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Frustrati da Marchionne. Ma aveva ragione lui

Umberto Minopoli giovedì 26 Luglio 2018
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di Umberto Minopoli

 

Quando ho capito che stava una spanna sopra gli altri… Sarà stato il 2006 o 2007. Lavoravo con Pierluigi Bersani, ministro dello Sviluppo Economico. Un giorno imprecisato. C’era un ottimo rapporto con Marchionne. Era simpatico, aperto, alla mano. E stimava Bersani. Gli incontri erano frequenti: a Roma, a Torino.

Fiat usciva dalla crisi pesante del 2003/2004. Prima che arrivasse Marchionne, Fiat era un caso disperato. Da libri in tribunale. Bersani diede una mano decisiva con la rottamazione. Fu un contributo importante. Arginò la crisi. Ma era una una tantum. Non poteva sostituire le politiche ordinarie. Fiat aveva bisogno di una strategia. Che verrà dopo il 2008. Marchionne, fino ad allora, si era dedicato al piano finanziario. I sindacati erano preoccupati. Occorreva una razionalizzazione e un risparmio di costi. Per poter salvare l’azienda. Tutti gli stabilimenti erano a rischio. Specie quelli del Sud.

 

I tavoli di crisi

Seguivo con Bersani i tavoli di crisi. Ne ricordo di drammatici: Ansaldo, Belleli, Ilva, Enichem, Fincantieri Olivetti. Erano i nomi dell’industrializzazione italiana: grandi in casa, piccoli all’estero. Rischiavano la scomparsa. Molti, in effetti, spariranno. Ricordo che il governo e lo Stato accompagnarono con un ingente intervento e ingenti risorse la ristrutturazione. C’era l’illusione che una buona dose di soldi pubblici (si chiamavano accordo di programma) sarebbe stata sufficiente ( pareggiando i costi delle imprese) a rimuovere le ragioni delle inefficienze. Non era vero. Ma tutti ragionavano così: sindacati, imprese, territori.

 

Il caso di Termini Imerese

Uno dei casi piu’ delicati era la Fiat di Termini Imerese. Non stava in piedi, ricordo, non solo per i costi e le perdite. Era logisticamente irragionevole e strutturalmente impossibilitato a produrre in modo efficiente e senza perdite. Ricordo che la Fiat proponeva una re industrializzazione con nuove produzioni, diverse dall’auto e nuovi imprenditori. Ma tutti, compresi gli uomini di Fiat parteggiavano per la solita soluzione: accordo di programma, soldi della Regione e dello Stato, l’illusione di continuare a produrre auto, falcidia di cassa integrazione. Un anno o due per tirare avanti. Poi il problema che si ripropone.

Ma nessun imprenditore delle aziende in crisi aveva il coraggio della verità. Tutti i manager, pubblici o privati, delle aziende in crisi applicavano lo schema consueto: risorse pubbliche, ipocriti accordi di programma e rinvio delle scelte. Aziende mantenute, assistite con sollievo di tutti: imprenditori, sindacati, politici. Nessuno ha mai quantificato quanto costava all’economia italiana, ai conti pubblici, alla crescita del debito, alla perdita di produttività e competitività, al declino. In ogni caso i manager delle aziende, tutti, pubblici e privati preferivano di gran lunga la pratica della mucca gravida ( lo Stato) da mungere al coraggio di chiudere le cose decotte. Anche la Fiat.

Ricordo che facemmo tutti il tifo per rinviare la reindustrializzazione di Termini Imerese. Servivano, se non ricordo male, 800 milioni per tenere l’auto in quello stabilimento. La Fiat insisteva. Noi del governo ci facemmo in quattro, con la Regione, per trovare i soldi. Impossibile. Erano troppi ( arrivammo ricordo a 180 milioni) e poi l’Europa non lo consentiva. Ricordo che eravamo frustrati e delusi. Tutti. Tranne uno. Mi colpì Marchionne.

 

Marchionne non voleva soldi pubblici

Al contrario dei suoi dirigenti che partecipavano attivamente, come erano abituati da decenni a fare, alla spasmodica ricerca di fondi pubblici, Marchionne si disse sollevato. A differenza dei suoi, lui quelle centinaia di milioni per mantenere Termini Imerese sembrava non li volesse veramente. Allora, ricordo, fui deluso. Ma lui fu chiaro: i suoi (forse anche la famiglia Agnelli) lo avevano quasi costretto a seguire la strada del salvataggio e dell’alternativa alla reindustrializzazione. Lui non ci credeva. E non trovava nemmeno morale (oltre che economicamente sbagliato) la strada del salvataggio coi soldi pubblici. Io no. Ero confuso. Credevo veramente al nostro ruolo di salvatori (coi soldi pubblici). Come quelli della Fiat (e quelli di tutte le altre grandi aziende) credevano di continuare l’andazzo di sempre: coprire le inefficienze, rinviare le scelte, accollando allo stato (con la cassa integrazione e finti e costosi “accordi di programma”) i costi. Una gigantesca operazione di socializzazione delle perdite. Che non eviterà all’Italia, nel giro di pochi anni, il default finanziario, il declino industriale e la cancellazione di interi settori produttivi.

Comunque per me quella vicenda fu una scoperta: un manager originale, coraggioso, onesto e…italiano, come Marchionne, non lo avevo mai conosciuto.

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