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La conquista della Luna e l’obbligo di nuove sfide

Ranieri Bizzarri sabato 20 Luglio 2019
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di Ranieri Bizzarri

 

 

In un memorabile passaggio del film “Il Sorpasso”, Roberto (Jean Sorel) rivolge una domanda personale ed imbarazzata al simpatico sbruffone Bruno (Vittorio Gassmann) che lo sta scarrozzando su e giù per un’assolata Aurelia il giorno di Ferragosto. Roberto è giovane e timido, e vuol sapere perché Bruno pensa che lui stia “sbagliando tutto”. Bruno, sorridendo gli dice che non capisce perché nel 1962 (anno del film) uno studente come Roberto debba ancora passare Ferragosto a faticare su una roba vecchia come “Nullità ed attuabilità degli atti processuali”. Studiare sì, ma qualcosa di moderno, come “Diritto spaziale”. Roberto sgrana gli occhi e Bruno continua: “Due astronavi si scontrano: chi è che paga? Oppure: i terreni sulla Luna si possono lottizzare?”.

Il film di Dino Risi riassume straordinariamente il clima del boom economico italiano agli inizi degli anni sessanta, e i suoi presagi più sinistri che l’occhio acuto del Maestro Risi già intravede all’orizzonte nel clima di euforia generalizzata, e che sono sottintesi dal finale tragico del film. Ma questa battuta mostra anche la simpatica ingenuità e fiducia con cui i giovani italiani guardavano nel 1962 all’esplorazione spaziale, iniziata qualche anno prima da americani e sovietici. Era da credere che lo spazio si sarebbe in breve popolato di veloci astronavi in pericolosa rotta di collisione, un po’ come la Lancia Aurelia Spider di Bruno che correva sulle statali italiane; e l’espansione verso Luna e pianeti avrebbe creato opportunità da palazzinari, così come procedeva serrata l’urbanizzazione della penisola.

Nello stesso anno del “Sorpasso”, a più di settemila chilometri di distanza dalla Statale Aurelia, il Presidente americano più amato dei tempi moderni, John Fitzgerald Kennedy, aveva lanciato la sfida alla Luna. Di fronte ad una folla di 40000 persone radunatasi al Rice Stadium di Houston, Texas, Kennedy pronunciò le famose parole “We choose to go to the moon” (Decidiamo di andare sulla Luna). A tanti anni di distanza, queste parole mettono ancora un brivido. Ma forse sono ancora più belle quelle che Kennedy aggiunse subito dopo: “We choose to go to the Moon in this decade and do the other things, not because they are easy, but because they are hard; because that goal will serve to organize and measure the best of our energies and skills, because that challenge is one that we are willing to accept, one we are unwilling to postpone, and one we intend to win, and the others, too” (Decidiamo di andare sulla Luna e di fare altre cose, non perché esse siano facili, ma perché sono difficili; perché questo obiettivo aiuterà ad organizzare e valutare le nostre migliori energie e capacità, perché vogliamo accettare e non rimandare questa sfida, e vogliamo vincerla, come tutte le altre”).

Kennedy ha sempre rappresentato ai miei occhi, e non solo ai miei, la leadership politica più autentica; quella che guarda con lungimiranza alla crescita della società; quella che rimuove gli ostacoli a far sì che ciascuno possa ambire alla propria felicità. Per me è la quintessenza della politica progressista e di sinistra riformista, ovvero l’incessante protendersi verso un futuro migliore per tutti.

Certo: la corsa allo spazio lanciata da Kennedy aveva precise ragioni strategiche e geopolitiche. Nel 1962 la competizione economica e militare tra il mondo democratico a guida statunitense e quello comunista aveva raggiunto un livello estremo, e i timori di una guerra atomica distruttiva erano assai diffusi. Kennedy, sparigliando, volle dare un grandioso segnale: solo il mondo libero e democratico poteva affrontare e vincere una sfida universale come mettere il piede su un pianeta diverso dalla Terra. La grande macchina tecnologica americana, basata sulle sue eccellenti università ed una Agenzia – la NASA – totalmente dedicata all’esplorazione spaziale, ricevette un impulso politico ed economico impressionante.

Come è noto, l’assassinio a Dallas privò Kennedy della soddisfazione di vedere vinta la sua sfida. Il 20 Luglio del 1969 – cinquant’anni fa – Neil Armstrong mosse il primo passo sulla superficie del satellite che rischiara le nostre notti, mentre il mondo guardava emozionato. Il mondo libero aveva trionfato. Il sogno letterario di Cyrano di Bergerac, Edgar Allan Poe e Giulio Verne era diventato realtà.

Nel corso dei decenni successivi la Storia ha preso pieghe più contorte. Accanto a grandi eventi, come la caduta del muro di Berlino e la fine della Guerra Fredda, abbiamo assistito ad immani tragedie come la guerra nella ex-Yugoslavia o in Rwanda. La società è cresciuta, milioni di persone si sono liberate dal bisogno e dalla fame, ma il clima di ingenuo ottimismo che ha accompagnato la conquista della Luna si è lentamente dissolto. Si ha la sensazione che la società abbia progressivamente perso quella capacità di accettare sfide a lungo termine che –da sole- danno un senso al progresso sociale e sono benzina per il motore del progresso economico. In breve, stiamo diventando prigionieri del presente. La crisi politica degli ultimi anni, che è insieme crisi di efficienza e di spirito collettivo, rappresenta plasticamente questa realtà. Eppure sfide in cui cimentarsi non mancherebbero. Le più grandi ce le ricorda ancora Kennedy, che nel suo discorso inaugurale chiamò a raccolta i suoi cittadini e tutti gli uomini liberi del mondo per lottare contro i nemici comuni dell’uomo: la tirannia, la povertà, le malattie e la Guerra.

A cinquanta anni dall’esempio più bello in assoluto di quello che la cooperazione umana può realizzare, la conquista della Luna, abbiamo il dovere di lottare, ciascuno nel suo Paese, nella sua regione e nella sua città, perché la società si ponga e vinca nuove sfide, siano esse piccole o grandi. Serviranno leadership politiche all’altezza. Ma non possiamo e non potremo sottrarci. E’ il nostro destino di uomini liberi.

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