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La Cina, le banche, la globalizzazione

Giuseppe De Lucia Lumeno venerdì 20 Luglio 2018
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di Giuseppe De Lucia Lumeno

 

 

La fine del 2017 e la prima metà del 2018 si stanno caratterizzando  per la ripresa a livello globale del sistema bancario e finanziario, tornato nel complesso a registrare risultati positivi per quanto riguarda il conto economico, riportando valori tali di cui non si aveva più traccia dagli anni prima della crisi.

Se però fino al 2008 gli istituti creditizi più importanti in termini di totale dell’attivo e di volumi intermediati erano stati quelli statunitensi, da cui la crisi economica e finanziaria era partita, oggi nella classifica delle banche dimensionalmente più grandi troviamo ai primi posti istituti di credito cinesi. Per rendere più chiaro ciò di cui si parla basti considerare che la Industrial and Commercial Bank of China (ICBC), la più grande banca cinese e del mondo ha aumentato il proprio capitale di 43 miliardi di dollari più o meno l’equivalente di una banca di dimensioni analoghe a UBS.

Questo deriva dalla forte crescita che il continente asiatico, e la Cina in particolare, hanno riportato in questi anni rispetto agli stessi Stati Uniti e soprattutto all’Europa, con quest’ultima che dalla recessione è stata colpita più duramente e che più lentamente è riuscita ad intraprendere un percorso di ripresa e di consolidamento dell’economia.

Ma questo nuovo scenario presenta anche nuovi pericoli potenziali, specie se si considera lo stretto legame che il sistema finanziario cinese ha con quello politico in un contesto economico nazionale che continua ad essere centralizzato e finalizzato ad una crescita che può provocare anche bolle speculative come avvenuto nel settore immobiliare.

 

La tendenza rischiosa alla concentrazione

Ecco quindi che pericoli per la stabilità del sistema economico e finanziario italiano ed europeo possono avere origine da lontano ma risultare concreti ed anche profondi, come avvenuto nel caso dei mutui subprime americani, e per questo motivo, pertanto, un sistema creditizio più solido è non solo desiderabile ma auspicabile. I dati mostrano che tale strada viene seguita a livello globale e ciò risulta confortante. Prima della crisi il livello di patrimonializzazione delle banche era ad esempio più basso, mentre adesso le paure innescate dalla recessione le hanno spinte, grazie ad una regolamentazione più stringente, a rafforzarsi sotto questo aspetto.

C’è però un rovescio della medaglia in questa evoluzione del sistema bancario ed è quello dell’impulso, prodotto da una comune scuola di pensiero ormai diffusa, a creare gruppi bancari sempre più grandi ed universali che potrebbe tradursi alla fine in un processo di concentrazione dei rischi estremamente pericoloso.

Una tendenza che negli ultimi anni ha contaminato i mercati e l’Europa dove l’integrazione dei servizi finanziari e un mercato sempre più competitivo ha dato origine a gruppi creditizi sempre più ampi e transfrontalieri. Ma è legittimo chiedersi se questa sia veramente la strada giusta o se, invece, non sia più efficace per rendere più sicuro il sistema creditizio nel suo complesso, favorire la formazione di soggetti bancari nuovi e diversi tra loro che operino insieme ai grandi gruppi creditizi, in linea con la teoria secondo cui sistemi bancari meno omogenei risultano essere più resilienti nelle fasi recessive del ciclo economico.

Anche perché ciò che può essere valido come modello in un determinato contesto, come nel caso della Cina e degli Stati Uniti caratterizzati da un mercato ampio, non è detto che risulti idoneo nel contesto dei paesi europei, tralasciando poi il fatto che, comunque, negli USA insieme alle principali banche d’affari risulta essere fortemente radicata la cooperazione bancaria, presente attraverso il movimento delle Credit Unions.

 

L’anomalia italiana

Una ortodossia, quella di favorire esclusivamente la formazione di gruppi bancari sempre più ampi, che nel nostro Pese è stata esasperata a tal punto da portare all’anomalia tutta italiana che vieta ad esempio alle banche popolari cooperative di poter avere una dimensione superiore agli 8 miliardi in termini di totale dell’attivo, cosa invece del tutto naturale in Francia o in Canada dove esistono gruppi cooperativi più grandi delle nostre maggiori banche SpA, a conferma di come anche nel nostro Paese, almeno fino al recente passato, sia stata predominante l’idea che solo le banche o i gruppi bancari SpA potevano aspirare ad ampliare la propria dimensione e come il consolidamento bancario sia necessario per rendere più stabile il sistema.

Viviamo oggi una fase di incertezza che richiede di fare scelte coerenti con la propria storia e in grado di assicurare uno sviluppo sostenibile ed equilibrato. Gli anni della crisi hanno mostrato come le banche del territorio abbiano contribuito a stabilizzare il ciclo economico con una politica anticiclica che ha reso più sopportabile la recessione al tessuto produttivo. È importante quindi tenere a mente questa lezione se non si vuole essere impreparati alle conseguenze che potranno derivare dalle prime difficoltà causate da giganti bancari internazionali creati da un pensiero unico standardizzato che sembra rispondere unicamente ad una ricerca senza fine di massimizzazione del profitto.

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