dare per scontato che chi è diverso dalla maggioranza sia trattato da cittadino di seconda classe, come ha fatto con pacata fermezza papa Francesco davanti alle autorità politiche irachene poche settimane fa. Le stesse opinioni pubbliche occidentali non sono immuni da questo pregiudizio.

Nell’Europa di mezzo, tuttavia, è radicata la presunzione nelle classi dirigenti che gli stati non siano al servizio dei cittadini bensì in via prioritaria della nazione che pretende di esserne proprietaria. Questa idea rappresenta una sfida all’anima dell’Unione Europea. Prima lo si riconosce meglio è.

*Ravel Kodrič, già consulente del Presidente della regione FVG Riccardo Illy per l’area danubiano-balcanica

Pubblicato su il Piccolo il 7 maggio 2021

Tags:

Lascia un commento

L'indirizzo mail non verrà reso pubblico. I campi richiesti sono segnati con *