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Luigi Covatta e la sinistra cattolica

Paolo Pombeni martedì 20 Aprile 2021
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di Paolo Pombeni

Su Luigi (Gigi per tutti noi) Covatta si è scritto da più persone, testimonianza del credito e anche dell’affetto di cui godeva, sicché molte cose sono state dette. Senza ripeterle, vorrei soffermarmi su un aspetto che è stato toccato tangenzialmente o anche talora ignorato: il suo inserimento in quella piccola minoranza di cattolici che negli anni Settanta scelse di militare nel partito socialista. La gran parte era di formazione aclista, ma non tutti. Lo erano sicuramente Gennaro Acquaviva, che con Gigi ebbe un ruolo importante negli anni di Craxi, ma anche, sia consentito ricordarlo perché quasi dimenticato, Gabriele Gherardi a Bologna, ex direttore de Il Regno, poi vicesindaco socialista con Zangheri e consigliere regionale.

Gigi come quei cattolici veniva da un percorso nella sinistra cattolica che è una cosa parzialmente diversa da quel socialismo cristiano su cui si favoleggia a volte: una sorta di rivisitazione del messianesimo di Prampolini, un empito verso i poveri e gli emarginati, che è senz’altro cosa nobilissima, ma che non deve fermarsi a un po’ di romanticismo o al massimo ad un coraggioso utopismo. La sinistra cattolica ha una storia lunga: viene dalla riscoperta post 1945 della possibiltà/dovere di creare un’Italia diversa, dall’esperienza attorno alle Cronache Sociali di Dossetti, e poi al movimento complesso dentro la DC (una scelta allora obbligata per i cattolici) per la famosa apertura a sinistra, quella che portò al grande esperimento riformista dei primi governi di centrosinistra. È nella crisi di quell’esperienza, nello shock del ritorno al centrodestra di Andreotti nel 1972, che si radica l’esperienza di quella generazione, che Covatta visse come leader della formazione degli universitari cattolici, l’Intesa, prima che il 1968 spazzasse via i parlamentini studenteschi.

Nella mia modestissima esperienza ho incontrato Covatta dapprima da lettore del settimanale Settegiorni, diretto da Ruggero Orfei e finanziato da Donat Cattin. Era il giornale che testimoniava la voglia di far politica e non utopia della giovane sinistra cattolica, ed è da quel retroterra che si mosse l’iniziativa, affrettata e prematura, di Labor di dare vita al partitino del Movimento Politico dei Lavoratori. Intanto era però arrivato il 68 e i giovani cattolici dentro e fuori delle università si misuravano con la domanda di «essere realisti e volere l’impossibile», di promuovere l’incontro fra marxismo e cristianesimo, e in definitiva di scegliere la propria collocazione fra i movimenti dell’estrema sinistra extraparlamentare e il PCI.

Covatta, Acquaviva e altri, fallita l’esperienza del MPL scelsero di entrare nel PSI. Una decisione davvero controcorrente, perché all’epoca il PSI tutto pareva tranne che un partito del riformismo socialista e certo era una formazione poco interessata al dialogo coi cattolici per antichi retaggi massonici e anticlericali, per quanto ormai inciviliti. Ma il partito era ai minimi storici, sicché non si permetteva di avere la puzza sotto il naso se arriva qualche sostegno imprevisto: mostrare che si può reclutare fuori dei propri territori fa sempre fino.

Se non si tiene conto di questo contesto non si capisce il retroterra intellettuale che portò poi Covatta e quel gruppo ad aderire alla prospettiva di Craxi. Al di là della damnatio memoriae a cui il leader socialista è stato condannato, sarebbe tempo di capire che Craxi, con tutti i suoi limiti, aveva avuto l’intuizione che fosse finita un’epoca. È in questa svolta che c’era davvero posto per tutti coloro che avessero voluto provarci a fare delle riforme, a riprendere, mi permetto dire io, perché all’epoca non sarebbe stato accettato, il cammino del primo centrosinistra.

Covatta si è speso con generosità, così come i suoi amici che venivano dalla sua stessa storia, in questo lavoro che era prima di tutto un lavoro culturale nel senso pieno del termine. Non c’è solo la conferenza di Rimini, a cui molti hanno fatto riferimento nei ricordi che gli sono stati dedicati, c’è anche la sua partecipazione dal 1992 al 1994 alla Commissione per le riforme istituzionali di cui fu vicepresidente. Covatta credeva che il nostro sistema politico e il nostro stato avessero bisogno di ripensarsi, di ristrutturarsi superando i molti ritardi che aveva accumulato.

Sono questa convinzione e questa consapevolezza che lo mantengono protagonista attivo della politica italiana anche dopo la conclusione infelice dell’età craxiana. Non cerca revanche come non pochi hanno fatto, non cerca accettazioni nei nuovi santuari della politica, dove rivivono più le utopie postsessantottine o la resa alla damnatio memoriae dell’avventura socialista che non la ripresa di una riflessione sui problemi del nostro paese e dunque non si è accettati se non col capo cosparso di cenere. Questa sua coerenza andrebbe riconosciuta e giustamente rimarcata non perdendo memoria di decenni della cosiddetta seconda repubblica che per tanti aspetti non sono stati affatto splendidi.

Covatta appena ha potuto ha ripreso quel lavoro della sua giovinezza che era quello di contribuire a «pensare la politica» (che è una cosa diversa dall’immaginare la politica o dal fantasticarne). La raccolta del rinato Mondoperaio sotto la sua direzione è lì a testimoniare che c’è stato un mondo disposto a spendersi per far uscire la politica italiana dalla sua crisi di pensiero, partendo, come era giusto fare, da una coraggiosa opera di rivisitazione di una storia, perché senza radici non c’è futuro.

Chi lo ha frequentato, chi ha scambiato con lui opinioni e riflessioni sa quanto vivace e caustico fosse rimasto il suo modo costante di guardare a quanto stava accadendo in questi ultimi decenni, sempre senza perdere quella capacità umana di rendere tutto sopportabile attraverso uno sguardo tollerante perché partecipe della fatica di vivere.

Sì, Gigi Covatta era un «menscevico» come si definì fra l’ironico e il disilluso nel suo libro del 2005 in cui rifletteva sulle difficoltà del riformismo italiano. E come per i menscevichi anche per lui la storia riserverà un giudizio migliore di quello che ha destinato ai bolscevichi. Purtroppo i tempi per queste cose sono lunghi e i riconoscimenti arrivano molto tardi. Ma Gigi era un credente ed era stato educato in quella cultura che continua nella consapevolezza che se il seme non marcisce e muore non dà frutto.

 

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