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di Alberto De Bernardi

L’appello “unire i riformisti” pubblicato la settimana scorsa su Linkiesta e promosso da una trentina di personalità del mondo politico e culturale nasce da una consapevolezza e da una preoccupazione.

La rivolta dei ceti medi
La consapevolezza riguarda la presa d’atto del progressivo esaurimento della forza propulsiva del populismo su scala internazionale come risposta all’austerity liberista con cui le classi dirigente dell’Occidente avevano cercato di affrontare la crisi del capitalismo finanziario tra il 2007 e il 2014. Questa risposta si era rivelata fallimentare e aveva aperto la strada a una rivolta dei ceti medi più penalizzati contro le élites politiche e intellettuali e contro le forme stesse della democrazia liberale in nome di un rifiuto dell’integrazione globale del mondo. Alla globalizzazione (l’integrazione del mondo determinata dalla quarta rivoluzione industriali) e al globalismo (l’ideologia della società aperta e multiculturale) queste forze sociali imputavano non solo l’erosione crescente dei loro redditi e il ridimensionamento delle loro aspettative, ma anche la disgregazione della propria identità, tanto più forte quanto più le istituzioni sovranazionali sembravano sempre meno capaci di fornire soluzioni convincenti e adeguate.

La suggestione populista
Questo rifiuto sul piano politico ha assunto diverse forme all’interno delle quali, però, quella più riconoscibile e solida è stata il populismo sovranista, fondato sulla riscoperta delle connessioni profonde tra popolo e nazione, tra stato e identità collettiva, che ha proiettato le sue origini ideali fortemente ancorate a destra anche verso sinistra (basti pensare a Corbyn, a Malenchon, a Ocasio-Cortez, a Fassina e alcuni esponenti del gruppo dirigente del Pd). Per un decennio l’egemonia populista si è risolta in tre esperienze estreme – gli Stati Uniti di Trump, l’America Latina di Maduro e Bolsonaro, la Gran Bretagna della Brexit che ha accomunato Johnson e Corbyn – accompagnate da una serie di fenomeni diversificati – l’Ungheria di Orban, la Polonia dei fratelli Kaczyński, il Messico di Lopez Obrador, ma anche movimenti politici come il lepenismo in Francia o il salvinismo e il grillismo in Italia, per non citare che le principali – ma unificati dalla contrapposizione tra élites e popolo e dalla chiusura dello spazio nazionale al mercato mondiale e alle istituzioni internazionali, all’immigrazione, fino alla riscoperta del razzismo.

Il ciclo populista sintetizzato dalle parole d’ordine di America First di Trump e di France Insoumise di Malenchon in Europa ha colpito soprattutto la sinistra socialdemocratica con la scomparsa di partiti secolari come il Ps francese o il Pasok greco e la crisi dei partiti socialisti scandinavi, tedesco, spagnolo, nella quale è possibile inquadrare le due sconfitte del Pd italiano nel ‘16 (referendum) e ‘18 (elezioni politiche nazionali). Fino alla elezione di Biden alla presidenza degli Stati Uniti, solo le affermazioni di Antonio Costa in Portogallo (2015) e di Emmanuel Macron (2017) in Francia, rappresentavano le uniche sconfitte del populismo in Occidente, ma erano due manifestazioni di resistenza, più che di inversione di tendenza.

La crisi dell’egemonia populista
Ma l’esplosione della pandemia da Covid-19 ha modificato il quadro complessivo. L’Europa ha abbandonato l’austerity di Schäuble e dei paesi nordici per tornare al suo tradizionale keynesismo temperato, pragmatico e sostenibile, mettendo da parte il patto di stabilità e dando vita a una sorta di Piano Marshall europeo che ha fortemente indebolito sia l’antieuropeismo che per un decennio aveva accomunato tutti i progetti populisti e soprattutto, sia il nazionalismo, per l’evidente incapacità degli stati nazionali di affrontare la lotta al virus.

E proprio il fallimento della lotta al Covid ha minato la credibilità di Trump, portandolo a una sconfitta di vaste proporzioni segnalava in maniera evidente come il suo messaggio populista fosse diventato ormai minoritario nella società che andava riscoprendo i valori fondati della democrazia americana.
Ursula von der Leyen e Biden rappresentano i leader di un nuovo ciclo politico, che risulta confermato anche da altri fatti politici occorsi tra il ‘19 e il ’20: la crisi di popolarità di Bolsonaro e Maduro, la vittoria della socialdemocratica Sanna Marin nelle elezioni finlandesi, il successo strepitoso dei verdi in Germania e in Austria nelle elezioni dello stesso anno, con il forte ridimensionamento delle destre populiste, la stabilizzazione della democrazia spagnola attorno al partito socialista di Sánchez, dopo una lunga turbolenza politica caratterizzata da ben quattro elezioni politiche di fila in pochi mesi e dall’esplosione dell’indipendentismo catalano, e anche la crisi del governo giallo-verde in Italia.

Una nuova opportunità
La crisi della suggestione populista e dei suoi leader apre la possibilità che la pandemia si risolva in una straordinaria possibilità di rilancio della crescita mondiale in chiave di economia circolare e sostenibile, di riduzione delle diseguaglianze attraverso forme di welfare universale, di incremento delle conoscenze e delle competenze per valorizzare le potenzialità dell’economia digitale, di moltiplicazione delle opportunità per le giovani generazioni. E proprio di fonte a questo scenario che la consapevolezza si trasforma in preoccupazione, soprattutto se il nostro sguardo si sofferma sulla situazione italiana, perché trasformare le “traversie” in “opportunità” come suggeriva Giambattista Vico, chiama in causa la politica, cioè un progetto e un insieme di forze in grado di costruire consenso attorno ad esso.

Il fallimento del “contismo”
L’esperienza del governo Conte II ha dimostrato che non era quella la strada da perseguire se si voleva seguire l’indicazione dello storico napoletano. Il tentativo di trasformare un campo di forze per impedire l’uscita dell’Italia dall’Europa e dall’Occidente perseguita dalla destra sovranista di Lega e FdI che inglobava anche il populismo anticasta del M5S, in una alleanza stabile e organica capace di guidare il paese fuori dalla crisi pandemica e di progettarne il futuro, non ha dato nessuno dei suoi frutti sperati. Per una ragione molto semplice ed evidente: l’incompatibilità strategica tra riformismo e populismo per l’incapacità di quest’ultimo di essere un effettivo attore di cambiamento. Il populismo è infatti, al di là della propaganda, conservazione sociale e tutela di interessi corporativi, nella misura in cui è estraneo a effettive politiche di sviluppo nelle quali collocare le sue dichiarate istanze sociali. Il M5S è un altro partito del debito, dei condoni, dello spreco e dell’incompetenza, privo di una visione del mondo e delle forze che lo governano, come si è visto nelle città amministrate e soprattutto nella sua azione concreta all’interno dei due governi Conte che ha di fatto diretto.

Il rassemblement demopopulista guidato da Giuseppe Conte, ipotizzato da Bettini, Franceschini, Zingaretti e Bersani da un lato, e da Di Maio, Grillo e Crimi dall’altro, e basato sull’idea del tutto infondata dell’esistenza di un “populismo mite”, di una “populismo democratico” nel quale si sarebbe riconosciuto miticamente il “popolo della sinistra”, si è rivelata una costruzione politicista, destinata a schiantarsi di fronte alla necessità di progettare un piano effettivo di vaccinazioni di massa e di redigere un piano di Recovery Fund che andasse oltre la distribuzione a pioggia di sussidi e ristori e facesse intravedere una idea di paese liberato dai suoi cronici ritardi e le sue antiche tare.

Ma se è vero come ha scritto Giorgio Tonini , che il Pd è ormai diventato il partito dei ceti medi che vivono di spesa pubblica, e il M5S è il rappresentante dei gruppi sociali marginali del Mezzogiorno che vanno alla ricerca di sussidi e prebende, è molto improbabile che dalle classi dirigenti di queste forze venisse fuori un programma in grado di guidare l’Italia nei prossimi dieci anni.

La carta Draghi
Invece il programma che Draghi ha esposto di fronte al parlamento all’atto del suo insediamento rappresenta la traduzione nel nostro paese dell’asse programmatico che tiene insieme Ursula von der Leyen e Biden e che ne fa i punti di riferimento del riformismo possibile in Occidente. Dietro quel programma c’è la tradizione del miglior riformismo italiano che ha guidato l’azione dei governi di centro sinistra in Italia da Amato a Gentiloni, passando per Ciampi, Prodi e Renzi. Ma oggi non c’è un campo di forze in grado di raccogliere quella sfida e di trasformare quel programma nel baricentro di una offerta politica nuova capace di guidare la riscossa antipopulista e di competere con la destra sovranista per la guida del paese.

Non è un caso che sia proprio il Pd che in quel programma si sarebbe dovuto riconoscere a pieno a esserne invece travolto, non solo perché si è trovato all’improvviso senza strategia politica, ma soprattutto perché è ormai privo di un orizzonte riformista nel quale collocare la propria azione politica in questa nuova fase della politica mondiale. Avendo elaborato il lutto della sconfitta del 2018 senza nessuna analisi delle sue effettive ragioni, senza collocarla nel tempo dell’egemonia populista, ma attraverso una demonizzazione strumentale della sua stessa esperienza di governo che aveva rappresentato, pur tra limiti ed errori, una pagina riuscita del riformismo liberalsocialista italiano, il Pd ha progressivamente smarrito le ragioni della sua stessa origine ed è diventato prigioniero di quel social-statalismo che inevitabilmente lo ricaccia nella filiera storico-politica delle tante riedizioni del post-comunismo, a sua volta intrisa di scorciatoie populiste e antiriformiste.

Federare i riformisti
Ma il governo Draghi e il nuovo scenario mondiale determinano uno spaio d’azione per quelle forze che non si rassegnano alla deriva demopopulista del Pd e che non si rassegnano a credere che non si possa ricostruire un network attivo del riformismo liberalsocialista. È in questo quadro che è nato “Unire i riformisti”, proposta/appello per chiamare a raccolta e a una comune responsabilità le forze riformiste dentro e fuori il Pd – Azione, Italia Viva, +Europa, Base, Partito socialista, verdi e altri movimenti – a ritessere i fili di una riflessione comune per costruire quella agenda riformista che manca da troppo tempo in Italia. Non si tratta certo di fare un nuovo partito, quanto piuttosto di dare vita a un campo federato di forze organizzate, ma anche di comuni cittadine e cittadini, che si proponga di portare il paese fuori dalla lunga stagione dell’egemonia populista e sovranista.

Nel giro di una settimana questo appello è stato accolto non solo da molti esponenti della società civile, da militanti di base di tutti i partiti, da intellettuali d’area, ma anche da dirigenti di primo piano di queste forze. Parallelamente nel Pd alcuni dirigenti della minoranza riformista hanno lanciato la convocazione di una costituente del riformismo italiano. Forse la carovana si sta mettendo in movimento.

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