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Il difficile cocktail delle liste e il caso Ceccanti

Carlo Fusaro mercoledì 17 Agosto 2022
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di Carlo Fusaro

Vedo che la direzione PD per votare le liste predisposte dal segretario Letta slitta di ora in ora.

Twitter riflette – nella bolla degli appassionati – la dura gara ad ottenere una candidatura potabile (e, per i privilegiati, “sicura”: fra virgolette, of course). E ahimé, c’è il solito qualunquismo e la solita facile ironia a palate. Diciamo allora le cose come stanno.
Primo. Da che mondo e mondo chi dirige partiti e partitini ha sempre cercato di piazzare i suoi, dando giusto rilievo al criterio fedeltà (i segretari intelligenti preferendo peraltro la lealtà, ma sono casi eccezionali). Ma di solito si è anche cercato di realizzare un mix che garantisse, accanto alla fedeltà, esperienza e competenza (fa eccezione il M5S). Però, in tutti i casi, sempre e comunque, privilegiando i propri beniamini. [Non perdo tempo: ciò avveniva anche ai tempi delle preferenze. Se a qualcuno interessa, posso spiegare come.]
Secondo. E’ giusto che sia così. Non si può piagnucolare (non io) sui partiti di un tempo che non ci sono più e poi immaginare che il Parlamento sia composto di monadi autoreferenziali e non di donne e uomini che rispondono PRIMA DI TUTTO (casi rarissimi di coscienza, a parte) al loro gruppo e al loro partito. Quello era il Parlamento di due (non uno, due) secoli fa. Un Parlamento più ingovernabile di quanto già non sia.
Terzo. Con gli apparentamenti, specie per chi mette insieme partiti a rischio 3% (diverso il caso, per es., delle tre destre), la faccenda si complica perché si tratta di far posto, nelle candidature uninominali MA ANCHE nei listini plurinominali del partito maggiore (questo il dramma del Pd! e del solo Pd: non è colpa sua), a esponenti dei partiti minori: che non si alleano se non strappano qualche garanzia per i propri dirigenti, magari anche solo due o tre (e si deve capire).
Quarto. Il povero Letta (e lo dico senza la benché minima ironia) deve: calcolare quanti seggi uninominali sicuri ha (pochi, ahinoi), quanti seggi uninominali nei quali la vittoria è concretamente possibile, quanti seggi plurinominali ci saranno (prudenzialmente) e – più o meno – dove. Poniamo si tratti alla Camera di 90-100 posti probabili (massimo) e di 45-55 al Senato: il totale fa 135-150 parlamentari. Ora si dà il caso che i due gruppi della Camera e del Senato uscenti consistano in rispettivamente 97 e 39 componenti: totale 136. Voi capite che scegliere i candidati è cosa ardua.
Attenzione! Meno male che Renzi ha fatto Italia Viva, portando via circa 40 parlamentari. E’ la salvezza di Letta: sono 40 che non gli creano problemi di ricandidatura: fossero restati nel Pd si era alla canna del gas! In questo Matteo R. gli ha fatto un regalone! (Ha aiutato, ma poco, anche Calenda con Richetti e qualche altro.)
Letta dunque deve: far posto agli alleati (che chiedono i collegi più probabili di tutti: ed ecco il fiorire di candidati designati dal centro nelle roccaforti residue di Emilia-Romagna e Toscana con realtivi mal di pancia locali), far posto a qualche nome di prestigio (es.: Cottarelli, vedi sopra), far posto a qualche emergente e a un minimo di rinnovamento (magari proprio dalle sedi regionali), e naturalmente far posto ai nomi di coloro coi quali governa il partito, oltre che agli uscenti interessati a continuare, ai ministri, a personalità da convincere per dar lustro al partito.
La coperta così non è corta, è cortissima.
E’ giusto aspettare le decisioni della direzione Pd prima di esprimere giudizi. Per vedere: 1) che prezzi il Pd ha dovuto pagare ai modesti alleati; 2) che equilibri politici interni rispecchieranno i candidati (in particolare quanti i riformisti che sono restati nel Pd senza seguire Renzi? …in teoria andrebbero premiati, non puniti!): insomma chi ha fatto posto a chi; 3) quale specchio della società viene fuori; 4) quali competenze il Pd potrà schierare nelle difficili battaglie di opposizione che lo aspettano.
Nel frattempo le voci che corrono in Toscana (e non solo), almeno, non sono buone. Né sotto il profilo degli equilibri politici interni né sotto il profilo delle competenze. Faccio un solo nome, non nascondendo – in assoluta trasparenza – che si tratta di un amico personale: non ricandidare, come si legge, Stefano Ceccanti priverebbe il Pd in Parlamento del suo costituzionalista più competente oltre che un grande esperto di lavoro parlamentare (non a caso capogruppo in commissione affari costituzionali e president del Comitato [bipartisan] per la legislazione). Vediamo.

P.S. Come vedete non ho detto nulla sulla riduzione dei parlamentari. Trovo veramente osceno il piagnisteo che leggo ogni giorno intorno al fatto che la riduzione – sorpresa! – rende la scelta delle candidate e dei candidati più difficile, o addirittura che sarebbe colpa della riduzione se gente di valore (appunto come Ceccanti) non venisse candidata: nossignori, la responsabilità è tutta intera di chi sceglie. A meno di non riconoscere che il criterio competenza è meramente residuale…

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