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Qual è la vera anima del Pd? Il caso Calenda non è casuale

Michele Salvati venerdì 12 Agosto 2022
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di Michele Salvati

Sono stato un appassionato sostenitore del Partito democratico. Sui caratteri ideali di questo partito – inteso come un partito di sinistra liberale, capace di adattare il vecchio ideale socialdemocratico ai mutamenti interni e internazionali di questi ultimi trent’anni- ho scritto articoli, saggi e libri: da ultimo, insieme a Norberto Dilmore, “Liberalismo inclusivo”, pubblicato da Feltrinelli meno di un anno fa. Sono stato iscritto al partito sin dall’origine, anche quando i suoi equilibri interni e i suoi leader si discostavano dai caratteri ideali che auspicavo. Spero ancora che sia possibile — per il bene del nostro Paese — che questi caratteri restino la stella polare che guida l’azione del partito. Vicende recenti hanno però destato in me qualche preoccupazione.
Quanto è avvenuto domenica scorsa, nella trasmissione di Lucia Annunziata, è stato subito battezzato nel Partito come «il tradimento di Calenda» e sicuramente si tratta di una decisione che si rimangia una parola data e mette il Partito in seria difficoltà. Ma è più di questo. È un altro segnale di un antico difetto di costruzione del Pd, un difetto che espone i suoi dirigenti (di «destra» o di «sinistra» che siano) a tensioni insopportabili: come Saturno divorava i suoi figli, il Partito democratico ammazza i suoi leader perché non è riuscito a creare un senso di comunità, di appartenenza e di identità forte quanto è necessario a consentire la convivenza di inevitabili differenze di opinione. Non è riuscito a creare una identità nuova, di sinistra liberale, e dunque diversa da quella delle forze politiche che confluirono nella formazione del partito: questo era l’auspicio col quale in tanti accompagnammo l’iniziativa di Veltroni.
Credo che Letta, sull’identità del Pd, la pensi in modo piuttosto simile al mio. Il patto che aveva proposto a Calenda era sbilanciato a favore di quest’ultimo e forse il segretario contava su di lui anche per indicare la direzione nella quale il Pd si sarebbe dovuto muovere, una direzione di sinistra liberale. Ma le forze contrarie a questo indirizzo sono così ingranate negli equilibri interni del Pd — e con esse la convinzione che non si devono avere nemici a sinistra, per quanto estremisti e incapaci di governare — che il segretario non si è sentito di affrontarle, e lo capisco: una situazione di urgenza non è certo il momento adatto per uno scontro interno al partito. L’attacco è però avvenuto su un fronte che Letta non si aspettava e considerava come tranquillo, quello con Calenda: «ma come, abbiamo sottoscritto un accordo in cui ti davamo molto di più di quanto ti aspettassi sulla base dei sondaggi: perché ora tiri in ballo questioni interne alla linea del Partito democratico?».
Gli accordi in politica, anche se sono scritti e molto chiari, possono sempre essere stracciati se chi li straccia è disposto a pagarne le conseguenze.
Forse Letta non si è reso conto appieno che Calenda richiedeva molto di più di un accordo «tecnico», di emergenza, di semplice spartizione dei seggi, che poi lasciasse le mani libere ai partiti, e aveva in mente una vera alleanza politica, attraverso la quale potesse influire sulle decisioni che la coalizione avrebbe preso. E di conseguenza chiedeva anche, per quanto riguarda i partecipanti all’accordo, scelte che non smentissero in modo plateale la credibilità di una coalizione politica.
E Calenda, forse, non si è reso conto che Letta questa assicurazione non poteva dargliela. Tallonato dall’urgenza, Letta doveva però tener conto degli umori del partito, un partito che aveva chiaramente manifestato le sue preferenze nella difesa accanita del secondo governo Conte e doveva imbarcare nell’accordo tutti quelli disposti a starci, specie a sinistra: la stessa esclusione dei 5 Stelle era vissuta assai male da settori importanti del Pd.
Un semplice equivoco, allora? Forse Letta avrebbe potuto essere più cauto e certamente Calenda doveva tener conto, prima di sottoscrivere l’accordo, che il segretario del Partito democratico, nella affannosa ricerca della massima possibile estensione di una «alleanza tecnica», non poteva andare troppo per il sottile. Ma anche in questo caso, la situazione sarebbe stata la stessa di oggi: nessun accordo Pd-Azione e il Pd avrebbe affrontato le elezioni solo con i cespugli più piccoli. Ci saremmo soltanto risparmiati un tormentone: purtroppo in una campagna elettorale tormentoni e sceneggiate hanno un costo e una sconfitta piuttosto pesante, assai dannosa per il paese, è ora forse più probabile.
Il «tradimento» di Calenda è però anche la conseguenza di una spaccatura esistente nel Pd, una spaccatura più grave delle differenze di opinioni esistenti e ineliminabili in un qualsiasi partito democratico, e non componibile cambiando in continuazione i suoi leader. Una spaccatura che c’è sempre stata, che il partito non ha mai voluto seriamente affrontare e si è manifestata di recente dopo che i 5 Stelle hanno sfiduciato il governo Draghi. Una parte dei dirigenti del partito, guidati dal segretario, ha ritenuto che i seguaci di Conte non potessero essere inclusi in una alleanza di centrosinistra. Un’altra parte non ha obiettato esplicitamente contro questa decisione (troppo grave l’errore di Conte) ma aspetta in silenzio l’esito delle elezioni, pronta a imputare a Letta la responsabilità di un esito elettorale negativo e passare rapidamente a un nuovo segretario. Il quale, sia esso più vicino a Mélenchon o più vicino a Macron, si troverà di fronte alla stessa situazione… e via proseguendo. Verso dove? Esiste in Italia una via intermedia, socialdemocratica e liberale, tra un Mélenchon e un Macron?
In Francia il Partito socialista non l’ha trovata ed è quasi scomparso. Questo mi preoccupa non poco: forse un congresso, un serio congresso di analisi, approfondimento e riconciliazione, potrebbe essere una buona risposta, se non è finalizzato solo a rimuovere Letta. Altrimenti avrà avuto ragione D’Alema affermando che il Pd è un «amalgama mal riuscito» … anche se ha fatto il possibile per non farlo riuscire bene.

(Dal Corriere della Sera del 12 agosto 2022)

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