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Salvini è il primo leader dimezzato nella corsa al Colle

Vittorio Ferla venerdì 28 Gennaio 2022
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di Vittorio Ferla

 

Matteo Salvini è il primo leader dimezzato di questa corsa al Colle. I 114 voti raccolti da Guido Crosetto al terzo scrutinio – del 26 gennaio – sono la rappresentazione plastica di una leadership franata. Crosetto – cuneese, esordio giovanile nelle fila della Dc, poi ex deputato di Forza Italia e sottosegretario alla Difesa dell’ultimo governo Berlusconi, infine tra i fondatori di Fratelli d’Italia, assai stimato anche nel centrosinistra – è il guizzo di fantasia di Giorgia Meloni. Raccoglie quasi il doppio dei voti potenziali: Fratelli d’Italia ne aveva a disposizione soltanto 63. Neanche i leghisti votano i tre nomi della rosa fatta da Salvini (Moratti-Pera-Nordio). Della serie: abbiamo scherzato. Da registrare un paio di decine di schede vergate con il nome di Giancarlo Giorgetti, l’amico-rivale. Un esito complessivo che appare l’ultimo sberleffo nei confronti di quello che, un tempo, era il Capitano. Prima del voto, il primo braccio di ferro nasce proprio sulla rosa dei nomi del centrodestra. Con i Fratelli d’Italia pronti a votare uno dei ‘petali’ annunciati: il magistrato Carlo Nordio. Ma Forza Italia e Lega evitano la conta. Come insegna il Pd, la scheda bianca è un modo per scongiurare la spaccatura dei gruppi. E, nel caos, il partito della Meloni ha tutto da guadagnare: ecco il perché della carta Crosetto. 

L’idea di un centrodestra unito e coeso come un organismo unico è già affondata. Sempre che qualcuno ci abbia mai creduto. Lo abbiamo già scritto: questo è un Parlamento di minoranze. Di più, uno scenario iperproporzionalizzato. Nel quale, non soltanto è difficile parlare di coalizioni (vale lo stesso per l’alleanza immaginaria tra Pd, M5s e Leu), ma ciascun segretario fa fatica perfino a controllare i suoi stessi grandi elettori. Tutti tranne una: Giorgia Meloni.

Le ultime mosse del leader della Lega lasciano perplessi. Lontani i tempi della “Bestia” di morisiana memoria. Oggi, di ferino, rimane soltanto lo stile con cui Salvini si muove nella delicata cristalleria dei numeri parlamentari e delle relazioni tra segretari.

Nelle settimane di avvicinamento al voto per il Colle, Matteo Salvini si era piegato all’autocandidatura di Silvio Berlusconi, accettando di sposarne la messinscena. Tutti – compresi coloro che non vedevano l’ora di riscatenare contro il Cavaliere la solita solfa degli ultimi 25 anni – sapevano di assistere a un teatrino. Una scelta quantomeno singolare per uno che vuole accreditarsi come nuovo leader del centrodestra. Ma tant’è. A un certo punto, però, Berlusconi si è tirato indietro, in tempo per evitare il bagno di sangue del voto segreto: c’era del metodo nella sua follia. Dopodiché ci saremmo aspettati un Salvini finalmente sul pezzo.

E invece. Il leader della Lega ha cominciato a credere davvero alla illusione di un centrodestra dotato di maggioranza, titolare di un “diritto-dovere di proporre dei candidati dopo 30 anni di presidenti della Repubblica di centrosinistra”. Pure al completo – cioè con i frammenti delle scissioni da Forza Italia – il centrodestra non supera i 455 voti. La soglia dei 505 è dunque lontana.

D’altra parte, se proviamo a riavvolgere il nastro della legislatura, dovremmo rammentare che, a seguito delle elezioni del 2018, il centrodestra provò già a rivendicare l’incarico per la costruzione del nuovo governo nel nome di una presunta maggioranza numerica. Ma il presupposto era fallace – allora come oggi – tant’è che Sergio Mattarella non potè fare a meno di tirare dentro il M5s (il primo partito sul piano aritmetico, allora come oggi). Il resto è storia nota. Fu proprio allora che la tanto proclamata coalizione alla fine si spaccò per fare spazio a una inedita alleanza tra Lega e Movimento.

Lo spettro gialloverde del 2018 sembra tornare ad aleggiare di nuovo in questi giorni. Conscio dei limiti numerici della coalizione, Salvini è tornato a vezzeggiare Giuseppe Conte, proponendogli il nome di Franco Frattini, già ministro nei governi Berlusconi e oggi presidente del Consiglio di Stato. Nome immediatamente impallinato dall’inedita coppia di trincea Letta-Renzi, con il leader di Italia Viva che ha stigmatizzato le simpatie filorusse di Frattini. Non contento di questo smacco, Matteo Salvini ha tirato fuori la cosiddetta rosa: un filosofo (Marcello Pera), una donna (Letizia Moratti) e un magistrato (Carlo Nordio). Se non fosse per i nomi, una batteria di profili che sembrano usciti da una riunione del centrosinistra. Sappiamo com’è andata a finire ieri. In contemporanea, con una modalità che definire goffa è un complimento, il leader della Lega ha pure lanciato il sasso Casellati nello stagno. La speranza – tutt’altro che segreta ormai – è che sulla candidatura della presidente del Senato possa convergere Conte con il suo drappello di grillini. Ancora una volta, però, la strada è senza sbocco. Sul nome di Maria Elisabetta Alberti Casellati, infatti, il Partito democratico (con Renzi) torna a fare le barricate con una minaccia in tre passaggi: fine della maggioranza di governo, caduta di Mario Draghi, elezioni anticipate. Scenario che terrorizza i parlamentari pentastellati (ma non solo loro). Improbabile che Salvini possa spingersi fino al punto di provocare questo cataclisma. Senza contare che nel segreto dell’urna, una buona parte del centrodestra (e del suo stesso partito) gli volterebbe le spalle. I segnali del terzo scrutinio – con l’exploit di Crosetto – sono lì a dimostrarlo.

In sostanza, nonostante Salvini continui a esporre una posa da pistolero ha perso finora tutti i duelli. Il più rovinoso, quello di qualche giorno fa con Mario Draghi: che gli ha risposto a muso duro alla richiesta di garanzie e di rimpasto nel caso di un suo passaggio al Quirinale.

Sarebbe questo, insomma, il king maker che tiene il pallino del gioco? Siamo tornati all’effetto Papeete? È di nuovo la “tragedia di un uomo ridicolo”? Stando così le cose, Matteo Salvini ricorda pericolosamente il Pierluigi Bersani del 2013. E, se questo è il gioco, il pallino sembra piuttosto il classico cerino acceso che già brucia le dita del Capitano.

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