LibertàEguale

Digita parola chiave

La precarietà storica di Israele. Per un nuovo inizio

Giovanni Cominelli giovedì 16 Novembre 2023
Condividi

di Giovanni Cominelli

 

La catena di eventi israelo-mediorientali che è arrivata fino ai nostri giorni non è più smontabile. La storia non è reversibile. Tuttavia, per chi voglia dare origine ad una nuova storia è necessario tornare a ripercorrere gli anelli già connessi, di cui a noi resta in mano solo l’ultimo.

Aiuta, in questa operazione-verità, l’intervista a Ben Gurion, il padre fondatore di Israele, morto nel 1973, riportata da Nahum Goldman in “The Jewish Paradox” del 1978. Sta facendo il giro, come quasi tutto, nella Rete.

“I don’t understand your optimism”, dichiara Ben-Gurion all’interlocutore. E continua così (NdR. traduco): “Perché gli Arabi dovrebbero fare la pace? Se io fossi un leader arabo non verrei mai ad accordi con Israele.

Ciò è naturale: noi abbiamo preso la loro terra. Certo, Dio l’ha promessa a noi, ma questo che cosa significa per loro? Il nostro Dio non è il loro. Noi veniamo da Israele, è vero, ma duemila anni fa, e cosa è questo per loro? C’è stato l’antisemitismo, i nazisti, Hitler, Auschwitz, ma questo è stata colpa loro? Essi vedono solo una cosa: che noi siamo arrivati qui e abbiamo rubato la loro terra.

Perché dovrebbero accettarlo? Forse possono dimenticarlo in una o due generazioni, ma per il momento non si dà tale chance. Così è semplice: noi dobbiamo essere forti e mantenere un esercito potente. L’intera nostra politica è qui. Altrimenti gli Arabi ci cancelleranno”.

Interrompe l’intervistatore. “Ma come può dormire con questa prospettiva nella mente ed essere anche Primo ministro d’Israele?”.  La semplice risposta: “Chi dice che io dorma?”.

È da questa lucido e brutale racconto della storia delle origini di Israele da cui bisogna partire per comprendere l’interminabile e feroce presente.

“La storia non è morale” direbbe sempre Ben Gurion, ma è da questa che si deve muovere per comprendere il presente e per impedire che il futuro ripeta tragicamente il passato.

Poteva nel 1947 l’ONU, alla quale il Governo britannico, incapace di gestire la promessa di Lord Balfour del 1917 di un “Focolare nazionale per il popolo ebraico”, aveva chiesto di subentrare nella gestione della convivenza arabo-ebraica su un territorio già attraversato da conflitti etnico-religiosi, poteva sottrarsi alla richiesta di assumersi responsabilità?  No!

L’ONU aveva davanti due opzioni: a) la creazione di uno Stato ebraico e di uno Stato arabo indipendenti, con la città di Gerusalemme posta sotto controllo internazionale, secondo l’ipotesi della Commissione Peel del 1937, elaborata all’indomani della rivolta araba del 1936-39; b) la creazione di uno Stato federale, modello Usa, che avrebbe compreso sia uno Stato ebraico sia uno Stato arabo. Gli Arabi non accettarono nessuna delle due opzioni. L’ONU, sotto la spinta di Usa e Urss, procedette lo stesso, approvando, con la Risoluzione N. 181 del 29 novembre 1947, il Piano di partizione in due Stati della Palestina elaborato dall’UNSCOP (United Nations Special Committee on Palestine). Il 14 maggio 1948 conseguentemente Ben Gurion proclamò lo Stato d’Israele. Gli eserciti di Egitto, Siria, Transgiordania, Iraq e Libano, riuniti nella Lega Araba, invasero il territorio del nuovo Stato. La guerra finì nel 1949 e Israele vittorioso si trovò così ad occupare porzioni di territorio originariamente spettanti ai Palestinesi, compreso il settore occidentale di Gerusalemme.  Il seguito della storia racconta che la Guerra dei Sei giorni ha dilatato ulteriormente i confini del 1949 e con essi anche la rabbia araba.

L’autocoscienza di Israele dopo la Guerra dei Sei giorni

La guerra del 1967 ha però modificato radicalmente anche l’autocoscienza storico-politica di Israele. Si sono affermati progressivamente orientamenti di sionismo laico espansionista e di pensiero religioso che fa coincidere l’inizio del Regno di Dio in terra e l’avvento della Liberazione solo con la riconquista dell’intera Terra d’Israele, dal Nilo all’Eufrate, sotto l’egida del Dio di Israele, un Dio evidentemente etnico. Queste correnti sono state alimentate dall’afflusso di immigrati sefarditi, provenienti dal Maghreb e dai Paesi arabi, a predominanza ortodosso-integralista, e di immigrati askenaziti dai Paesi dell’Est post-comunista, poco avvezzi alla democrazia liberale e alla separazione Stato-Chiesa.

Il nazionalismo sionista laico, socialista e laburista, che si stava “accontentando” del territorio già conquistato e che era pronto a scambiarne pezzi in cambio di sicurezza, è stato messo in minoranza.

L’assassinio di Rabin è stato la conseguenza di questa trasformazione socio-culturale e demografica della società israeliana, oggi rappresentata da oltre 15 partiti, che si alleano per formare un governo e un’opposizione. Certo, esistono correnti nell’ebraismo mondiale che identificano l’essenza/vocazione storica dell’Ebraismo nella capacità di trascendere nazione e territorio. Ma, appunto, la maggioranza di loro non sta in Israele. E, per completezza, va aggiunto che esistono, anche in Israele, correnti ultra-ortodosse per le quali l’istituzione dello Stato di Israele è stato un peccato, che ritarderebbe, pertanto, l’avvento del Messia.

Lo Stato di Israele è necessario?

Lo Stato di Israele è nato da un gigantesco senso di colpa delle Potenze vincitrici, a risarcimento di secoli di antisemitismo, di pogrom e, si intende, della Shoah. Era storicamente e politicamente necessario? A tale domanda continuano a rispondere No gli iraniani, Hamas, vaste masse arabe e settori di sinistra in Europa e negli Usa. Per anni avevano risposto “No” anche Al Fatah e la Lega araba. Ma con gli Accordi di Oslo di agosto-settembre 1993 tanto Al Fatah quanto i gruppi dirigenti della Lega araba si sono posti sulla strada del SI.

L’Egitto di Sadat aveva già firmato gli Accordi di Camp David del 17 settembre 1978. Sulla strada del SI vanno anche gli Accordi di Abramo del 2020 con gli Emirati arabi e con il Bahrein. Historia facit saltus, a volte. Il loro SI non è una risposta storico-politica alla domanda iniziale, ma una realistica presa d’atto dell’esistenza dello Stato di Israele oggi. E tanto deve bastare. Israele esiste e ha il diritto, internazionalmente fondato, di esistere. E non solo perché è l’unica democrazia del Medioriente. Ma perché è uno Stato.

La precarietà esistenziale di Israele

Si deve tuttavia prendere atto che Israele, dopo l’assassinio di Rabin nel 1995, ha disseminato grossi macigni di inciampo la strada del SI, contribuendo a rendere più precaria la propria esistenza. Il mancato ritiro da tutti i territori occupati durante la Guerra dei Sei giorni – raccomandato dalla Risoluzione n. 242 del 22 novembre 1967 del Consiglio di sicurezza dell’ONU, benché sottoposto alla condizione della contrattabile “sicurezza dei confini,” e confermato dalla Risoluzione n. 338 del 22 ottobre 1973 – la colonizzazione aggressiva e illegale di zone della Cisgiordania e la gestione dei check point tra Gaza e Israele hanno allontanato Israele dalla strada dei “due popoli, due stati”. Il Likud di Netanyahu e i partiti suoi alleati di estrema destra, religiosa e no, hanno praticato una politica di espansione territoriale di Israele, che nei loro deliri biblici prevede la cacciata degli Arabi dalla Terra di Canaan.

Se la distruzione militare di Hamas è il necessario compito del momento, Israele deve cambiare paradigma. Non esiste una terza opzione rispetto a quelle che stavano davanti all’ONU nel 1947. Anche Israele deve scegliere quale delle due.

 

Pubblicato su www.santalessandro.org il 15 novembre 2023

Tags:

Lascia un commento

L'indirizzo mail non verrà reso pubblico. I campi richiesti sono segnati con *