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Alzaga, alla radice della Transizione spagnola

Stefano Ceccanti martedì 7 Dicembre 2021
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di Stefano Ceccanti

 

Oscar Alzaga Villaamil è un avvocato, costituzionalista, nonché ex deputato spagnolo nato nel 1942. Una personalità significativa della transizione spagnola. Ha appena dato alle stampe un bel libro “La conquista de la transiciòn (1960-1978), Memorias documentadas”, edito da Marcial Pons e dalla Fundacion Concordia y Cultura.

Di orientamento democristiano moderato-conservatore e liberale, Alzaga sostiene soprattutto una tesi convincente che è già chiara dal titolo: la Transizione non è stata una gentile concessione, programmata sin dall’inizio in modo voluto, è stata una conquista della sapiente tessitura di un’opposizione democratica, cresciuta nel tempo, giunta progressivamente tra gli anni Sessanta e Settanta ad una maggioranza di consensi nelle generazioni più giovani, e forte di due elementi: il cambiamento della Chiesa cattolica con il Concilio Vaticano II e il pontificato montiniano che delegittimava alla radice di un sistema che non era solo autoritario ma anche clericale e il legame con la Comunità Economica Europea, sempre più necessario per assicurare uno sviluppo al Paese.

A contribuire alla falsa immagine di una Transizione come un “qualcosa di naturale” e di una democrazia come qualcosa che altri “donarono” e non, come nella realtà, “che furono obbligati” a concedere (p. 27) fu anche un episodio descritto nel dettaglio del rogo degli archivi del Regime deciso nel dicembre del 1977 (p. 30). L’intento di evitare vendette, odi, rancori, finì quindi per travolgere anche elementi chiave di memoria storica che sarebbero stati preziosi per illuminare il contesto degli anni della dittatura franchista (p. 32).

La ricostruzione della delegittimazione del Regime da parte della Chiesa conciliare è molto puntuale e dettagliata. Franco capisce subito, già dall’inizio, con la bozza del cosiddetto Schema XIII, che poi diventerà la Costituzione “Gaudium et Spes” sui rapporti tra Chiesa e mondo, che c’è una chiara scelta preferenziale per le democrazie liberali (p. 44), ma soprattutto la situazione diventa irreversibilmente compromessa con l’elezione di Giovanni Battista Montini, notoriamente antifranchista e amico del filosofo Maritain che fin dall’inizio aveva negato legittimità alla dittatura. I cardinali spagnoli vengono ricevuti in ambasciata prima del Conclave che segue la morte di Giovanni XXIII con l’istruzione di opporsi in tutti i modi all’elezione di Montini (p. 63). Da lì in poi Franco è costretto a giocare in difesa, mentre il papa ad uno ad uno sostituisce i vescovi legati al Regime con nuovi presuli ad esso ostili e favorevoli ad un orientamento chiaramente democratico e pluralista (pp. 199-201). Questo non impedisce alcuni colpi di coda dei vescovi pro franchisti, in primo luogo Guerra Campos e Morcillo, che sedevano addirittura come componenti nelle Camere franchiste, compresa la pratica epurazione dei principali quadri dell’associazionismo cattolico giovanile spinti di fatto fuori dal mondo cattolico, con molti che finirono per orbitare nell’area socialista (p. 200 e 243), a cominciare da Gregorio Peces Barba, allievo di Maritain e di Bobbio (pp. 106-107). Alzaga colloca qui una delle cause che hanno impedito la nascita di un partito democristiano spagnolo, da lui auspicato, anche se forse da lui sovrastimata nel determinare tale esito. Il punto è che neanche la nuova classe episcopale montiniana, guidata con grande capacità di leadership ecclesiale ma anche politica dal cardinale Tarancon, intendeva favorire un partito dc: era necessario dopo un rapporto osmotico con un Regime autoritario liberare la Chiesa da qualsiasi rapporto stretto con la politica di parte, anche con la nuova politica democratica. Il cardinale aveva guidato uno scontro molecolare che aveva portato a ben trecento i preti incarcerati per opposizione alla dittatura nel carcere di Zamora a loro dedicato (p. 386), aveva addirittura minacciato di scomunica i componenti del Governo per aver arrestato e cercato di esiliare il vescovo Anoveros (p. 390), ma riteneva ora doveroso battersi solo per la libertà di tutti. La parola “tutti” torna per ben diciassette volte nell’omelia per l’incoronazione del nuovo Re Juan Carlos (p. 441). Proprio per questo, come spiega Tarancon ad Alzaga “la Chiesa deve mantenersi al margine della politica” nella sua accezione di scelta di parte (p. 484).

Tuttavia la mancata nascita di un partito democristiano è legata anche ad altri fattori, non meno importanti. Pesò anche l’assenza di un leader unificante e indiscusso: il montiniano Ruiz-Gimenez che si trovò per una fase alla guida di un provvisorio partito dc era un uomo che interpretava un’esigenza di rinnovamento spirituale e morale, ma era altamente impolitico come segnala l’Autore, forse con qualche eccesso polemico per quello che non è stato ma che comunque non poteva essere (pp. 479-484). Per di più, e ancora più decisivamente, portava lì proprio la via giuridica sostenuta da Alzaga, quella consistente nell’approvare una nuova legge costituzionale rispettando la legalità formale del regime franchista, una “autorottura” del sistema (p. 529), ossia, secondo una felice sintesi di allora, il passaggio “dalla legge alla legge attraverso la legge”, avallata anche dal Tribunale Supremo a ridosso della morte di Franco. Se si adotta un modello di questo tipo per uscire da un Regime autoritario di destra, come concretamente accaduto, lo spazio politico che va dal centro alla destra finisce per essere occupato dalle forze del Regime precedente che hanno accettato il pluralismo votando la riforma, mentre ciò che aveva favorito i dc italiani e tedeschi era il discredito della destra, l’impossibilità di avere rivali seri sul fronte moderato. Per inciso, per quanto abbia avuto storicamente successo e per quanto fosse l’unica prospettiva realistica per oppositori sensati, oltre che per gli esponenti del Regime che avevano capito la necessità della svolta, quella tesi, segnata da un assoluto formalismo, era obiettivamente debolissima. La procedura di revisione prevista dalle norme del Regime era stata pensata per restare ovviamente sempre dentro i principi dello Stato autoritario e così era effettivamente stata utilizzata sin lì: la legge costituzionale del 1966 che era stata citata come precedente perché aveva derogato ad alcune norme delle precedenti, specie al Fuero del Trabajo del 1938, copiata dai testi fascisti (p. 353), era stata solo un limitato lifting del franchismo. Usare quella procedura per giungere ad elezioni libere e competitive tipiche di uno Stato democratico pluralista, aperte persino al Partito Comunista (p. 547), era un’evidente frode alla Costituzione del Regime precedente, come avevano denunciato dal loro punto di vista i pochi parlamentari delle Cortes franchiste che vi si erano opposti.

L’area dal centro alla destra era pertanto occupata dai due partiti espressi dalle forze provenienti dal vecchio Regime e che avevano accettato la democrazia (l’eterogenea Ucd, destinata a durare ben poco e la più coesa Ap, che poi sarebbe diventato il Pp) mentre la sinistra era destinata ad essere egemonizzata dai socialisti anche perché in Europa, compreso il vicino Portogallo da poco democratico (p. 410) era loro la forza dominante, mentre l’eurocomunismo era già in crisi irreversibile. Per queste ragioni, se negli anni Sessanta e nei primi Settanta il protagonismo nell’opposizione di democristiani e comunisti aveva fatto immaginare un esito simile a quello italiano, si era trattato solo di un’illusione (p. 243 e 292).

Il legame con l’Europa, la necessità di scegliere tra il pieno ingresso nello spazio economico e politico europeo, incompatibile col Regime precedente, anche con tentativi timidissimi di autoriforma, è l’altra chiave del volume. L’opposizione democratica la assume come leva sin dal 1962 (p. 87) e vari passaggi della Transizione, compresa rinascita del Psoe con nuovi dirigenti non provenienti dall’esilio con l’assistenza soprattutto della Spd tedesca (p. 418), confermano pienamente questa chiave di lettura.

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